sabato 19 novembre 2016

L’ombra delle parole

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Tragedia e lotta di classe in Grecia: il giorno dopo*
- di Vittorio Citti -

Nella polis ateniese del quinto secolo il teatro costituiva, come già l'epos e successivamente la lirica nella comunità arcaica, il veicolo di comunicazione dei valori fondamentali destinati ai cittadini dal poeta tragico, e dalle istituzioni cittadine che affidavano ad esso la rappresentazione nel teatro di Dioniso durante la celebrazione delle feste annuali in onore del dio. L'ufficialità di questa comunicazione era sancita dalla sede specifica in cui essa aveva luogo, ed è riaffermata nel testo cui ci riferiamo sempre per qualsiasi riflessione sul teatro antico, le Rane di Aristofane [*1], in quel passo a tutti ben noto in cui il personaggio di Eschilo proclama la funzione del poeta di istruire i giovani, come ai bambini insegna il maestro di scuola. Uno degli elementi che contribuiscono a rendere eccezionale la civiltà ateniese del quinto secolo, in relazione alla stessa Grecia, è stato certamente il teatro, questo strumento fortissimo di circolazione delle idee che, intensificando l'effetto normale della comunicazione poetica mediante l'empatia scenica, dominava gli spettatori [*2], in modo che il messaggio del poeta cui l'arconte eponimo aveva affidato il coro raggiungeva non solo i cittadini ma anche gli ambasciatori e gli uomini di stato del resto della Grecia, accorsi ad assistere al festival ateniese in onore di Dioniso. Anche questa funzione specifica era forse presente al Pericle tucidideo, quando definiva la sua polis 'EXXaSoç naiSeumv [*3].
Questo messaggio, comunicato ufficialmente nell'esecuzione del concorso teatrale, veniva ripetuto in seguito nei festival minori dell'Attica, e con particolare frequenza nella comunicazione simposiaca, che ancora Aristofane documenta nell'agone delle Nuvole [*4], quando rievoca il banchetto in cui Strepsiade aveva chiesto al figlio di intonare un fiéXoç di Simonide e quindi un brano di Eschilo, ascoltando invece l'esecuzione un passo dell'Eolo di Euripide, a suo avviso scandaloso. Noi sappiamo, per altra via, che queste esecuzioni simposiache davano luogo ad una circolazione continua dei testi tragici, tanto che a un ateniese eu nenai Seufiivoc si poteva chiedere senza preavviso di recitare una rhesis di Sofocle o di Euripide [*5]. In questo modo l'esecuzione unica della sede ufficiale veniva riecheggiata alle orecchie degli ateniesi in pubblico e in privato, con un effetto durevole di convalidazione dei valori dominanti, che può essere in qualche modo paragonato a quello dei moderni mass media.

La comunicazione tragica, sul cui carattere ufficiale intendo porre l'accento ancora una volta, aveva un significato specifico in rapporto ai valori della vita associata ateniese. In un saggio meritatamente famoso su Tensioni e ambiguità nella tragedia greca, J.-P. Vernant ha negato che la tragedia greca sia il riflesso della realtà sociale : "essa non riflette questa realtà : la mette in discussione" [*6]. Non intendo affermare che Vernant abbia espressamente negato che la cultura greca e le sue manifestazioni letterarie possano anche esprimere i valori fondamentali di quella società : egli, fra l'altro, è anche autore di un pregevole intervento sulla lotta di classe in Grecia, presentato per la prima volta in occasione di un Congresso di Eirene [*7]. Resta il fatto che le sue analisi vertono prevalentemente sulle tensioni e sulle contraddizioni ideologiche espresse dalla tragedia, piuttosto che a individuare la sua funzione di convalidazione dell'esistente. La stessa dizione dell'enunciato che ho riportato è ambigua : il suo significato va ricercato nel secondo membro dell'enunciato piuttosto che nel primo. Per discutere certi aspetti della realtà sociale se ne debbono accogliere altri : senza un punto di appoggio non si può pensare di sollevare il mondo. Taluni studiosi marxisti hanno attaccato duramente l'impostazione e i risultati delle analisi di Vernant sulla tragedia [*8] : credo, sostanzialmente, a torto. Il marxismo è un metodo e non un sistema. Questo non significa che esso possa accogliere indiscriminatamente qualsiasi dottrina, ma che nell'ambito del marxismo c'è spazio per punti di vista differenti e molteplici, e che esso ha la capacità di accogliere nel proprio contesto le verità che vengono da altri punti di vista, se di verità si tratta. Altrimenti esso sarebbe una teologia rovesciata : credo che uno dei suoi pregi sia proprio la sua valenza antidogmatica per cui difficilmente lo si può pensare coniugato con una teologia o con qualsiasi concezione dogmatica della realtà.
Per quanto riguarda il metodo con cui Vernant ha affrontato lo studio della tragedia greca, se si conviene che qualsiasi discussione a proposito della realtà sociale implica l'accettazione di una parte di essa, si tratta di accertare i limiti entro i quali l'assunto che abbiamo riportato è verificabile, e oltre i quali si deve credere invece che il messaggio tragico non comporti discussione, bensì accettazione e convalidamento della realtà sociale. Giacché il testo tragico è una comunicazione che la comunità indirizza a se stessa, attraverso le proprie istituzioni civili e religiose, per bocca del poeta designato a questo ufficio da un magistrato della città, dovremmo aspettarci piuttosto una comunicazione in positivo, la conferma a scopo paideutico dei valori in nome dei quali i cittadini si riuniscono, nella vita quotidiana della polis come nella celebrazione rituale del dio. Questa è la funzione che spetta alla parola nel rito collettivo, come nella sepoltura rituale dei caduti il logos epitaphios ricapitola i valori civici per cui quelli hanno offerto la loro vita e i superstiti li onorano. Ed è, soprattutto, la funzione paideutica che il personaggio aristofaneo di Eschilo attribuisce alla tragedia. Su questa base, sul riconoscimento dei valori che legano insieme i cittadini e che fondano la polis, si può instaurare la discussione. Essa verterà sul contrasto tra il diritto del genos, rappresentato dalle Erinni, e i nuovi rapporti che si instaurano nell'ambito della polis, oppure questa opposizione prenderà le forme di una tensione tra il diritto divino, che impone la sepoltura dei morti, quale che sia stato il loro comportamento in vita, e il diritto civile che valuta ogni azione in rapporto all'interesse prevalente della comunità cittadina, ovvero sul prevalere di nomos o physis, o sui gravi problemi che l'imperialismo insito nella democrazia della polis attica comporta, e sulle contraddizioni in cui esso coinvolge la politica di Atene. Le atrocità perpetrate dagli strateghi ateniesi a Scione ed a Melos trovano una proiezione mitica sulla scena delle Troiane. In questo caso è vero che la società attica discute sé stessa ed i propri comportamenti, ricercando il senso dei valori che la fondano, in un rapporto con la realtà contemporanea che viene mediato ma non soppresso attraverso il paradigma mitico.

Questi, che ho richiamato sommariamente, sono alcuni dei punti in cui la polis mette in discussione se stessa, ed il poeta tragico sollecita alla riflessione le coscienze dei suoi concittadini. Quale è invece, se esso esiste, lo zoccolo duro dei valori civici sulla base dei quali diventa possibile mettere in discussione altri aspetti della vita associata? Certamente gli affetti familiari, la solidarietà civile tra i politai, l'uguaglianza di essi e la libertà di ognuno in particolare e di tutti in generale, nella polis e della polis, il culto degli dei patri, se vogliamo riprendere qui la parafrasi che Eschilo fa del peana che incitava i Greci a combattere a Salamina, "O figli dei Greci, andate, liberate la patria, liberate i figli, le spose, le sedi degli dèi patri: per tutto oggi si combatte" [*9].
Ma se queste sono le realtà civili proiettate in una visione gloriosa e celebrativa, rappresentata davanti agli ex combattenti all'indomani della
vittoria di Salamina, altra e più complessa è la situazione storica in cui si realizza la polis. Ogni associazione comporta di necessità inclusioni ed esclusioni, a vari livelli, ogni forma di liberta, politica e sociale, implica limitazioni e condizionamenti. Tutte queste considerazioni non sono certo nuove né originali: con esse peraltro vorrei avvicinarmi al problema della funzione storica della tragedia rispetto alla realtà sociale della polis. I poeti tragici debbono cioè essere considerati dei sostenitori dell'ordine sociale esistente, ovvero degli innovatori capaci di indicare nuove vie alle coscienze dei loro contemporanei anche sul piano storico-sociale?
Io mi chiedo quindi se essi, oltre a discutere le grandi scelte morali e politiche che si proponevano ai loro concittadini, avvertirono e segnalarono in qualche modo anche i limiti che erano connessi al patto sociale su cui si fondava la società ateniese del quinto secolo, o se invece si adoperarono, in modo implicito od esplicito, per avvalorare nella coscienza dei loro concittadini la convinzione che certe esclusioni su cui quella società si fondava, e che a noi moderni sembrano violenze oggettive perpetrate dalla struttura sociale nei confronti dei gruppi esclusi, erano imposte dalla natura, e quindi oggettivamente giuste e valide, e non già stabilite convenzionalmente dal nomos, e quindi destinate ad essere modificate o soppresse. Mi riferisco in particolar modo all'esclusione che nell'ambito della comunità ateniese valeva nei confronti dei non liberi, dei liberi non cittadini, dei cittadini poveri, delle donne.

Dieci anni fa ho esposto, in uno studio sulla funzione sociale della tragedia greca [*10], la convinzione che essa fosse lo strumento di una forma particolare di lotta di classe: strumento di convalidazione delle strutture sociali esistenti, da parte del gruppo egemone della polis, cittadini maschi di condizione agiata, nei confronti di schiavi, stranieri, poveri, donne. Attraverso una analisi degli enunciati concordi emessi da soggetti differenti, in differenti condizioni sociali e in rapporto a diversi momenti di svolgimento dell'azione tragica, concludevo che i tragici rappresentavano come conforme a natura la condizione subordinata di quei gruppi che con un termine complessivo designavo come classe soggetta. Il meccanismo di sfruttamento che la classe dominante, in diverse forme, esercitava su questi gruppi, costituiva l'elemento selettore che qualificava come tali la classe dominante e quella subordinata, indipendentemente dalla coscienza di classe di cui quest'ultima era evidentemente priva; adottavo per questa conclusione una proposta metodica del De Ste Croix, che egli ha in seguito largamente svolto nel suo volume dedicate appunto alla lotta di classe nel mondo antico. [*11]
Una conclusione del genere, della quale non posso fornire qui la documentazione analitica, non poteva non lasciare spazio a perplessità e critiche da diversi punti di vista [*12]. Da una parte si osservava che qualsiasi indagine portata su un testo teatrale comporta il rischio di attribuire all'autore le opinioni, spesso in contrasto tra loro, dei personaggi che dialogano sulla scena; dall'altra qualcuno ha osservato che in realtà tutti gli Ateniesi ed i Greci in generale la pensavano in questo modo riguardo la soggezione degli schiavi e delle donne, e quindi un'indagine del genere non qualificava in alcun modo il pensiero di Eschilo, Sofocle ed Euripide, che rischiavano anzi di essere appiattiti in una adesione collettiva ai principi del modo di produzione schiavista. Infine c'era il problema di quelli che io avevo denominato come 'scarti' rispetto alla concezione dominante: vale a dire quelle rappresentazioni della realtà umana umiliata nel rapporto sociale, come le sofferenze di Danae nei Trascinatori di reti di Eschilo o di Io nel Prometeo [*13], che rivelavano nel poeta la consapevolezza di una realtà più profonda di quello che il rapporto di subordinazione sociale comportava. Anche l'affetto che la Nutrice di Oreste rivela per lui, quando nelle Coefore ne viene annunciata la morte [*14], comporta una attribuzione alla schiava di capacità affettive e morali che vanno ben oltre la sua funzione specifica di prestatrice di mano d'opera non retribuita, ed il riconoscimento di una dignità umana. Da questo punto di vista, dunque, i poeti tragici avrebbero presentato al pubblico realtà che non corrispondevano per nulla alle funzioni imposte dal sistema sociale in atto, e sarebbero stati implicitamente i contestatori di esso ed i promotori del progresso sociale. In particolare per Euripide, a proposito della sua concezione della donna, si è sottolineata la carica liberatrice che avrebbe comportato la presentazione in scena di un personaggio corne Fedra, attraverso la rappresentazione psicologicamente efficace dell'eros femminile, una rappresentazione che non avrà certo lasciato indifferente il pubblico ateniese, come sappiamo ancora dall'agone delle Rane [*15], e l'apertura universale che il poeta avrebbe fatto, facendo della barbara Medea addirittura il portavoce della causa dell'intellettuale, incompreso ed isolato in mezzo agli interessi banali della massa. Infine c'è stato chi, come Katherina Synodinou, in un importante lavoro dedicato al concetto di schiavitù in Euripide [*16], è giunta alla conclusione che il poeta tragico avrebbe avversato la dottrina del carattere naturale della schiavitù, e anzi, sul fondamento di Hec. 332 s., che egli debba essere compreso tra quelle persone - cui si riferisce, senza nominarle, Aristotele in Pol. 1253 b 20-22 - che si opponevano alla teoria del carattere naturale della schiavitù, affermando invece che essa sarebbe stata basata su un puro rapporto di forza.
Vorrei provare a riflettere su questi problemi, in parte formulati in rapporto alla mia ricerca in recensioni o comunicazioni private, ma che per lo più derivano da ricerche autonome ed indipendenti, come nel caso del lavoro della Synodinou, che è addirittura anteriore alla data di pubblicazione del mio libro, pur se non mi è giunto in tempo perché potessi tenerne conto.
L'analisi degli enunciati di un testo teatrale comporta certamente dei rischi, se qualcuno pretende di identificare il punto di vista dell'autore con quello particolare di un personaggio, facendo di quest'ultimo il portavoce del messaggio del poeta. Un simile procedimento è certamente inaccettabile. Ma la precauzione di assumere soltanto i punti di vista che ricorrevano costanti, enunciati da personaggi diversi in situazioni diverse, indipendentemente da particolari momenti dell'azione scenica, potrebbe forse essere sufficiente. Tuttavia una verifica con un altro metodo può essere opportuna. Mme Marie-Madeleine Mactoux, dell'Università di Besançon, nella sezione da lei composta di una relazione che abbiamo presentato congiuntamente a un seminario dell'Università di Palermo sulla tragedia romana e i suoi ipotesti, ha applicato le categorie greimassiane dell'analisi attanziale alla trama dell'Alessandro di Euripide, in cui già B. Bilinski aveva voluto individuare l'adesione alle ben note tesi antifontee sull'unità fondamentale del genere umano [*17]. Il risultato che si evince da questa analisi delle strutture del dramma conferma l'impressione che ne avevo avuto un tempo: le conclusioni del dramma portano a riconoscere nello straordinario valore dimostrato dallo schiavo pastore la valentia innata nel suo sangue regio, di cui il pubblico era fin da principio a conoscenza, in modo da non potersi ingannare sul senso del fabula docet [*18]. Per quanto si può quindi ricavare da questa verifica, Euripide non era certo tra i contestatori dell'istituto della schiavitù. Credo che altrettanto si debba concludere a proposito dei molti luoghi euripidei in cui sono presentati degli schiavi moralmente o intellettualmente eccellenti. Dobbiamo riuscire a distinguere il giudizio, implicito o esplicito, relativo alla schiavitù come istituzione, dall'apprezzamento delle qualità morali di certi schiavi. In realtà per Euripide esistono schiavi nobili, yEwaïoi, ma questa loro virtù si esplica nell'essere pronti a sacrificare la loro vita per i padroni, come nel caso del pedagogo di Creusa nello Ione e dello schiavo di Teonoe nell'Elena [*19]. Questo rientra rigorosamente in una concezione strumentale dello schiavo, che ha la propria arete come può averla un buon cavallo o una buona spada, in quanto adempiono alle funzioni cui sono destinati dai rispettivi proprietari. Le qualità umane di dedizione e di amore che essi dimostrano sono indubbiamente un'eccedenza significativa ed una testimonianza delle capacità di intuizione umana del poeta, come lo era, nel caso di Eschilo, la figura premurosa della nutrice di Oreste, ma il valore di queste eccedenze deve essere forse valutato da un punto di vista diverso. Non mi pare che se ne possa dedurre un giudizio a proposito della istituzione. Lo stesso vale per l'evidenza delle figure femminili in Euripide, un argomento su cui si è scritto moltissimo e che rivela un aspetto importantissimo della sua poetica, e certamente anche innovatore, come la sensibilità acutissima di Aristofane segnalava ancora una volta. Ma questo non dice nulla sulla soggezione femminile perpetrata dalla società ateniese, anzi Euripide rappresenta Medea trascinata dal suo Bicos irrazionale anche contro i suoi affetti più cari, e Fedra dominata dalla àippoauvTi. Le strutture sociali del resto sono rispecchiate sulla scena come esistevano nel mondo del poeta e del suo pubblico, e cosi implicitamente avvalorate come naturali, come si rappresenta il sole che illumina e l'acqua che bagna, semplicemente perché queste cose stanno cosi, nell'universo in cui l'emittente e i destinatari vivono o cui si riferiscono. Per il fatto stesso che questi rapporti sono riprodotti oggettivamente, alla stregua di fenomeni naturali di cui si prende atto, essi vengono avvalorati. Nessuno si lamenterebbe ragionevolmente del fatto che l'acqua bagna, neppure se un acquazzone lo cogliesse per strada senza ombrello. Magari si lamenterà della sua sorte, come fanno le donne Troiane ridotte in schiavitù, ma non per questo si potrà pensare che quel signore sia un oppositore del sistema di circolazione dell'umidità atmosferica, o un avversario della caduta dei gravi. Per questo non credo che dalle espressioni amare di Ecuba, Andromaca o di altre Troiane prigioniere si possa ricavare una pretesa adesione del poeta alle teorie dei sofisti sull'unità del genere umano. Vincenzo Di Benedetto ha fatto giustizia, una volta per sempre, delle dottrine che pretendevano Euripide allievo dei sofisti o portavoce della sofistica [*20]. La schiavitù è un grande male per colui sul quale essa si abbatte, come la morte è un male. Ma si tratta di mali conformi all'ordine di natura: possiamo dolercene se toccano a noi, senza per questo pensare a sopprimerli. Almeno dal punto di vista di Euripide.

Direi pertanto che la concezione del carattere naturale dei rapporti sociali di subordinazione vigenti nella società ateniese del V secolo, e del sistema di inclusioni ed esclusioni su cui quella comunità civile si fondava, fosse implicita nelle rappresentazioni che, sia pur con intonazioni differenti, i tre grandi tragici fanno di quei rapporti e di quel sistema sociale. Il fatto che tale adesione fosse implicita costituisce se mai conferma della misura in cui essa era radicata profondamente nel modo di sentire dei poeti e della massima parte del loro pubblico, in cui gli intellettuali che potevano condividere il punto di vista di Antifonte erano certo un'infima minoranza, se c'erano. Prova ne sia il fatto che tra le numerose testimonianze che possiamo raccogliere sulla recezione del messaggio teatrale presso i contemporanei, anche per quanto riguarda il novatore Euripide, non abbiamo alcun indizio che possa autorizzarci a credere che qualcuno vi avesse visto una critica della condizione attuale dello schiavo, della donna o dello straniero.
Sembrerebbe quindi che la tragedia, sia pur nelle forme fortemente differenziate che erano proprie dei tre grandi poeti di cui leggiamo una parte dell'opera, manifestasse un fascio ben differenziato di messaggi in rapporto ai problemi della vita associata della polis ateniese. Sia pur attraverso la mediazione della proiezione mitica, o l'allontanamento che la scena comportava anche per gli avvenimenti storici recenti, la tragedia metteva in discussione le situazioni politiche e magari anche le istituzioni tradizionali della polis : la storia politica e l'antropologia ci mettono in grado di valutare questi atteggiamenti di critica. Un sostanziale rispecchiamento invece era riservato alle strutture costitutive del corpo sociale, ai rapporti di produzione dei beni e a quelli che stavano alla base della riproduzione biologica della comunità stessa. Da questo punto di vista la tragedia può forse ancora essere considerata uno strumento di convalidazione delle strutture sociali esistenti, gestito da parte della classe detentrice del potere di sfruttamento nei confronti dei gruppi sfruttati. Ma proprio quest'ultimo punto richiede forse un'ulteriore riflessione e l'acquisizione di valutazioni complementari.

Un testo letterario, ed in particolare un testo teatrale, è per sua natura polisemico e comporta vari sensi in funzione di destinatari diversi. Da quanto si è detto finora risulta probabile che le rappresentazioni tragiche non comportassero una contestazione della realtà sociale nel rapporto storicamente documentabile tra Eschilo, Sofocle ed Euripide, ed i rispettivi destinatari propri, vale a dire il pubblico dei cittadini della polis e degli ospiti di riguardo che assisteva alle rappresentazioni tragiche sulle gradinate del teatro di Dioniso, e che riproduceva poi nella prassi conviviale i passi che più lo avevano colpito. Ciò non significa tuttavia che certi aspetti anch'essi presenti nel teatro tragico non potessero o non possano prestarsi, in relazione a diverse sensibilità culturali di nuovi destinatari, non previsti dal poeta ma pur raggiunti dal suo messaggio, a letture diverse ma non per questo meno valide.
L'intensità della rappresentazione di Fedra, nella sua passione amorosa per il figliastro e nel dramma che ella vive in relazione all'ethos e aile convenzioni del suo tempo, l'autenticità del dramma di Medea, sia nel suo isolamento come stranicra e aofl, sia nell'umiliazione che le infligge la perfidia di Giasone, scoprono profondità di valori esistenziali che non si riassumono nei rapporti del governo dell'oïxoç e della riproduzione del corpo sociale; lo stesso si dirà delle sofferenze di Danae angosciata per i rischi in cui è esposta con il suo bambino in seguito all'arbitrio di Zeus, o per la profonda dignità morale della scelta di Antigone. E non è dubbio che la nutrice di Oreste o i servi di Medea dimostrino una partecipazione affettiva, che esprime valori che possiamo chiamare genericamente umani, e che comunque non sono riducibili ai rapporti economici che li legano ai loro padroni. Queste persone sono certamente schiavi-merce, ma pensano, amano e soffrono in modi che sono propri delle persone e non delle merci, senza differenziarsi in questo dai liberi.
Euripide non puô essere in nessun modo compreso tra i contestatori della soggezione della donna o della schiavitù, ma quando, in situazioni storiche radicalmente differenti da quelle di Euripide, qualcuno contestò quei rapporti sociali, costoro potevano indicare nelle rappresentazioni euripidee della donna e dello schiavo uno spessore umano capace di essere letto in positivo corne anticipatore di nuove idee e di nuovi rapporti.

Questo è il fenomeno della polisemia del testo. In virtù di esso, nuovi destinatari possono ritrovare nel testo valori di cui l'autore stesso e i suoi contemporanei non avevano sospetto, ma per questo forse non meno legittimi.

- Vittorio Citti - In: Dialogues d'histoire ancienne. Vol. 17 N°2, 1991. pp. 79-90.

NOTE:

* Questo testo è stato comunicato per la prima volta a Berlino il 9 déc.1988, in occasione della Internationale Tagung "Volksbewegungen und Klassenkàmpfe" promossa dal Zentralinstitut fur Alte Geschichte und Archaologie della Akademie der Wissenschaften der DDR : gli avvenimenti successivi in Germania hanno reso impossibile la pubblicazione degli atti di quel convegno, e ringrazio Pierre Lévêque per aver accolto in questa sede la mia comunicazione. Corrono tempi duri per le ideologie, ma noi crediamo ancora che queste prospettive costituiscano l'orizzonte circoscrivente di qualsiasi discorso storico sensato.
[*1] Aristoph. ran. 1054-56.
[*2] Cf. O. TAPLIN, Greek Tragedy in Action, London 1978, 159-71 e la mia nota Formes et niveaux du transfert dans le théâtre grec, CGITA 4,
1988, 143-45, anche per ulteriore bibliografia.
[*3] Thuc. 1,41,1.
[*4] Aristoph. nub. 1351-90, con il commentario di DOVER, ARISTOPHANES Clouds, by K.J.D., Oxford 1958.
[*5].Per questa forma di trasmissione di testi tragici nel simposio, cf. la mia nota "Lo scortese e la tradizione orale dei testi tragici", Lexis 2, 1989, 75-77.
[*6] J.-P. VERNANT, Le moment historique de la tragédie en Grèce, in J.-P. VERNANT et P. VIDAL-NAQUET, Mythe et tragédie en Grèce ancienne, Paris 1972, 25, tr. it., Mito e tragedia nell'antica Grecia, Torino 1976, 12 : su una posizione prossima si colloca quindi il saggio di S. GOLDHILL, The Great Dionysia and Civic Ideology, ]HS 107, 1987, 58-76.
[*7] J.-P. VERNANT, Remarques sur la lutte de classe dans la Grèce ancienne, Eirene 4, 1965, 5-19, rist. in J.-P. VERNANT, Mythe et société
en Grèce ancienne, Paris 1974, 11-19, tr. it., Mito e società nell'antica Grecia, Torino 1981, 3-22.
[*8] V. DI BENEDETTO, La tragedia greca di Jean-Pierre Vernant, Belfagor 33, 1978, 462-68, rist. in V. DI BENEDETTO - A. LAMI, Filologia e marxismo, Contro le mistificazioni, Napoli 1981, 107-14 ; in questo volume il primo capitolo, "Dogmatisme ed eclettismo", è particolarmente efficace per la comprensione del pensiero di Di Benedetto.
[*9] Aesch. Pers. 402-5.
[*10] V. CITTI, Tragedia e lotta di classe in Grecia, Napoli 1979.
[*11] G.EM. DE STE CROIX, Karl Marx and the History of Classical Antiquity, Arethusa 8, 1975, 7-41 ; ID., The Class Struggle in the Ancient Greek World, London 19832 (1981) ; certo in quel libro il giudizio sul mio lavoro, "the most relevant of those I know", in rapporto alla ricerca italiana di ispirazione marxiana, è eccessivamente generoso.
[*12] Tragedia e lotta di classe è stata recensita da F. GIANCOTTI, Tuttolibri 5, 35 (22-9-1979), 18 ; A. DE VIVO, Vichiana 8, 1979, 391-93; G. TEDESCHI, PPol 12,1979, 482-83 ; F. JOUAN, RPh 54, 1980, 345-46; A. MARTINA, Orpheus 1, 1980, 498-502 ; S. SAID, REG 93,1980, 345-46; S. AMATO, RIFD 57, 1980, 516-17 ; E. CULASSO GASTALDI, AeR 26, 1981, 80-82 ; L. PAGANELLI, GFF 4, 1981, 80-82 ; C.W. MCLEOD, CR 31, 1981, 107 ; R.G.A. BUXTON, JHS 101, 1981, 172 ; J. PÔRTULAS, Faventia 3, 1981, 31-46; A.M. ScARCELLA, Klio 64, 1982, 229-32; L. DI GREGORIO, Aevum 58, 1984, 83-86 e H. KUCH, DLZ 106, 1985, 953-57; ma ho ricevuto occasione di riflessione anche da comunicazioni private di molti amici, che mi hanno manifestato la loro approvazione o le loro critiche: debbo ricordare, con particolare gratitudine, le lettere apertamente critiche di Antonio Maddalena e di Giovanni Tarditi. Infine ho profittato di molti lavori che sono apparsi in seguito sull'argomento, tra i quali segnalo il volume miscellaneo su Die griechische Tragodie in ihrer gesellschaftlichen Funktion hrsgg. von H. KUCH, Berlin 1983 (che io ho recensito in DLZ 107, 1986, 251-55).
[*13] Aesch. fr. 47 a R, PV 647 s., cf. Tragedia e lotta di classe 53 s., dove il titolo Danae per Dictyoulkoi è una évidente svista.
[*14] Cho. 743 s., Tragedia e lotta di classe 64 s.
[*15] Aristoph. ran. 1043-46, su cui cf. D. LANZA, Una vittoria di Euripide: l'Ippolito, in Atti delle giornate di studio su Fedra, Torino 7-9 maggio
[*16] K. SYNOUDINOU, On the Concept of Slavery in Euripides, Joannina 1977, in part. p. 106-8; cf. la recensione di H. KUCH, Klio 69, 1987, 601-3.
[*17] M.-M. MACTOUX - V. CITTI, L'esclavage dans les tragédies d'Ennius, in Atti del secondo seminario di studio sulla tragedia rotnana, Palermo 8-11 nov. 1988 (in corso di stampa) ; cf. altresí B. BILINSKI, Rôle idéologique de la tragédie romaine sous la République, I, L'Alexandre d'Ennius et les premières révoltes d'esclaves, in Tragica II, Travaux de la Société des Sciences et des Lettres de Wroclaw, Série A, nr. 54, 1954 ; per l'applicazione delle catégorie greimassiane a un testo teatrale, cf. A. UBERSFELD, Lire le théâtre, I, Paris 19822 (1977), 53-107. Dobbiamo anche aggiungere che l'identificazione del testo contenuto nel POxy
3647, e la conseguente nuova ricostruzione del fr. 44 DK del sofista, rendono oggi assai meno certo che Antifonte volesse estendere l'eguaglianza naturale tra gli uomini anche alle relazioni sociali : cf. ultimamente G. BASTIAN1N1 - F. DECLEVA CAIZZI, in Corpus dei papiri filosofici greci e latini, I I, Firenze 1989, 176-92.
[*18] Tragedia e lotta di classe 206 ; cf. altresí H. BRANDT, Die Sklaven in den Rollen von Dienern und Vertrauten bei Euripides, Hildesheim 1973, 15-17.
[*19] Eur. Ion 819 s., 950 s., Hel. 1 639 s., cf. altresí IA 304 s.
[*20] V. DI BENEDETTO, Euripide : teatro e società, Torino 19752 (1971), 80-85.

fonte: PERSEE

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