sabato 13 marzo 2021

Il soggetto & la crisi

Narcisismo collettivo di crisi
- Quando il soggetto in crisi si gonfia con sufficienza fino a sembrare grande quanto una «nazione» -
di Clément Homs

«Sicuramente, c'è l'economia e la disoccupazione, ma quel che essenzialmente conta è la battaglia culturale e identitaria» (Manuel Vallis, 4 aprile 2016)

Il processo che ha a che fare con la formazione dell'identità moderna, ovviamente, non è di certo estraneo alla sua iscrizione nel funzionamento logico e nella dinamica del capitalismo.  Si potrà, beninteso, parlare di recrudescenza di identità etniche e religiose negli anni '80 e '90, soprattutto nel mondo arabo (il cosiddetto processo di reislamizzazione è caratteristico di ciò che Ernst Lohoff e Norbert Trenkle chiamano «religionismo» [*1]) e in Africa, durante quello che è stato chiamato il «decennio del caos», oppure si potrebbe evocare anche «l'ondata di passioni e di odio nazionalista che ai nostri giorni sta travolgendo l'Europa post-comunista» (Leszek Kolakowski), di cui si è conosciuto il drammatico esito nei giorni della guerra nella ex Jugoslavia. Durante la configurazione che il capitalismo assumerà a partire dagli anni '80, si è già potuto vedere come, cronologicamente, la peste identitaria immanente al capitalismo sarebbe stata un fenomeno che avrebbe colpito prima le periferie già collassate, a Est come a Sud. Luoghi come l'Ungheria di Victor Orban, la Russia di Putin o la Polonia totalmente cattolica e conservatrice ne sono gli odierni testimoni. Con un certo sfasamento cronologico, quasi due decenni, compatibilmente con la fine della moltiplicazione auto-sostenuta dal capitale fittizio avvenuta a partire dagli anni 2000, e con il collasso del boom post-fordista che si basava su una tale moltiplicazione [*2], troviamo nei centri capitalisti il medesimo rigurgito di quell'intolleranza identitaria desiderosa di instaurare un ordine culturale ed etnico omogeneo. Ancora una volta si rivendica, «La France aux Français», «America First», «Britain First» ( insieme a tutti i complementi gastronomici di ciò che costituisce la relazione polare tra «prima i bianchi» e «prima gli indigeni») e quindi la pretesa omogeneizzazione «etnica» e culturale della forza lavoro nazionale o della forza lavoro «specificamente in lotta».

Le ideologie di crisi e l'esperienza del soggetto moderno
A differenza delle società premoderne dove la forma del soggetto sociale viene assegnata, soprattutto nelle società di Ordini e caste, l'individuo modellato nella forma del soggetto moderno deve affermare costantemente la sua identità, la quale non è mai determinata in anticipo, ma viene realizzata come un compito coercitivo e obbligatorio attraverso un'autodisciplina, interiorizzando quelli che sono i vincoli del contesto-forma che affronta e riproduce. Come tale, la forma soggetto della società dove regna il modo di produzione capitalista appare come una gigantesca collezione di identità funzionali, la cui forma elementare consiste nell'identità individuale. Questa identificazione primaria viene sempre ad essere associata a un'adesione dei soggetti capitalisti a vaste identità collettive. In tal senso, le nazioni capitalistiche hanno anche - ieri come oggi - una molla interna annidata nella forma soggetto moderna. Le ideologie di crisi del capitalismo - e in particolare l'adesione soggettiva del soggetto moderno alla forma-nazione, nella sua modalità di nazionalismo classico e di neo-nazionalista - si basano sull'esperienza d questo soggetto «monetarizzato». Marx ha mostrato già che il soggetto modellato dai rapporti sociali capitalistici, si innamora strutturalmente di una potenziale onnipotenza perché nella forma capitalistica della vita sociale:
«Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo, Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l'effetto della bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura venti quattro gambe». [*3] Il soggetto monetarizzato si trova perciò ad essere in ogni istante combattuto tra questa potenziale onnipotenza, alla quale potrebbe accedere attraverso l'ottenimento di questo denaro capace di tutte le metamorfosi, e ciò che gli fa sperimentare l'esperienza quotidiana: vale a dire, la sua concreta impotenza a fronte del suo proprio rapporto con la società che gli si contrappone come un vincolo sociale cosificato, in particolare in quello che si concretizza sotto forma del processo di valorizzazione e delle sue dinamiche che gli impongono una situazione senza che lui possa intervenire concretamente. Questa scissione è alla base delle ideologie di crisi del capitalismo.

Capitalismo e Mercato dell'Identità
Durante gli anni 2000, e più ancora a partire dalla crisi del 2008, il neo-nazionalismo e quel che rimaneva della peste identitaria di cui il neo-nazionalismo è solo un caso particolare, li abbiamo visti ovunque di ritorno insieme al loro desiderio di tornare alle vecchie identità collettive funzionali; fantasmi di un'onnipotenza compensatoria per l'impotenza concreta dei soggetti monetarizzati di fronte al loro rapporto con la società che si contrappone loro come una forza estranea cosificata e naturalizzata, vale a dire, senza che essi possano intervenire. Il narcisismo individuale di onnipotenza potenziale non può più realizzarsi, in particolare nella situazione di crisi, e viene compensato da un narcisismo di sostituzione: l'individuo si gonfia partendo dal fantasma della propria grandezza e attraverso una «comunità immaginata» identitaria più vasta che possa ingigantire tutta la sua virilità bloccata, in modo che ciò gli possa consentire di dimenticare la sensazione della propria inferiorità: un narcisismo collettivo di crisi (Erich Fromm). In questo quadro, i primitivismi contemporanei (J.-L. Amselle) che fioriscono dovunque, non possono essere altro che le materie prime contemporanee delle neo-tradizioni capitaliste che serviranno da supporto per l'ancoraggio al capitalismo di queste identità funzionali; nel senso che, dopo la prima ondata - della seconda metà del 19° secolo - ecco che una nuova «produzione di massa di tradizioni inventate» (Eric Hobsbawm) fornisce in anticipo al Mercato dell'Identitario ciò che serve al fine di equipaggiare le monadi isolate per la guerra culturale generalizzata nel contesto dell'immutato quadro dell'ontologia capitalista.
Al supermercato dell'identità funzionale, il religionismo, il neo-nazionalismo, il micro-nazionalismo identitario e separatista (il cosiddetto nazionalismo regionale), il populismo identitario, il neo-virilismo, o i due estremi del rapporto polare che costituisce il neo-identitarismo postmoderno «antirazzista» (di sinistra) e il neo-razzismo etno-differenzialista di estrema destra, si vendono come il pane. Il culturalismo diventa così la logica ideale del tardo capitalismo, e ne costituisce la sua principale ideologia di crisi. In tal senso, esso diventa il comune brodo di coltura tanto dei partigiani dello «scontro tra culture» quanto quelli del «dialogo tra le culture», visto che tutti quanti affermano il primato della questione delle identità collettive culturali-religiose o neo-nazionaliste, quando invece le democrazie borghesi di centro  non fanno altro che strombazzare i cosiddetti presunti valori universali «europei» e «occidentali» (anche se questi vengono sempre più demonizzati dalla logica di esclusione sociale e razzista che viene prodotta dal sistema della concorrenza capitalistica e de del suo mortifero gioco delle sedie in cui uno rimane in piedi). A sinistra così come a destra, gli imprenditori delle identità collettive di ogni tipo sono qui solamente nella veste di funzionari del capitale nell'epoca della sua decomposizione. Lungi dall'opporsi al flusso seguito dal mondi. essi nuotano (anche) con la corrente.

- Clément Homs - 8 ottobre 2017 -

NOTE:

[*1] - Si veda: Norbert Trenkle, «Pourquoi l'islamisme ne peut pas être expliqué à partir de la religion ?» ( http://www.palim-psao.fr/2015/05/pourquoi-l-islamisme-ne-peut-pas-etre-explique-a-partir-de-la-religion-par-norbert-trenkle.html ). Sull'interpretazione di questa re-islamizzazione vista come fenomeno reattivo e identitario, si vedano anche le opere di François Burgat; soprattutto "L’islamisme à l’heure d’Al-Qaida", La Découverte, 2005 .

[*2] - Su questo, si veda Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, "La Grande dévalorisation. Pourquoi la spéculation et la dette de l'Etat ne sont pas les causes de la crise", Post-éditions, 2014.

[*3] - in Karl Marx, "Manoscritti economico-filosofici del 1844". Einaudi.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

venerdì 12 marzo 2021

A metà strada, con voce media …

Nel suo saggio Historical Emplotment and the Problem of Truth (La narrazione letteraria storica e il problema della verità), presentato per la prima volta nel 1990 nel corso di una conferenza di Saul Friedlander, Probing the Limits of Representation (Esplorare i limiti della rappresentazione), Hayden White torna ancora una volta sulla questione delle possibili relazioni esistenti tra «storia» e «narrazione», con una particolare attenzione alla rappresentazione (possibile o impossibile? Accessibile o proibita?) della Shoah. White affronta una «nuova» questione e lo fa usando gli stessi strumenti che aveva affinato nei suoi testi precedenti, ponendo l'enfasi sul suo tentativo di recuperare l'«intransitività»  e il concetto di «voce media» (a metà strada tra narratore e personaggio), entrambe teorizzate da Barthes.
Ad un certo punto del suo saggio, White commenta lo sforzo che aveva fatto Andreas Hillgruber (detto per inciso, allora recentemente scomparso, nel 1989) di «salvare» una parte del lascito tedesco nella seconda guerra mondiale, scomponendo e analizzando quella che era stata la «tragica» resistenza dell'esercito tedesco sul fronte occidentale durante l'inverno 1944-1945; sostenuto nel suo libro "Il duplice tramonto. La frantumazione del «Reich» tedesco e la fine dell'ebraismo europeo" (Il Mulino, 1990). La «tragedia» della resistenza, scrive White, è la forma di trama che Hillgruber ha escogitato per poter conferire «eroismo» ad una parte specifica del lascito nazista (così facendo, White sottolinea la validità della propria posizione: la «storia» non esiste al di fuori della strategia narrativa che le viene conferita dalla forma).

Questo tentativo di dislocamento della trama nel contesto del nazismo, richiama il romanzo di Paul West, "The very rich hours of Count von Stauffenberg", pubblicato nel 1978. Il mio ricordo del romanzo di West non è diretto; proviene dall'utilizzo che ne fa J.M. Coetzee in uno dei capitoli del suo libro "Elizabeth Costello" (Einaudi, 2005). La protagonista del libro di Coetzee, nel capitolo su «Il Problema del Male» si riferisce al romanzo di West affermando che, a causa della rappresentazione della violenza che ne viene fatta (West descrive con ricchezza di dettagli le torture subite dagli ufficiali nazisti che tentarono di uccidere Hitler in un attentato), una cosa del genere non avrebbe mai dovuto essere scritta. Si può dire che, in un certo modo e in un certo senso, ciò che viene mobilitato è una certa forma di «eroismo» all'interno di ciò che è nazista, sotto il segno della resistenza aristocratica. Sempre in quello stesso saggio (Historical Emplotment and the Problem of Truth), Hayden White anticipa una serie di questioni teoriche che poi appariranno in seguito, in maniera più approfondita, in un saggio che verrà pubblicato nel 1992, “Writing in the Middle Voice”. White torna ancora una volta sulla questione della tensione esistente tra la letteratura realista del 19° secolo e l'emergere del paradigma modernista nei primi decenni del 20° secolo: perché alcuni studiosi di scienze umane insistono nel rimanere fedeli ai modelli narrativi del 19° secolo, e allo stesso tempo insistono che il loro sistema di rappresentazione «realista» sia lo «standard», l'unico che sarebbe «adeguato»?

Nel testo del 1990, White riprende in mano Roland Barthes, un autore che aveva letto con molta attenzione negli anni '80; soprattutto il Barthes della «scrittura» e dello «scrivere», del saggio del 1970, «Scrivere, verbo intransitivo?». Imbracciando Barthes, White torna alla carica del paradigma stabilito con le avanguardie del primo '900: non è più possibile continuare a scrivere nello stesso modo o ignorare che siano disponibili nuove forme di scrittura (rappresentazione, narrazione dell'altro e della storia). La letteratura del 20° secolo mostra l'«intransitività» del verbo/gesto «scrivere», lavorando a partire da quella che Barthes (seguendo Benveniste) chiama «voce media». Nel contesto realista ottocentesco del 19° secolo, scrive Barthes ( e riassume White per i propri scopi), esiste una chiara suddivisione tra agente, oggetto e azione: colui che scrive lo fa per qualcuno che sta al di fuori; precedente o successivo al processo di scrittura; nel caso della scrittura modernista, continua Barthes, l'agente si crea, si costituisce e si costruisce dentro e a partire dal processo della scrittura - caso paradigmatico è quello di Proust, che esiste solo nella scrittura, come effetto della scrittura (la sua memoria è una pseudo memoria, scrive Barthes, poiché essa è un effetto del testo che si rappresenta sempre - fino ad oggi - come un processo). La «voce media», quindi, è questa potenza della narrazione che oscilla tra voce attiva e voce passiva (tenendo il soggetto all'interno dell'azione, all'interno del processo in cui si dà scrittura). Sempre in "Historical Emplotment and the Problem of Truth", la conferenza del 1990, subito dopo avere utilizzato Barthes per sottolineare quali sono le possibilità di scrittura messe a disposizione dal modernismo e dalle avanguardie (qualcosa di cui aveva parlato già nel 1996, nel suo famoso saggio "The Burden of History"), Hayden White cita un altro francese, quasi come se stesse dando un altro "giro di vite": cita Jacques Derrida e una delle sue definizioni della Differenza (termine comune che viene trasformato in concetto, e la cosa avviene a partire dal cambiamento di vocale («différence» in «différance») che si scrive in maniera distinta, ma che si sente pronunciare in maniera equivalente, rendendo in tal modo la «differenza» solo una questione di «grafia».

La «voce media», che Barthes preleva da Benveniste (il quale, a sua volta, la recupera dai greci, dal teatro, dall'enunciazione della parola artistica al centro della polis), serve a White da attrezzo per poter pensare la rottura delle dicotomie all'interno delle narrazioni a proposito del passato (soggettività versus oggettività; storia versus mito; letterale versus figurativo). Ciò non vuol dire, scrive White, che i termini che si trovano in opposizione siano interdetti e vengano banditi in quanto modo di rappresentare la realtà; ma significa solamente che la ristretta opposizione dei termini non è impregnata - non è di per sé dotata - di una sua validità universale relativa a tutte le esperienze del mondo.
White cita un estratto dall'articolo di Derrida dedicato a quel concetto - la conferenza tenuta nel mese di gennaio del 1968 alla Società Francese di Filosofia, e poi pubblicata in quello stesso anno nel contesto del lavoro collettivo del gruppo della rivista Tel Quel, in "Théorie d'ensemble". Ciò che in quel passaggio  - e in quel testo - Derrida mette in discussione, tra le altre cose, è il sistema di distribuzione delle posizioni passive e attive all'interno della storia della filosofia; una manovra di indirizzamento che nel corso dei secoli si è come naturalizzata, e che ora può essere ripensata e riconfigurata (si tratta, ancora una volta, di nuovo della questione dell'indirizzamento di cui parla Heidegger nella «lettera» di cui poi parlerà Sloterdijk nel suo discorso circa le «Regole per il Parco umano» e che verrà ripreso dallo stesso Derrida alcuni anni dopo quando parlerà delle «cartoline postali».


fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 11 marzo 2021

Cercando una causa, per prendere la mira …

Tuttavia, i ribelli senza causa [*], sono sempre pronti a sposarla, una causa, quando ritengono che ne possa valere la pena. Soprattutto se in quella causa, insieme a loro ci trovano altri ribelli!
Così racconta Jean-Patrick Manchette - sempre nel suo splendido libro "Le ombre inquiete. Il giallo, il nero e gli altri colori del mistero" - a proposito di un episodio verificatosi nel maggio 1968:

« Maggio 1968, barricate e tutto il resto. In una stanza d'albergo un mio amico viene a sapere che a Parigi ci sono scontri con la polizia. Si fionda sulla valigia. "Andiamo" - dice estraendone una pistola. Vuole scendere in strada e ammazzare un po' di sbirri, come cerca di fare ora in Lorena, mentre sto scrivendo (ndr: è il 1979), qualche altro "irresponsabile" ("Le Nouvel Observateur" dixit). Lo calmo: "In Francia, non si fa così. E' troppo presto". Lui sospira e ripone la pistola. Sarà per un altra volta. L'amico in questione era Nicholas Ray. Adesso ha dieci anni di più e non ci vede da un occhio. »

[*]Nota: Il film più famoso di Nicholas Ray, autore di innumerevoli capolavori è proprio  "Rebel without a Cause" (in italiano: "Gioventù Bruciata") con James Dean.

già pubblicato sul blog  l’11/12/2007

Per Mare

All’interno del grande bacino mediterraneo, le religioni antiche viaggiano. Viaggiano gli dèi nei racconti mitologici, e viaggiano i culti sulla scia dei profeti, dei migranti, dei deportati, dei rifugiati, di quanti vanno in cerca di fortuna. Le religioni antiche sono una rete di relazioni: vengono trapiantate, si mescolano; gli dèi passano da una cultura all’altra. Attraversando il mondo mesopotamico, egizio, fenicio, giudaico, greco e romano, il volume racconta una quindicina di questi viaggi che mettono in gioco aspetti fondamentali delle religioni antiche: il nome degli dèi, la loro immagine, la loro traduzione, le strategie rituali, il ruolo dei testi, lo statuto delle donne o degli stranieri, l’immaginario mitico, l’atteggiamento nei confronti della morte e dell’aldilà, il radicamento di un santuario, il rapporto con il potere.

(dal risvolto di copertina di: Corinne Bonnet, Laurent Bricault, «Divinità in viaggio. Culti e miti in movimento nel Mediterraneo antico». Il Mulino pp.280, € 20)

Che traffico frenetico nel Mediterraneo! Erano dèi ed eroi in viaggio con le loro statue
- Da Serapide a Teseo, da Asclepio ai santi cristiani, idoli e culti seguivano coloni, conquistatori e mercanti -
di Giulio Guidorizzi

In un anno imprecisato del III secolo a.C., un certo Apollodoro si trasferì dall’Egitto a Delo, l’isola natale di Apollo ma anche, all’epoca, grande emporio commerciale. Insieme alla famiglia portò con sé una statua del suo dio più venerato, Serapide. Era un dio benevolo e propizio: appariva nei sogni, guariva i malati, proteggeva i suoi devoti. Apollodoro fece fortuna, visse fino a novantasette anni e lasciò le sue sostanze al figlio Demetrio. Il figlio di costui si chiamava, come il nonno, Apollodoro. Una notte Serapide gli comparve in sogno e gli disse che era stanco di essere venerato in un tempietto domestico; era ora di costruirgli un santuario pubblico, e gli indicò il luogo. Il giorno seguente, Apollodoro il giovane andò a visitare quel sito e trovò un cartello con l’equivalente di «vendesi». Era uno spazio incolto e pieno di rifiuti. Apollodoro lo comprò a poco prezzo e in sei mesi fece costruire un tempio dove trasportò la statua del dio. Ma la storia non finì qui. Alcuni abitanti di Delo - scandalizzati perché questo emigrante aveva osato promuovere pubblicamente il culto del suo dio in quella che era la patria di Apollo- gli fece causa, con pretesti che non conosciamo. Ma quando venne il giorno del processo, Serapide trovò modo di aiutare il suo fedele: bloccò la lingua degli accusatori, cosicché essi non riuscirono a spiccicare parole in tribunale e Apollodoro il giovane fu assolto.

Conosciamo questa storia edificante da un paio di iscrizioni scoperte durante gli scavi francesi agli inizi del XX secolo, che portarono alla luce il tempio di Serapide a Delo; ne parla, tra le altre cose, il molto ben documentato libro di Corinne Bonnet e Laurent Bricault Divinità in viaggio. Culti e miti in movimento nel Mediterraneo antico. Il libro tocca un aspetto fondamentale dei culti politeistici e dello spirito religioso in generale, perché (come scrivono gli autori) «gli dei in effetti sono al tempo stesso radicati in un territorio e legati a una comunità che istituisce e perpetua il loro culto: ma sono anche in perenne movimento, rapidi ubiqui, perfino inafferrabili».

Gli dei pagani viaggiavano, si fondevano con divinità locali, generando nuovi culti che a loro volta viaggiavano e si innestavano su culti precedenti. La religione pagana non era fatta di dogmi e di teologia, ma di rituali e miti; se dovessimo spiegare qual è la differenza fondamentale tra le religioni monoteiste e quelle politeiste, potremmo dire che le prime procedono per sostituzione, eliminando credenze precedenti, le seconde per moltiplicazione, aggiungendo. Venerare Serapide non significava disdegnare Zeus o Apollo. Ovunque c’è movimento vorticoso, perché un dio pagano è fatto in sostanza dalla somma delle azioni dei suoi fedeli. A Epidauro il dio Asclepio compariva ai fedeli addormentati nel santuario e li guariva miracolosamente: ma questa «Lourdes pagana» non era la sola. Asclepio era molto affaccendato a comparire in sogno nei molti Asclepiei che sorgevano nel mondo mediterraneo, uno persino sull’isola Tiberina a Roma.

Gli dei viaggiavano, insieme alle statue e ai culti praticati da mercanti e fedeli; a volte anche da predicatori. Il libro di Bonnet e Bricault ne mostra una serie di esempi, dalla Mesopotamia alle origini del Cristianesimo, ciascuno dei quali si può definire un’avventura devota: le popolazioni sconfitte, o meglio i loro idoli, erano oggetto di «Godnapping» perché la loro forza proteggesse i vincitori; altri venivano chiamati ad immigrare, come accadde a Cibele , in forma di statua, che durante la guerra annibalica, nel 205 a.C., fu importata a Roma su una nave. Giunta sulle rive del Tevere, la nave s’incagliò: segno che la dea esitava a trasferirsi presso i Latini. Non ci fu modo di smuoverla dal centro del fiume: sembrava che avesse messo le radici. Allora si fece avanti la vestale Claudia Quinta che si sciolse la cintura, la legò alla prua della nave e la condusse senza sforzo, come un guinzaglio, sino all’ormeggio. Un miracolo. Trasportare un oggetto divino può essere un furto lecito. Anche nel Cristianesimo una reliquia, così come un culto di un dio dell’antichità, aveva non soltanto un’importanza religiosa, ma anche identitaria.

Che sarebbe, per esempio, Venezia senza la presenza di San Marco, il cui corpo fu rubato ad Alessandria d’Egitto da due mercanti e portato di nascosto in riva alla Laguna? Il libro di Bonnet e Bricault contribuisce a chiarire - anche a un pubblico non specialista - che il sacro non è solo una dimensione dello spirito, ma diventa un dato antropologico, identitario, persino teatrale: la statua del dio o la reliquia del santo devono essere onorate pubblicamente, diventando parte della cultura cittadina. Qui la demarcazione tra culti pagani e pratiche cristiane tende a diventare indistinta; spesso, i culti dei santi ereditarono semplicemente quelli pagani, coprendoli con un velo che per gli storici delle religioni è abbastanza facile da alzare. Leggendo Pausania, che nel II secolo d.C. scrisse una Guida della Grecia, ci s’imbatte continuamente nella descrizione di reliquie eroiche custodite nei santuari che formavano oggetto di meraviglia e devozione. I braccialetti di Elena, la tomba di Edipo o di Ettore (contese tra varie città), scudi di eroi del mito erano religiosamente conservati. La più prestigiosa si custodiva a Delfi: era la pietra che Crono aveva ingurgitato al posto di Zeus e che poi aveva vomitato facendola cadere a Delfi, dove riceveva onori di culto: era avvolta di bende di lana e unta d’olio nei giorni di festa.

- di Giulio Guidorizzi - Pubblicato su Tuttolibri del 27/2/2021-

mercoledì 10 marzo 2021

Denaro Zero

Il Siclo (shehel o sheqel), nell'antico Medio Oriente era una moneta, solitamente di argento. Precedentemente, un siclo - prima di diventare una moneta corrente, nell'antica Tito e nell'antica Cartagine, e poi nell'antica Israele sotto i Maccabei - era un'unità di misura del peso, corrispondente in maniera approssimativa a circa 11 grammi. La parola Siclo (shekel) si basa sulla radice verbale semitica che veniva usata per il verbo pesare (Š-Q-L), parente a sua volta dell'accadico šiqlu o siqlu, un'unita di peso che a sua volta equivaleva all'unità di peso dei Sumeri, il gin2. L'uso del termine è stato attestato per la prima volta come risalente al 2.150 a.C., durante l'impero accadico sotto il regno di Naram-Sin, e successivamente nel 1.700 a.C. nel Codice di Hannurabi. La radice Š-Q-L può essere trovata nelle parole ebraiche usate per «pesare», «peso» e «considerazione». L'immagine che si può vedere sopra, è quella di un antico Siclo, una moneta coniata in argento che serviva come merce di scambio, e che circolava a Cartagine tra il 310 e il 290 a.C., circa 2000 anni prima della nascita del capitalismo.

La cosa suggerisce che, come sistema di moneta circolante, esistesse già un sistema di produzione di merce semplice, ben prima del modo di produzione capitalistico, come afferma Engels nelle sue Considerazioni supplementari al III libro del Capitale. Per una qualche ragione, nel periodo che va dal 1929 al 1971 questo tipo di moneta merce, insieme al denaro merce in generale, in un batter d'occhio è sparito dalla circolazione in tutto il mercato mondiale; e questo dopo essere stato stabilmente presente almeno dal 2150 a.C., per quasi 4.200 anni.

Non sembra che esista alcun studioso della forma valore in grado di spiegare perché ciò sia successo, e questo nonostante che Marx avesse previsto tale evento circa 100 anni prima che si verificasse. Se il denaro può essere qualsiasi cosa e il materiale fisico del denaro non è importante, perché il denaro merceologico è improvvisamente scomparso ? Perché oggi, da nessuna parte nel mercato mondiale, non c'è denaro merceologico che circoli?!? E non c'è più da almeno 50 anni. Perché durante la metà del 20° secolo il denaro, come lo definiva Marx, si è estinto improvvisamente e irreversibilmente? E lo ha fatto in un batter d'occhio, dopo essere esistito per migliaia di anni. Perché dopo il 1971 il denaro merce scomparve completamente dalla circolazione nel mercato mondiale, in ogni paese, in tutte le forme possibili (riyal saudita a base di petrolio, argento cileno, moneta d'oro russa, rand sudafricano in metallo prezioso), ovunque, per sempre?!? Di certo, ci deve pur essere stato qualche paese che ha visto un'opportunità per riempire il vuoto lasciato da un dollaro gold standard! Eppure, non c’è più da nessuna parte nessun denaro merce che circoli. E questo, da quando è emerso il denaro, avviene per la prima volta nella storia dell'umanità. Siamo tutti ben consapevoli che per la maggior parte della storia umana, forme di denaro che non erano merce hanno coesistito con forme di denaro merce. Ma quando mai, in tutta la storia umana, il denaro merceologico è scomparso ovunque?

Se è come sosteneva Marx, e che il denaro si adegua a quelle che sono le esigenze della circolazione delle merci, ecco che allora sembrerebbe che il denaro merce sia arrivato a dire ad un certo momento che la quantità di denaro necessaria alla circolazione delle merci era Zero. In una crisi, il denaro è l'unica forma adeguata del valore di scambio. Ora, per qualche strana ragione, durante gli anni '30, quella che era l'unica forma adeguata del valore di scambio comincia ad essere ritirata dalla circolazione; e questo non in un paese o in un altro: ma in tutti i paesi, e simultaneamente! E il denaro merce, così come era conosciuto prima, non ritorna più. Un paese dopo l'altro, per essere in grado di fare ripartire la produzione capitalistica, si vede costretto a separare la propria valuta dalla moneta merce, e l'ultimo paese a farlo sono gli Stati Uniti.

Per dirla con Marx: tutte le funzioni svolte dal denaro vengono ridotte ad una sola funzione: l'accaparramento. I capitalisti diventano accaparratori di denaro. E tutto ciò era assolutamente prevedibile. Perché Marx, nei Grundrisse l'aveva previsto, esattamente 110 anni prima che accadesse. E la sua spiegazione era la medesima che veniva data da Keynes per la Grande Depressione: economizzare l'utilizzo della forza lavoro ha ecceduto l'utilizzo della forza lavoro, o per dirla come l'ha messa Marx, il capitale riduce il tempo di lavoro nella sua forma necessaria, e lo fa con il fine di aumentarlo in quella che è la sua forma superflua. Il capitale è così una forma di transizione verso il lavoro direttamente sociale. Esso non ha bisogno del denaro. Provate ad entrare in una fabbrica qualsiasi e lo vedrete! Il denaro è un impedimento per il capitale, e questo cerca continuamente di abolirlo. E per abolire il denaro, il capitale deve abolire il valore di scambio.

Il denaro merce doveva essere rimosso dalla circolazione poiché era questo l'unico modo in cui i valori d'uso necessari alla produzione di plusvalore avrebbero potuto continuare a circolare senza che i loro valori di scambio interrompessero il processo di accumulazione capitalista. Secondo la teoria di Marx, le merci vengono vendute al loro valore. Questo valore viene espresso nelle quantità di denaro merce in cui vengono pagati. Una volta che il denaro è stato tolto di circolazione, il valore delle merci non viene più espresso in valore di scambio. Il valore di scambio delle merci è in tal modo equiparato a Zero. Siamo arrivati ad un punto in cui la produzione di valore e la produzione di plusvalore sono ai ferri corti l'una con l'altra. Tutto questo suggerisce come il capitalismo sia ormai avviato alla scomparsa.

fonte: The Real Movement

Uscite

« Chiedo a Breton del curioso tentativo che ha fatto - insieme ad Aragon, Vitrac e una quarta persona di cui non ricordo il nome - di mettere in pratica il precetto del Manifesto: Scendere in strada. Tirarono a sorte quale sarebbe stato il punto di partenza, che risultò essere un piccolo villaggio di Loir-et-Cher: e a partire da lì cominciarono ad andare a caso per i campi, a volte a piedi e a volte prendendo il treno per raggiungere una qualche stazione. Andò male, parecchio male: Aragon, la prima notte ebbe una discussione in cui litigò con Vitrac, il quale se ne tornò a Parigi. Breton mi racconta che quasi subito gli animi si inasprirono: nelle osterie di campagna venivano guardati con sospetto e rifiutavano loro ospitalità, negandogli le camere, e a causa delle lunghezza delle tappe andava crescendo la sensazione di malessere e di fastidio. Ben presto la spedizione si concluse su un treno per Parigi, e così tornarono in Rue de Fontaine. E tuttavia, a mio avviso, dal mio punto di vista questo ridicolo fallimento non testimonia contro un'impresa che continua a rimanere esemplare. Il surrealismo è questo, ed è questa la sua gloria segreta: continua ad essere pieno di Uscite che nessuna Entrata potrà mai smentire. »

- da: Julien Gracq, "Capitulares". - Foto: Membri dell'Ufficio Centrale di Ricerche Surrealiste, 1924 -

lunedì 8 marzo 2021

Gli algoritmi del dolore

Il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è così pervasiva e diffusa da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare. Il rischio, secondo Han, è chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia, perché è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo. E l’attuale pandemia, argomenta il filosofo tedesco-coreano, con la cautela di cui ha ammantato le nostre vite, è sintomo di una condizione che la precede: il rifiuto collettivo della nostra fragilità. Una rimozione che dobbiamo imparare a superare. Attingendo ai grandi del pensiero del Novecento, Han ci costringe, con questo saggio cristallino e tagliente come una scheggia di vetro, a mettere in discussione le nostre certezze. E nel farlo ci consegna nuovi e più efficaci strumenti per leggere la realtà e la società che ci circondano.

(dal risvolto di copertina di: Byung-Chul Han, "La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite". Einaudi Stile Libero)

Viva la pelle d'oca
- Il dolore rende umani -
di Marco Ventura

Nato nel 1959 a Seul, Byung-Chul Han ha studiato Filosofia, Germanistica e Teologia a Friburgo e Monaco e ha insegnato Filosofia e Studi culturali nella berlinese Universität der Künste. Autore celebrato dalla grande stampa occidentale, Han si è imposto per la sua critica della contemporaneità, in particolare del neoliberismo e della trasformazione digitale, Nel 2020 ha dedicato al tema della sofferenza un volume che parla alla generazione della pandemia. Con il titolo "Palliativgesellschaft: Schmerz heute" («La società palliativa. Il dolore oggi») il libro denuncia una società che si autodistrugge mentre cerca di trasformarsi in «oasi permanente ottenibile per via medica». In un testo che a molti suonerà assai discutibile, Han propone una critica fondamentale della priorità sanitaria nell'emergenza pandemica e un'altrettanto fondamentale rivalutazione del dolore. Il volume esce da Einaudi Stile Libero con il titolo "La società senza dolore" e il sottotitolo "Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite", proprio mentre Nottetempo pubblica il precedente "La scomparsa dei riti". La Lettura dialoga a distanza con l'autore.

La società sarebbe dominata dall'algofobia, «paura generalizzata del dolore». Siamo «ipersensibili» come la principessa sul pisello, lei scrive, e tendiamo a vivere in uno «stato di anestesia permanente». In che senso allora la nostra è una società senza dolore?

«Non dico che viviamo in una società senza dolore. Oggi abbiamo addirittura un'epidemia di dolori cronici. Dico che il dolore ha una dimensione sociale e che quindi ogni critica della società deve confrontarsi con il dolore. Invece oggi il dolore viene ridotto agli aspetti medici e farmacologici. E se viene consegnato esclusivamente alla medicina, non lo capiamo».

In proposito, lei accusa il neoliberismo.

«Nella società postmoderna neoliberale aumentano le tensioni psichiche attraverso la pressione per l'efficienza o altre spinte, e ciò può portare a dolori cronici. Ho paragonato l'autosfruttamento neoliberale a un servo che prende la frusta dalle mani del padrone e frusta sé stesso per essere lui il signore, anzi per essere libero. Questa spinta neoliberale per la prestazione e l'autosfruttamento ci fa ammalare».

Il nostro problema con il dolore è legato alla solitudine?

«Nel libro accenno alla scena primaria della guarigione in Viktor von Weizsäcker. Quando la sorellina vede il fratellino nel dolore, conosce una via d'uscita. Lo tocca dove gli fa male. Il contatto seda il dolore. Oggi viviamo in una società afflitta da crescente solitudine, senza contato né dedizione umana. Il distanziamento sociale! Mi chiede se il dolore non sia il grido del corpo che chiede appunto vicinanza e dedizione, addirittura amore. La scienza primaria della guarigione non può essere surrogata da un antidolorifico.»

Lei denuncia una «società palliativa» complice di un'«ideologia del benessere permanente». Ma volersi liberare dal dolore, voler almeno limitare il dolore, non è forse uno scopo legittimo?

«Ogni esperienza intensa è  dolorosa, anche l'amore intenso. Oggi noi evitiamo le intensità per paura del dolore. Anche l'amore oggi deve essere depotenziato in una formula rivolta al consumo e al godimento. Ogni intensa percezione è dolorosa. Dolorosamente bello non è una contraddizione. Noi percepiamo oggi il mondo attraverso lo smartphone, che rende tutto consumabile e disponibile e riduce ogni cosa alla dimensione dello schermo. Penso che lo smartphone sia un analgesico digitale».

Nel libro lei non parla della medicina palliativa.

«Uso l'espressione "società palliativa" in senso metaforico, per designare una società che non sa trattarer il dolore. La società palliativa non ha niente a che fare con la medicina palliativa. Per il resto, insisto che vicinanza, dedizione e contatto sono più importanti degli analgesici. Il reparto palliativo di una clinica non può rimpiazzare la dedizione e l'amore. Il racconto che il malato fa al medico all'inizio del trattamento guida il processo di cura. Quale medico può ascoltare di sé stesso che sa ascoltare? Oggi ascoltiamo sempre meno. Nel mio libro "L'espulsione dell'altro" (Nottetempo, 2017) ho dedicato un intero capitolo all'arte dell'ascolto. Il capito inizia con le parole: "In futuro ci sarà forse una professione chiamata l'ascoltatore. Qualcuno che dietro pagamento dedica ascolto all'altro. Si va dall'ascoltatore perché altrimenti non c'è nessuno che ascolti l'altro"».

La pandemia ha un ruolo non secondario nel suo libro.

«Ho scritto che la pandemia trasforma la società in una quarantena in cui la vita si irrigidisce in una sopravvivenza. La vita non è un sopravvivere. La pandemia acuisce delle tendenze sociali che sono già presenti. Tra queste c'è l'isteria della salute. Tutte le forze vitali vengono oggi impiegate per prolungare la vita. Anche nella pandemia non dovremmo ridurre la vita al sopravvivere. Malgrado tutto, dobbiamo trovare possibilità di festeggiare la vita: è importante, proprio nella pandemia. Trovo problematico che oggi la virologia venga prima di tutto. Nelle decisioni sul contrasto alla pandemia dovrebbero piuttosto essere coinvolti psicologi, pedagogisti, sociologi, teologi, filosofi e anche artisti. Si dovrebbe procedere a una vasta valutazione dei beni che sono in gioco nei diversi aspetti della vita, invece di assolutizzare la salute e la sopravvivenza, sacrificando loro tutto il resto».

Nella pandemia lei scrive, «la fede è stata sacrificata sull'altare della sopravvivenza» e «la virologia esautora la teologia», e ancora «la salute viene elevata a nuova divinità». Senza dolore non c'è più Dio?

«Trovo che gli esseri umani raggiungano il culmine della bellezza quando pregano. Per questo vado volentieri nelle chiese. Senza dolore non potranno pregare. Può darsi che un giorno vivremo in un mondo senza dolore. Il "mondo nuovo" dello scrittore Aldous Huxley non conosce il dolore. È una società palliativa, lo Stato distribuisce la droga chiamata soma per accrescere il senso di benessere. Ma una vita senza dolore non è umana. Per questo concludo il mio libro con le parole: "L'uomo si fa fuori per sopravvivere. Potrà forse raggiungere l'immortalità, ma al prezzo della vita"».

Secondo lei il dolore è «verità», «vincolo», «differenza», «realtà».

«Ho introdotto il libro con una citazione di Walter Benjamin: "Il dolore rappresenta per l'uomo una sorta di inesauribile corso d'acqua che conduce al mare. Il piacere si presenta ovunque l'uomo si sforzi di dargli un seguito, è come un vicolo cieco". Ogni dolore ci appare appunto come una via senza uscita, che in nessun caso si può evitare. Il mio libro l'attenzione con forza sul fatto che il dolore è costitutivo della vita umana. Dove le separazioni fanno soffrire, i precedenti legami si rivelano come veri. Solo la verità duole. Se le separazioni non fanno soffrire i legami non erano stati veri».

Al contrario del dolore, «la digitalizzazione è anestesia». Proprio qui, lei dice, si distingue il pensiero dall'intelligenza artificiale. Colpisce in proposito la sua affermazione «non ci saranno mai algoritmi del dolore».

«La prima immagine del pensiero è la pelle d'oca. L'intelligenza artificiale proprio per questo è estranea al pensiero, perché non ha mai la pelle d'oca. La pelle d'oca è espressione di commozione e brivido. La consapevolezza che non porta a rabbrividire equivale a ridurre a oggetto. È incapace di esperienza in senso empatico, che in sé è dolore».

Distrutta la «dimensione sociale del dolore», per lei resta solo una «società della sopravvivenza» che, come dimostrerebbe la pandemia, «si vedrà obbligata a rinunciare ai principi liberali». Non c'è più vita, solo «non morte». Non è esageratamente pessimista?

«Non sono pessimista. Al contrario, mi attendo dalla vita più della sopravvivenza. La società dominata dall'isteria della sopravvivenza è una società di "non morti". Dico spesso: siamo troppo vivi per morire, troppo morti per vivere. Quando siamo preoccupati solo di salute e sopravvivenza somigliamo noi stessi al virus, un essere non morto che si moltiplica, cioé sopravvive senza vivere».

Però così lei rischia di cadere nell'atteggiamento opposto all'algofobia, nella glorificazione del dolore quale via per una spiritualità superiore.

«Io non glorifico il dolore. Direi: la vita umana senza il dolore è incompleta. Dolore e felicità sono, come dice Nietzsche, due fratelli gemelli, che crescono insieme o insieme rimangono piccoli. Se il dolore viene inibito, la felicità si appiattisce su una sorda sensazione piacevole».

Insisto. Pare di avvertire l'eco di un «dolorismo» molto problematico da un punto di vista etico.

«Il dolore fa anche parte della nostra relazione con gli altri. Un capitolo del mio libro è dedicato all'etica del dolore. Oggi parliamo spesso della scomparsa dell'empatia. Mi sono chiesto: da dove deriva questa crescente perdita di empatia? Perché siamo sempre meno ricettivi per gli altri? Ritengo che noi oggi nel nostro Ego rendiamo l'altro un oggetto disponibile, pronto al consumo. L'altro come oggetto non prova dolore».

Invece la pandemia ci mette potentemente di fronte al dolore.

«La pandemia rafforza la scomparsa dell'empatia. L'altro è ora un possibile portatore del virus, dal quale è opportuno distanziarsi. L'ascolto, del quale ho parlato prima, presuppone che io mi esponga all'altro. L'accresciuta sensibilità per l'altro, il poter soffrire con l'altro, ha qualcosa di doloroso. L'amore come rapporto empatico con l'altro ci assale e ci ferisce. L'amore come consumo, invece, non comporta dolore. Senza dolore non abbiamo alcun accesso all'altro. Per questo parlo di dolore VERSO l'altro. Oggi abbiamo perso la capacità di percepire l'altro nella sua alterità. E l'altro, provato della sua alterità, si lascia solo consumare».

Intervista di Marco Ventura - Pubblicata su La Lettura del 23/2/2021 -

Un brindisi alle Incendiarie!

« Il 18 marzo 1871, furono le donne a decidere l'esito della giornata, rivolte ai soldati, esortandoli a rifiutarsi di far fuoco e a fraternizzare con la popolazione. Per tutto il tempo in cui visse la Comune, un numero impressionante di donne prese parte a quell'incendio sociale. Fu per tale motivo che contro di esse vennero diffuse numerose calunnie, menzogne, libelli diffamatori; e si raccontarono leggende assurde sul loro conto. Sono state infangate, infamate, marchiate a fuoco; il che è un segno chiaro e lampante della loro attiva partecipazione alla Rivoluzione del 18 marzo. Sono state trattate come femmine, lupe, arpie, ladre, ubriacone e bevitrici di sangue. Si sono viste affibbiata un'immagine che le dipingeva a partire dai loro "peggiori istinti" e da una "reputazione detestabile". Veniva raccontato che avessero fatto bere ai soldati del liquore avvelenato. Veniva narrato che, armate di archi incendiari - disegnati da Edouard Vaillant - con frecce imbevute di liquido infiammabile, le quali venivano scagliate nei seminterrati e nelle cantine, in modo che la minima scintilla potesse appiccare un incendio. Venne anche attribuito loro, come missione speciale, l'Incendio di Parigi, facilitato dal petrolio convertito in "liquido diabolico" dai membri della Comune.»

(Maurice Dommanget, 1923).

domenica 7 marzo 2021

Come in uno specchio...

Gli Aborigeni, questi anarchici impenitenti...
- di Christophe Darmangeat -

Gli scritti del 19° secolo sull'Australia, sono pieni di descrizioni degli Aborigeni, ed hanno vari gradi di interesse a seconda della conoscenza che i testimoni (occidentali) avevano del soggetto, a seconda della loro capacità di osservazione e dei loro talento di scrittori. Qualcuno attrae l'attenzione grazie alla capacità di cogliere nel vivo e restituire in poche righe le caratteristiche significative di queste società prive di gerarchia politica e ineguaglianze economiche. Riescono in qualche modo a tratteggiare dei comportamenti che ci parlano come se fossero dei trattati di antropologia sociale. Ne ho appena scoperto uno, dovuto all'esploratore Charles Willkes, il quale viaggiò intorno al mondo nei primi anni 1840 e registrò le sue memorie. Non resisto alla tentazione di tradurne alcuni paragrafi, talmente istruttivi sulla società aborigena da riuscire a rifletterla come in uno specchio, riferendola in questo ai nostri rapporti sociali e al modo in cui essi orientano il nostro giudizio. Sull'egualitarismo economico e i valori che venivano insegnati ai giovani, Wilkes scrive; tradendo indubbiamente un certo irenismo rispetto al potere degli anziani:

«Quando comincia l'iniziazione dei giovani, si richiede loro di mostrare un'implicita obbedienza ai loro anziani, Questo sembra essere l'unico controllo che conoscono, e appare assolutamente necessario per poter preservare nelle relazioni sociali l'ordine e l'armonia, così come serve a compensare la mancanza di distinzioni di rango tra di loro. Allo stesso modo, i giovani vengono sottoposti a delle restrizioni alimentari: vengono loro vietate le uova, il pesce, o le parti migliori dell'opossum e del canguro. Di conseguenza, la loro dieta è di scarsa qualità, ma con il trascorrere del tempo queste restrizioni vengono rimosse, anche se ancora non sappiamo a che età questo avvenga. In ogni caso, una volta diventati uomini maturi, sono liberi di nutrirsi in assoluta libertà. Lo scopo di tutto questo non è solo quello di abituarsi a un modo di vita semplice e rude, ma piuttosto anche di insegnare loro a fornire il necessario agli anziani, e a vietare loro di tenere tutto per sé. Il loro carattere ignora l'egoismo, e tutti gli osservatori rimangono colpiti dalla loro abitudine di dividere tra di essi tutto ciò che ottengono, un altruismo che raramente può essere osservato tra le nazioni civilizzate.» (p.125)

Quanto all'atteggiamento che hanno gli Aborigeni verso la gerarchia, ciò non potrebbe essere espresso meglio di quanto viene fatto in queste poche righe nelle quali l'ufficiale di marina Wilkes appare essere  tanto ammirato quanto indignato:

«I nativi del Nuovo Galles del Sud sono una razza orgogliosa e di forte temperamento; ogni uomo è indipendente dal suo vicino, non riconoscendo alcun superiore e non mostrando alcuna deferenza; la loro lingua non possiede parole che possano designare un capo o un superiore, né descrivere il comandare o il servire. Ciascun individuo si preoccupa della propria sussistenza e fabbrica i propri utensili domestici e le sue armi; e, se non fosse per l'amore che hanno della compagnia, potrebbero benissimo vivere in disparte solo con la propria famiglia, isolati da tutti gli altri, senza per questo dover sacrificare alcun tipo di vantaggio. Questa indipendenza conferisce loro un'aria di arroganza e di insolenza, e non c'è niente che possa indurli a riconoscere qualcuno come un superiore, o a mostrare a partire da questo un segno di rispetto. Per meglio illustrare tutto ciò, devo dire che il missionario Mr. Watson è "l'unico uomo bianco il cui nome viene pronunciato preceduto da Mister", E lui crede che questo sia dovuto soprattutto a causa dell'abitudine acquisita quando erano bambini sotto la sua autorità. A tutti gli altri, qualsiasi sia il loro rango, si rivolgono con il loro nome di battesimo o con un soprannome. Ciò non è dovuto all'ignoranza da parte loro, dal momento che tutti sanno che essi comprendono le distinzioni di rango tra i bianchi, e sono continuamente testimoni della subordinazione e del rispetto che si esige tra questi. Il loro senso di indipendenza li spinge a trattare sempre anche la persona più alta in grado come se fosse loro pari. Quando si chiede loro di lavorare, in genere rispondono: "I Bianchi lavorano, non i Neri"; e quando entrano in una stanza non rimangono mai in piedi, ma immediatamente si siedono.» (p.124).

- Christophe Darmangeat - Pubblicato il 2/3/2021 su La Hutte des Classes -

Suggestioni

« Una delle scene più famose della storia della filosofia, è un effetto del potere della letteratura. La commovente situazione in cui Nietzsche, nel vedere un cocchiere che punisce brutalmente un cavallo caduto, abbraccia in lacrime il collo dell'animale e lo bacia. Avvenne a Torino, il 3 gennaio del 1888, e quella data segna, in un certo senso, la fine della filosofia: è a partire da questo evento che ha inizio la cosiddetta follia di Nietzsche che - come il suicidio di Socrate - è un avvenimento indimenticabile nella storia della ragione occidentale. La cosa incredibile, è che la scena sia letteralmente la ripetizione di una scena di Delitto e Castigo di Dostoevskij (nel 5° capitolo della Prima parte), quella in cui Raskolnikov sogna dei contadini ubriachi che picchiano a morte un cavallo. Sopraffatto dalla compassione, Raskolnikov si stringe al collo dell'animale caduto e lo bacia. Sembra che nessuno si sia accorto del bovarismo di Nietzsche che ripete una scena che ha letto. (E la teoria dell'Eterno Ritorno può esser vista come una descrizione dell'effetto di falsa memoria che viene prodotto dalla lettura.) »

- Ricardo Piglia - da "Formas breves" DEBOLS!LLO -

sabato 6 marzo 2021

Agitazioni e/o Rivolte

Agitazioni e rivolte
- di Raúl Zibechi -

Un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale (FMI) rivela che le classi dominanti, delle quali l'organizzazione è al servizio, si aspettano che in tutto il mondo, come conseguenza della pandemia, si verifichino agitazioni sociali. La relazione dal titolo "Ripercussioni sociali della pandemia", pubblicata in gennaio, considera che la storia possa essere una guida che ci consente di prevedere qui disordini che si manifesteranno a partire da fratture già esistenti nella società: mancanza di protezione sociale, la percezione dell'incompetenza e della corruzione dei governi.
Grazie alle sue vaste risorse, l'FMI ha elaborato un indice del malessere sociale sulla base di un'analisi che ha interessato milioni di articoli di stampa pubblicati a partire dal 1985 in 130 paesi, e che riportano 11.000 eventi che hanno causato disordini sociali. Tutto questo avrebbe loro permesso di prevedere che, a metà del 2022, avrà inizio un'ondata di proteste che cercheranno di prevenire e di controllare.
Ad essere importante, è il fatto che l'Organismo dica ai governi e al grande capitale che il periodo che si aprirà nei 14 mesi successivi all'inizio della pandemia, potrebbe essere pericoloso per i loro interessi, e che perciò devono essere preparati a tutto questo, e inoltre aggiunge che, cinque anni dopo, gli effetti dei disordini saranno solo residuali e non influiranno più sull'economia.
L'equazione sembra chiara: le classi dominanti si aspettano disordini, e quindi si preparano ad affrontarli e a neutralizzarli, dal momento che per un po' possono destabilizzare il dominio.
Un dettaglio: lo studio non menziona nemmeno quali potrebbero essere i risultati di eventuali elezioni - con i rischi che queste potrebbero comportare per il capitale - forse perché, indipendentemente da chi vinca, sanno che i governi emersi dalle urne non sono mai stati in grado di mettere in discussione il potere del capitale, e tantomeno di minarlo.
Noi, dei movimenti anticapitalisti, dobbiamo prestare attenzione alle previsioni che fa il sistema, per non ripetere errori ed evitare così azioni che alla lunga ci potrebbero logorare, senza produrre cambiamenti. Propongo di differenziare le agitazioni dalle rivolte, in modo da mostrare che le prime non sono convenienti, ma le seconde possono esserle, nel caso che esse siano il prodotto di una solida azione collettiva.
Le agitazioni sono reazioni quasi immediate all'aggravarsi della situazione, come nel caso del verificarsi di crimini polizieschi: generano un'enorme e furiosa energia sociale che scompare in pochi giorni. Tra le agitazioni, c'è quella avvenuta a settembre e durata tre giorni, a Bogotà, a causa dell'assassinio da parte della polizia, con nove fratture al cranio, di un giovane avvocato.
La repressione ha causato la morte di dieci manifestanti e più di 500 feriti, di cui circa 70 da proiettili. La giusta rabbia si è concentrata sui Centri di Attenzione Immediata, le sedi della Polizia nelle periferie, 50 delle quali sono state distrutte o incendiate. Dopo tre giorni, la protesta è finita senza che siano rimasti collettivi organizzati nei quartieri più colpiti dalla violenza di Stato.
Ci sono molti esempi come questo, ma il mio interesse consiste nell'evidenziare che gli Stati hanno imparato ad affrontarli e ad occuparsene. Esagerano quella che è l'esposizione della violenza sui mezzi di comunicazione, creano gruppi di studio sulle ingiustizie sociali, tavoli di negoziazione per simulare interesse, e arrivano persino a rimuovere alcuni poliziotti dal loro posto, trasferendoli in altri luoghi. La cosa più comune, è che i governi ammettano che ci sono ingiustizie, in generale, e attribuiscano la violenza dei disordini alla precarietà del lavoro giovanile e ad altre caratteristiche del sistema, senza affrontare le cause di fondo.
La rivolta è qualcosa di diverso. Un corpo organizzato decide di darle inizio, ne traccia gli obiettivi e i modi, quelli che sono i punti di concentrazione e quali sono i punti di ritirata, e nel dialogo collettivo decide quale sia il momento di porre fine alla rivolta. Il miglior esempio è la rivolta indigena e popolare dell'ottobre del 2019, in Ecuador. È durata 11 giorni, è stata decisa dalla base della Confederazione della Nazionalità indigene dell'Equador e vi hanno aderito i sindacati e i giovani delle periferie urbane. La violenza è stata arginata dalle guardie delle organizzazioni, che hanno impedito i saccheggi indotti dalla polizia infiltrata sotto copertura. Si è deciso di porvi fine decidendolo a Quito, in enormi assemblee, dopo che il governo di Lenín Moreno ha annullato il pacchetto di misure neoliberiste che aveva dato origine alla mobilitazione. Il parlamento indigeno e dei movimenti sociali, creato alcuni giorni dopo, si è assunto l'incarico di dare continuità al movimento.
Una rivolta potrebbe rafforzare l'organizzazione popolare. In Cile, che preferiscono dire rivolta e non agitazione, durante le proteste, in quasi tutti i quartieri popolari sono state create più di 200 assemblee territoriali. L'azione collettiva di massa e decisa, deve rafforzare l'organizzazione perché questa è l'unica cosa che può dare continuità nel tempo. Le classi dominanti hanno già imparato, da tempo, ad eludere le agitazioni, dal momento che sanno che sono effimere. Se ci organizziamo, le cose possono cambiare, ma non otterremo nulla se riterremo che il sistema crollerà con un solo colpo.

- Raúl Zibechi - Pubblicato il 26/2/2021 su La Jornada -

fonte: Blog da Consequência

venerdì 5 marzo 2021

Un’altra meta

Rosa Luxemburg, marxista senza dogmi
- di Marcello Musto -

Quando nell'agosto del 1893, al Congresso di Zurigo della Seconda Internazionale, dalla presidenza dell'assemblea fu menzionato il suo nome, Rosa Luxemburg si fece spazio senza indugiare tra la platea dei delegati e militanti che riempivano la sala stracolma. Era ancora giovanissima , di corporatura minuta e con una deformazione all'anca che la costringeva a zoppicare sin dall'età di cinque anni. Ai presenti, il suo apparire poteva destare l’impressione di trovarsi dinanzi a una donna fragile. Stupì tutti, invece, quando, dopo essere salita su una sedia per farsi ascoltare meglio, riuscì ad attirare l'attenzione dell'intero uditorio, sorpreso dall'abilità della sua dialettica e affascinato dall'originalità delle sue tesi.
Per Luxemburg la rivendicazione centrale del movimento operaio polacco non doveva essere la costruzione di una Polonia indipendente, come veniva ripetuto all'unanimità. La Polonia era ancora tripartita tra gli imperi tedesco, austro-ungarico e russo; la sua riunificazione risultava di difficile attuazione, mentre ai lavoratori andavano prospettati obiettivi realistici per generare lotte pratiche nel nome di bisogni concreti. Con un ragionamento che sviluppò negli anni a venire, ammonì quanti enfatizzavano la questione nazionale, convinta che la retorica patriottica sarebbe stata pericolosamente utilizzata per relegare in secondo piano la questione sociale. Alle tante oppressioni patite dal proletariato non occorreva aggiungere «l'asservimento alla nazionalità polacca». Per fare fronte all'insidia, Luxemburg auspicò la nascita di autogoverni locali e il rafforzamento delle autonomie culturali che, una volta instaurato il modo di produzione socialista, avrebbero fatto da argine al possibile ripresentarsi di rigurgiti sciovinisti e ad altre discriminazioni. Attraverso queste riflessioni, distinse la questione nazionale da quella dello Stato nazione.
L'episodio di Zurigo simboleggia l'intera biografia intellettuale di colei che va annoverata tra i più significativi esponenti del socialismo novecentesco. Nata 150 anni fa, il 5 marzo del 1871, a Zamosc, nella Polonia sotto occupazione zarista, Luxemburg trascorse la sua esistenza ai margini, lottando contro numerose avversità, andando sempre controcorrente e pagando di persona: morì il 15 gennaio 1919, assassinata da miliziani di destra. Di origini ebraiche, disabile per tutta la vita, all'età di 26 anni si trasferì in Germania, dove riuscì a ottenere la cittadinanza solo grazie a un matrimonio combinato. Pacifista convinta al tempo della Prima guerra mondiale, venne incarcerata più colte per le sue idee. Fu ardente nemica dell'imperialismo nel mezzo di una nuova e violenta stagione coloniale. Soprattutto, fu una donna e visse in mondi abitati così esclusivamente da soli uomini. Fu spesso l'unica presenza femminile sia all'Università di Zurigo, dove conseguì il dottorato nel 1897, che tra i dirigenti del Partito socialdemocratico tedesco, nel quale venne nominata prima insegnante donna della scuola centrale di formazione dei quadri.
A queste difficoltà si aggiunsero il suo spirito indipendente e la sua autonomia - una virtù spesso penalizzante anche nei partiti di sinistra. Luxemburg aveva la capacità di elaborare nuove idee e difenderle, senza alcuna timorosa riverenza, al cospetto di figure del calibro di August Bebel o Karl Kautsky, che avevano avuto il privilegio di formarsi attraverso il contatto diretto con Engels. Il suo fine non fu quello di ripetere le parole di Marx, ma di interpretarle storicamente.
Riuscì a superare i tanti ostacoli incontrati e, in occasione di Eduard Bernstein e dell'acceso dibattito che ne seguì, divenne nota nella principale organizzazione del movimento operaio europeo. Se nella celebre opera "I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia", aveva invitato il partito a recidere i ponti con il passato e a trasformarsi in una forza gradualista, nello scritto "Riforma sociale o rivoluzione?", Luxemburg replicò fermamente che, in ogni periodo della storia, «il lavoro di riforma sociale si muove solo nella direzione e per il tempo corrispondenti alla spinta che gli è stata impressa dall'ultima rivoluzione». Quanti ritenevano che «nel pollaio del parlamentarismo borghese» si potessero ottenere i medesimi cambiamenti possibili mediante la conquista rivoluzionaria del potere politico, non avevano scelto una «via più tranquilla e più sicura verso la "stessa" meta, ma piuttosto un'"altra" meta».
Per Luxemburg, il socialismo avrebbe dovuto espandere la democrazia, non ridurla. Così, nel 1904, fu protagonista di un altro violento contrasto, questa volta con Lenin, sulle forme dell'organizzazione politica. Il leader bolscevico concepì il partito come un nucleo compatto di rivoluzionari di professione, un'avanguardia che doveva guidare le masse. Luxemburg obiettò che un partito estremamente centralizzato generava una dinamica pericolosa: l'«obbedienza cieca dei militanti all'autorità centrale». Il partito doveva sviluppare la partecipazione sociale, non soffocarla. Marx aveva scritto che «ogni passo del movimento reale era più importante di una dozzina di programmi». La Luxemburg estese questo postulato e affermò che «i passi falsi che compie un reale movimento sono, sul piano storico, incommensurabilmente più fecondi e più preziosi dell'infallibilità del migliore comitato centrale».
Questa polemica acquisì ancora maggiore rilevanza dopo la rivoluzione sovietica, alla quale offrì appoggio incondizionato. Preoccupata dagli eventi che si susseguivano in Russia (a partire dalla modalità con cui si cominciò ad affrontare la riforma agraria), Luxemburg fu la prima, nel campo comunista, a osservare che un «regime di prolungato stato d'assedio» avrebbe esercitato «un'influenza degradante sulla società». Ribadì che la missione storica del «proletariato giunto al potere» era quella di «creare una democrazia socialista al posto della democrazia borghese, non di distruggere ogni forma di democrazia». Per lei comunismo significava una «più attiva e libera partecipazione delle masse popolari in una democrazia senza limiti». Un orizzonte politico e sociale veramente diverso sarebbe stato raggiunto soltanto attraverso questo complicato processo e non se l'esercizio della libertà fosse stato «riservato solo ai partigiani del governo e ai membri di un partito unico». Pur praticando opzioni politiche opposte, socialdemocratici e bolscevichi avevano entrambi erroneamente concepito democrazia e rivoluzione come due processi tra loro alternativi. A, contrario, il cuore della teoria politica di Luxemburg era incentrato sulla loro indissolubile unità.
L'altro cardine della sua militanza fu il binomio opposizione alla guerra e agitazione antimilitarista. Su questi temi Luxemburg ammodernò il bagaglio teorico della sinistra e fece approvare chiaroveggenti risoluzioni ai congressi della Seconda Internazionale. La funzione degli eserciti, il costante riarmo e il ripetersi delle guerre non dovevano essere intesi solo mediante le categorie dell'Ottocento. Si trattava, come era stato scritto, di strumenti utili agli interessi delle forze reazionarie e che producevano divisioni nel proletariato, ma essi rispondevano anche a una precisa finalità economica. Il capitalismo necessitava della guerra, persino in epoca di pace, per accrescere la produzione, così come per conquistare, appena si presentavano le condizioni, nuovi mercati nelle periferie coloniali extra-europee. La battaglia contro questa barbarie poteva essere vinta solo grazie alla lotta consapevole delle masse e, poiché l'opposizione al militarismo richiedeva una forte coscienza politica, Luxemburg fu tra i più convinti sostenitori dello sciopero generale contro la guerra - un'arma che molti a sinistra, Marx compreso, sottovalutarono. Per la fondatrice della Lega di Spartaco la lotta di classe non si esauriva con l'aumento del salario. Luxemburg non volle essere una mera epigona e il suo socialismo non fu mai economicista. Immersa nei drammi del suo tempo, cercò di innovare il marxismo senza metterne in questione le fondamenta e il suo tentativo parla, ancora oggi, alle giovani generazioni.

- Marcello Musto - Pubblicato su La Lettura del 28/2/2021 -

Domande

«I said to Hank Williams, how lonely does it get?
Hank Williams hasn't answered yet
But I hear him coughing all night long
Oh, a hundred floors above me in the Tower of Song»

«Ho chiesto ad Hank Williams, fino a che punto ci si può sentire soli?
Ma Hank Williams ancora non mi ha risposto
Anche se ogni notte lo sento che continua a tossire
Lassù , un centinaio di piani sopra di me, nella Torre della Canzone
»

(Leonard Cohen, Tower of Song, 1988)

giovedì 4 marzo 2021

Strangers in Paradise…

Sempre più spesso, nel commentare una frase, nel leggere un libro, nell'ascoltare il testo di una canzone, nel sentire una musica, nel guardare un film, ma anche, perfino, nel parlare con delle persone di ciascuna di queste cose, oppure nel discuterne, nello scambiarsi dei punti di vista - per quanto a volte stanchi, o a volte appassionati essi siano.
In tutto questo, a fronte di tutto questo - sempre più spesso, dicevo - intravvedo come una sorta di spettro sbeffeggiante. Lo spettro dell'incapacità a spiegare, non dico il disaccordo, ma il ... non poter non essere d'accordo, alla fine. E, allo stesso tempo, rendersi conto, quasi allucinando, che «l'altro» non sarebbe d'accordo sulle mie ragioni (le stesse ragioni che dovrebbero rendermi d'accordo con lui!). Perché, in questa tragedia (a volte commedia), ciascuno ha le sue, di ragioni. E sono buone ragioni, sempre.

mercoledì 3 marzo 2021

Quella figurina, tenetela da parte...

Le macchine mitologiche dell'Homo sapiens
- di Leonardo Ambasciano -

Siamo dei primati eminentemente sociali e altamente sensibili alle dinamiche di potere, allo status individuale, e alle gerarchie sociali, fino al punto da spendere una considerevole quantità del nostro tempo e delle nostre risorse per ottenere beni di prestigio, per seguire individui carismatici, e per possedere oppure accedere a dei luoghi considerati speciali, sacri o rilevanti dal nostro gruppo (Shryock and Smail 2011; Paden 2016). Se non mi credete, basta andare a dare un'occhiata a tutti quegli oggetti pop che vengono messi all'asta per delle somme da capogiro, e che vanno dai fumetti d'epoca all'armamentario sportivo e cinematografico. Nel 2003, per esempio, Todd McFarlane, autore di fumetti, ha comprato la palla da baseball del 70° home run di Mark McGuire, del 1998, per 3 milioni di dollari. Oggi come oggi, i fumetti della Golden Era in buone condizioni vengono valutati milioni di dollari (Fig.1). Non è che non si trovino palle da baseball ad un prezzo accessibile, o ristampe del #1 di Batman. Gli è che la differenza sta tutta nella nostra testa. I nostri pregiudizi psicologici e le nostre caratteristiche computazionali includono scorciatoie intuitive e limiti cognitivi modellati da pressioni socio-ecologiche specifiche della specie. Per esempio, McFarlane ha speso 3 milioni di dollari per una banale ma prestigiosa palla da baseball nel tentativo di attirare l'attenzione e dimostrare così il suo impegno nel sottogruppo coinvolto con l'industria dello sport, nel momento in cui stava ampliando il suo portafoglio imprenditoriale di licenze. Le nostre abilità cognitive sono strutturate su misura per funzionare al meglio all'interno di comunità che operano su piccola scala e che si trovano ad essere inscritte in un sistema sociale articolato a più livelli, caratterizzato da una crescente distanza personale e da una sempre più ridotta parentela e frequentazione . In quanto outsider, McFarlane si è impegnato con successo nel dare quella costosa dimostrazione di coinvolgimento che gli antropologhi chiamano CRED, ovvero, Credibility-Enanching Display [Esposizione che accresce la credibilità](Henrich 2009). Per quanto riguarda il primo numero di Batman, e mettendo da parte per un momento le speculazioni di mercato e il valore dell'investimento, sia che possediamo una semplice ristampa o il numero originale (il quale, semmai, dovrebbe essere esposto in un museo), possedendo e mettendo in mostra simili oggetti noi diventiamo parte di un significativo passato condiviso, e membri di una estesa fratellanza, immaginaria o meno. Se consideriamo il nostro potenziale attaccamento emotivo alla storia stessa, fondamentalmente ci impegniamo nella creazione di miti volti a costruire e a confermare i nostri valori morali, per affermare la nostra identità personale, e per rafforzare i nostri legami con i nostri compagni (Paden 2016). Infatti, così facendo, i pregiudizi antropomorfici del nostro cervello di primate sociale stanno facilitando la socializzazione nel gruppo, in maniera intuitivamente facile, poco costosa a livello computazionale, e facendoci risparmiare tempo: di solito, i co-specifici sono identificabili in un batter d'occhio come amici o come nemici (Fig.2).

Eppure, come sanno assai bene i truffatori di ogni tipo, i venditori di ogni genere e i politici, è sorprendentemente facile trarre vantaggio dai nostri pregiudizi filo-sociali riguardo le nostre comunità urbane e digitali composte da milioni di estranei. In un certo qual modo, la nostra propensione a ottenere o mostrare beni prestigio per dimostrare il proprio alto livello di conoscenze, per stimolare la fiducia del gruppo, e ottenere in tal modo uno status è allo stesso tempo sia una risposta alla dissoluzione della comunità limitata e basata sulla parentela sia una spinta a creare nuovi gruppi di pseudo parentela su base culturale. Le religioni post-agrarie e sedentarie facevano esattamente la stessa cosa, cioè estendere la parentela fittizia a persone non imparentate. Su questo torneremo ancora. Per il momento, limitiamoci a dire che non siamo così intelligenti, né così sapiens , come ci piace pensare. Di fatto, le nostre capacità cognitive innate non sono di alto livello, e neppure infallibili: l'evoluzione non ha alcun obiettivo finale, né una qualche sorta di perfezione, da ottenere (Jacob 1977; Gould 1989), e il nostro equipaggiamento cognitivo hardware è assai lontano dall'essere perfetto. Nel corso dell'evoluzione del loro cervello sociale, i nostri progenitori ominidi hanno davvero rinunciato ad alcune abilità cognitive chiave dei primati, che ad esempio ha portato ad una perdita di capacità memonica e di abilità nell'interpretazione contestuale. Uno scimpanzé può batterci facilmente in un test di abilità nella memorizzazione  (Matsuzawa 2013). In origine, tutto ciò che poi sarebbe diventato parte dei nostri pregiudizi innati, erano solo delle scorciatoie abbastanza affidabili ed efficaci che costituivano una reazione sicura in specifiche circostanze ambientali. Per esempio, non c'è alcun male nel generalizzare e supporre che qualsiasi movimento percepito, qualsiasi debole suono, o ogni figura distante potrebbero essere qualcuno o qualcosa in agguato che ci sta aspettando con intenzioni aggressive. Certo, potrebbe essere il vento che soffia tra quei rami o fra i cespugli, ma se si trattasse di un predatore affamato o di un nemico umano nascosto che ci sta aspettando? Non è difficile immaginare come i nostri antenati più di successo fossero quegli individui che assumevano come plausibile quello che era lo scenario peggiore, e di conseguenza evitavano che i loro geni venissero filtrati dalla loro corsa per la vita. Tuttavia, l'effetto Baldwin risultante da questo processo di filtraggio, combinato alla nostra forte propensione innata a identificare e interagire con i nostri nuovi conspecifici, nel tempo, più tardi ha portato a una disfunzione cognitiva. Come conseguenza, per esempio, vediamo dei volti umani nelle nuvole, oppure dei santi apparire nella muffa su un muro , senza che da parte nostra, nel farlo, ci sia alcuno sforzo cosciente (Guthrie 1993; Fig. 3).

Simili distorsioni intuitive sono legioni. Siamo perseguitati e ossessionati da una pletora di percezioni e schemi cognitivi folkloristici innati di tipo psicologico, biologico ed economico, nessuno dei quali offra una comprensione affidabile di come funzioni davvero il mondo, ma che costituiscono solo delle scorciatoie, intuitive, a malapena sufficienti, e a volte del tutto inaffidabili (Boyer 2001; Boyer and Petersen 2017). Sono stati proposti altri pregiudizi, visti come se fossero il risultato evolutivo di tali pressioni sociali evolutive, ad esempio, come la deferenza verso l'autorità, il conformismo al gruppo, il pregiudizio legato al prestigio, e perfino dei ragionamenti argomentativi (Mercier and Sperber 2011). Sfortunatamente, tutti questi pregiudizi possono essere facilmente sfruttati e cooptati per promuovere una mentalità «Noi contro Loro», qualora sganciati da una valutazione ed un controllo riflessivi, ponderati, calmi e critici; la cui assenza ci rende proni a impegnarci in comportamenti potenzialmente violenti contro qualsiasi gruppo esterno (Atran 2011: 431-440; Turner et al. 2018; Ambasciano 2019: 151-154; cf. Kahnemann 2011).
L'interazione serendipitaria tra (A) processi innati, potenzialmente erronei e sub-ottimali a livello computazionale, adatti a funzionare in società su piccola scala, e (B) uno sviluppo tecnologico a scatti e con delle accelerazioni tipo di comunità ultra-sociali forti di milioni di persone, a lungo termine, ha finito per amplificare credenze e comportamenti disadattivi. Anche ciò che nella storia profonda del nostro genere avrebbe potuto essere stato in qualche modo adattivo, in un ambiente sociale e tecnologico in rapida mutazione può portare a delle risposte del tutto disadattive (Martin and Wiebe 2016: 45-128). La parentela su piccola scala geneticamente correlata, è stata effettivamente «ingannata e modificata» cognitivamente, attraverso «narrazioni di discendenza» fittizie e moralizzanti (Martin 2014: 97),  al fine di ospitare una «parentela immaginaria»  (Atran 2011: 430-440). Anche se la linea sociale di base dei cacciatori-raccoglitori, che si fondava sulla «gerarchia a dominio rovesciato» [*], impediva (e in certi luoghi impedisce ancora) che si verificassero significative ineguaglianze sociali, nel tempo l'istituzionalizzazione del sedentarismo, dell'agricoltura, e dell'allevamento ha portato sia alla sovrappopolazione che all'accumularsi di un surplus economico a favore di un'élite di accaparratori di ricchezza. Questo cambiamento epocale, sebbene all'inizio fosse limitato geograficamente, fece inclinare l'equilibrio sociale a favore della creazione di politiche rigidamente gerarchizzate, di organizzazioni di tipo sacerdotale, e di dogmi (cf. Boehm 1999; Gowdy and Krall 2016; Scott 2017).  In questo ambiente storico senza precedenti, gli inadeguati meccanismi intuitivi del cervello sociale dell'Homo sapiens sarebbero stati ricorrentemente sfruttati o imbrogliati, sia in maniera conscia che inconscia, per creare macchine mitologiche; concetto questo originariamente coniato da Furio Jesi (1941-1980), pioneristico studioso italiano di Religioni, per mezzo del quale egli descrive: «l'utilizzo dinamico del discorso [religioso] al fine di riprodurre strutture di potere e di generare all'interno di una "comunità immaginata" un sistema istituzionale di autorità» (Ambasciano 2019: 8; per approfondire: Jesi 2011). I poteri hanno perciò costruito delle macchine mitologiche per armeggiare con i nostri innati pregiudizi ed esercitare potere e controllo sui subordinati. Il risultato finale è stato quello di ottenere mitografie storicamente fallaci, ma che erano in grado di attrarre l'attenzione, e che «massimizzavano la coesione del gruppetto a spese delle relazioni di gruppo,» mantenendo lo status quo sociale nel mentre che allo stesso tempo giustificava sia la disuguaglianza gerarchica del gruppetto che disumanizzazione del gruppo esterno (Dunbar 2013: 61; cf. McCauley 2011; Sapolsky 2017).
Ancora non ci sono state crociate per il possesso di reliquie pop, quali i fumetti dei supereroi della Golden Age o i cimeli sportivi, ma se la morale sociale ed economica dovesse cambiare sufficientemente, o dovesse collassare (e non ho alcuna difficoltà a immaginare la società distopica di un Mad Max, di un Waterworld, o di quella di The Road), allora i meccanismi socio-cognitivi che entrerebbero in gioco in questi ipotetici casi sarebbero esattamente gli stessi che hanno alimentato il sorgere e la crescita della violenza tra differenti fazioni religiose e politiche: tra un «Noi» che reclama qualcosa di prestigioso da un «Loro» potenzialmente disumanizzato. Anche in quello che potrebbe essere il miglior scenario possibile, vi consiglio di tenere da parte finché potere la vostra maglietta originale del film Jurassic Park del 1993... non si sa mai; potreste averne bisogno per mercanteggiare mentre un giorno vi troverete a cercare di assicurarvi una bottiglia d'acqua.

- Leonardo Ambasciano - Pubblicato il 15/1/2021 su Leonardo Ambasciano Blog -

[*]: N.d.T.: Cristopher Bohem, in "Hierarchy in the Forest" (vedi riferimenti) ha definito come società aventi "gerarchia a dominio rovesciato": all’interno delle quali «tutti i maschi adulti costituiscono una coalizione per impedire che uno di loro, da solo o con pochi alleati, possa dominare gli altri».

Riferimenti:

- Ambasciano, Leonardo. 2019. An Unnatural History of Religions: Academia, Post-truth, and the Quest for Scientific Knowledge. London and New York: Bloomsbury.
- Atran, Scott. 2011. Talking to the Enemy: Sacred Values, Violent Extremism, and What It Means to Be Human. London: Penguin.
- Boehm, Cristopher. 1999. Hierarchy in the Forest: The Evolution of Egalitarian Behavior. Cambridge, MA and London: Harvard University Press.
- Boyer, Pascal. 2001. Religion Explained: The Evolutionary Origins of Religious Thought. New York: Basic
- Boyer, Pascal and Michael Bang Petersen. 2017. “Folk-economic Beliefs: An Evolutionary Cognitive Model.” Behavioral and Brain Sciences 41: e158. https://doi.org/10.1017/S0140525X17001960
- Dunbar, Robin. 2013. “The Origin of Religion as a Small-scale Phenomenon.” In Steve Clarke, Russell Powell, and Julian Savulescu (eds), Religion, Intolerance, and Conflict, 48-66. Oxford University Press: Oxford.
- Dunbar, Robin. 2014. Human Evolution. London: Penguin.
- Gowdy, John and Lisi Krall. 2016. “The Economic Origins of Ultrasociality.” Behavioral and Brain Sciences 39, e92. https://doi.org/10.1017/S0140525X1500059X
- Gould, Stephen J. 1989. La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia - Feltrinelli 1990
- Guthrie, Stewart E. 1993. Faces in the Clouds: A New Theory of Religion. New York: Oxford University Press.
- Henrich, Joseph. 2009. “The Evolution of Costly Displays, Cooperation and Religion: Credibility Enhancing Displays and their Implications for Cultural Evolution.” Evolution and Human Behavior 30(4): 244–260. http://dx.doi.org/10.1016/j.evolhumbehav.2009.03.005
- Jacob, F. 1977. ‘Evolution and Tinkering.’ Science 196(4295): 1161–6. https://doi.org/10.1126/science.860134
- Jenkins R., A. J. Dowsett, and A. M. Burton. 2018. “How Many Faces Do People Know?” Proceedings of the Royal Society B 285: 20181319. http://dx.doi.org/10.1098/rspb.2018.1319
- Jesi, Furio. 2011 [1979]. Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista .Edited by A. Cavalletti. Rome: nottetempo.
- Kahneman, Daniel. 2011. Pensieri lenti e veloci, Milano: Mondadori, 2012
- Martin, Luther H. 2014. Deep History, Secular Theory: Historical and Scientific Studies of Religion. Boston and Berlin: De Gruyter.
- Martin, Luther H. and Donald Wiebe (eds.) 2016. Conversations and Controversies in the Scientific Study of Religion: Collaborative and Co-authored Essays by Luther H. Martin and Donald Wiebe. Leiden and Boston: Brill.
- Matsuzawa, Tetsuro. 2013. “Evolution of the Brain and Social Behavior in Chimpanzees.” Current Opinion in Neurobiology 23(3): 443-449. https://doi.org/10.1016/j.conb.2013.01.012
- McCauley, Robert N. 2011. Why Religion Is Natural and Science Is Not. New York and Oxford: Oxford University Press.
- Mercier, Hugo and Dan Sperber (2011). “Why Do Humans Reason? Arguments for an Argumentative Theory.” Behavioural and Brain Sciences 34(2): 57–74. https://doi.org/10.1017/S0140525X10000968
- Paden, William E. 2016. New Patterns for Comparative Religion: Passages to an Evolutionary Perspective. London and New York: Bloomsbury.
- Sapolsky, Robert. 2017. Behave: The Biology of Humans at Our Best and Worst. London: Penguin.
- Scott, James C. (2017). Le origini della civiltà. Una controstoria (2018). Einaudi
- Shryock, Andrew and Daniel L. Smail (eds). 2011. Deep History: The Architecture of Past and Present. Berkeley, Los Angeles and London: University of California Press.
- Turner, Jonathan H., Alexandra Maryanski, Anders K. Petersen, and Armin W. Geertz. 2018. The Emergence and Evolution of Religion by Means of Natural Selection. London and New York: Routledge.

martedì 2 marzo 2021

Uomini in rivolta

Nascosta dall’ascesa dei populisti, un’onda di protesta popolare sta agitando il nostro pianeta. Da dove viene questo malcontento? E, soprattutto, dove porterà? Nadav Eyal, in un saggio appassionante come un’inchiesta, esamina le forze che stanno trasformando la nostra realtà economica, politica e culturale. Introduce i lettori alla “ribellione globale”, un moto di rabbia che si è imposto progressivamente dall’Italia dell’antipolitica all’Europa della Brexit, dall’America di Trump al mondo intero assediato dalla pandemia. Una rivolta che nasce dal drammatico conflitto tra i risultati raggiunti dalla globalizzazione (che ha sottratto milioni di persone alla povertà) e i suoi costi immensi (aumento della disuguaglianza economica, danni ambientali, crisi migratorie). Eyal dà voce non solo alla rivoluzione economica e culturale che sta definendo la nostra epoca, ma anche ai protagonisti della controrivoluzione che sono stati marginalizzati e sfruttati. Unendo racconto giornalistico e analisi storica, Eyal mostra quanto tutti gli estremisti, a prescindere da fedi politiche o religiose, si somiglino in modo inquietante. E quanto, sorprendentemente, abbiano in comune le storie dei minatori della Pennsylvania, degli anarchici delle periferie di Atene, dei neonazisti in Germania, delle famiglie di profughi siriani che arrivano sulle coste europee. In corso di traduzione in 15 paesi, Revolt è una replica puntuale a coloro che si arrendono al fanatismo, e, al tempo stesso, un appassionato tributo a chi quotidianamente rivendica per sé e per il nostro pianeta un futuro migliore.

(dal risvolto di copertina di: "Revolt. La ribellione nel mondo contro la globalizzazione", di Nadav Eyal. La Nave di Teseo)

Un nuovo spettro si aggira per il mondo: la rivolta (globale) contro la globalizzazione
- di Raffaele Alberto Ventura -

Quando i matematici parlano della teoria del caos, la illustrano con il celebre esempio della farfalla che, battendo le ali in Brasile, scatena un tornado in Texas. L'idea è che i sistemi altamente complessi siano particolarmente sensibili ad alcune minime variazioni: così, pur governate da rigide leggi deterministiche, questi sistemi ci appaiono caotici. L'elemento scatenate potrebbe essere fuori dal nostro campo di osservazione, o troppo piccolo per essere notato, impossibile da trovare come il proverbiale ago nel pagliaio. L'effetto farfalla sembra essere una perfetta metafora del disordine mondiale che ci circonda e caratterizza i primi anni del ventunesimo secolo. Crisi economiche, pandemie, populismo, violenza politica: ogni cosa è collegata, sicuramente, ma come? Per capirlo bisognerebbe muoversi dal Brasile al Texas e oltre, inseguire una farfalla per tentare di restituire una visione d'insieme del sistema.
È precisamente quello che prova a fare il giornalista israeliano Nadal Eyal in "Revolt. La ribellione del mondo contro la globalizzazione", un libro che colpisce innanzitutto per il gran numero di biglietti aerei che dev'essere costato muoversi lungo vent'anni dallo Sri Lanka alla Grecia, dalla Germania all'India, dagli Stati Uniti al Giappone, dal Regno Unito alla frontiera tra Serbia e Ungheria, osservando le trasformazioni e discutendone con testimoni diretti.
Contemporaneamente appassionante e deprimente, il libro di Eyal esplora di capitolo in capitolo ogni linea di faglia della globalizzazione. Incontriamo nazisti e anarchici, visitiamo teatri di attentati terroristici, ci muoviamo tra minatori disoccupato e grandi investitori, ascoltiamo i sogni dei rifugiati in fuga dalla Siria - tante storie diverse tenute assieme da una riflessione sul fallimento del mito liberale del progresso.
L'autore ne è convinto: viviamo alla fine di un'età dell'oro caratterizzata dalla stabilità, dalla prosperità, dalla sicurezza ma soprattutto dalla fiducia nel futuro. I venti di ribellione che sorgono da ogni angolo del mondo sono tutt'altro che ingiustificati, sebbene spesso prendano forme violente: in un certo senso sono il segnale d'allarme che il sistema ci manda per palesare la sua crisi. Una crisi che è contemporaneamente economica, con la progressiva compressione della classe media occidentale, imperiale, con il rifiuto dei popoli del Sud a continuare a farsi sfruttare, climatica, con gli effetti della sovrapproduzione sull'ecosistema. Come se non bastasse, a questo si aggiungono una crisi demografica e una crisi migratoria, che contribuiscono a erodere la legittimità delle istituzioni che si erano prese carico di governare il mondo. Il problema è che le loro vecchie ricette non funzionano più, e a forza di fare promesse senza mantenerle hanno aperto una drammatica crisi di legittimità.
Collegando tra loro tutti i punti nello spazio e nel tempo, Eyal riesce con empatia a mostrare quale logica di malessere sta dietro alle rivendicazioni più estreme, quelle degli xenofobi e dei terroristi. Ma ne mostra anche la sostanziale inefficacia. Perché se c'è una strada da percorrere si tratta secondo lui di quella della solidarietà. Eppure al termine delle oltre cinquecento pagine di Revolt pare davvero difficile convincersi che si possa far qualcosa per sbrogliare questa gigantesca matassa di problemi. Esiste una via d'uscita alla crisi climatica che non entri in conflitto con lo stile di vita delle classi medie occidentali?  Come possiamo disinnescare le conseguenze della finanziarizzazione dopo che ci abbiamo costruito sopra tutto un sistema economico, terribilmente sensibile all'effetto farfalla? E ora che tutti sappiamo quali ingiustizie è costato il trionfo dell'Occidente, come ci libereremo dal «sovraccarico morale» che ci affligge? Insomma: esiste un modo di sedare la rivolta globale prima che diventi una guerra di tutti contro tutti?
Nadav Eyal non è né un nemico del liberalismo né un antimoderno. Anzi resta convinto che le contraddizioni della globalizzazione possano essere risolte e superate. L'autore non perde occasione di ricordare quali e quanti siano i vantaggi del sistema liberale in termini di prosperità e di sicurezza, e di sottolineare la sua distanza dalle idee degli uomini in rivolta, che siano marxisti o nazionalisti. Eppure dal suo punto di vista, la rivolta globale non è un banale ostacolo alla marcia del progresso ma addirittura uno sprone a risolvere i problemi che ci affliggono. Eyal vorrebbe indirizzare l'energia della rivolta verso il cambiamento, di modo da permettere alla logica dello sviluppo di risolvere i problemi della globalizzazione. Come nella dialettica di Hegel, la forza del negativo sarebbe dunque in grado di correggere la Storia. Eppure via via che si accumulano i fattori di rischio sorge il sospetto che questa volta non sarà facile evitare il peggio. Un altro «uomo in rivolta», Albert Camus, aveva scritto oltre mezzo secolo fa che il compito dell'umanità ormai non era più di rifare il mondo, quanto semmai di impedire che il mondo si distrugga.

- Raffaele Alberto Ventura - Pubblicato su Tuttolibri del 20/2/2021 -

lunedì 1 marzo 2021

Il naso di Mussolini

L'omaggio alla donna che sparò al Duce
- di Antonello Guerrera -

«Finalmente la donna che sparò a Mussolini avrà il riconoscimento che merita. Un uomo, al suo posto, avrebbe da tempo una statua in suo onore». Perché il Comune di Dublino ha deciso: Violet Gibson, la donna irlandese che il 7 aprile 1926 a Roma provò a uccidere Benito Mussolini con una St. Etienne 1892    nascosta sotto la veste nera, verrà onorata con una targa nella capitale irlandese.Forse proprio nella georgiana Marrion Square, dove nacque e crebbe con un papà importante, Lord Aushborne, la più alta carica del Paese fino alla creazione dello Stato libero d'Irlanda nel 1922 dopo la guerra civile contro i britannici e la partizione dell'isola.
Ma perché Gibson voleva ammazzare Mussolini? Ci fosse riuscita, avrebbe rivoluzionato la storia contemporanea. Nel 1922, a 48 anni, Violet è vittima di un grave esaurimento nervoso che sfocia in disturbi mentali sempre più gravi. Due anni dopo si trasferisce a Roma, dove vive in un convento con un'altra suora, Mary McGrath. Poco dopo Violet, secondo le testimonianze dell'epoca si convince che «Dio vuole che faccia un sacrificio: uccidere qualcuno». Nel 1925 Gibson prova a suicidarsi: si spara in petto, riesce miracolosamente a salvarsi. Un anno dopo ha deciso: il suo obiettivo è Benito Mussolini.
Il 7 aprile 1926, Gibson aspetta il dittatore italiano in piazza del Campidoglio, a Roma, dopo un convegno con un'associazione di chirurghi. Con sé ha anche una grossa pietra. All'improvviso, tra la folla, prende la pistola e spara. Il primo colpo sfiora e ferisce al naso Mussolini che si scansa all'ultimo momento. Il secondo si inceppa nell'arma, e forse pure il terzo. La polizia arresta la donna prima che venga linciata. Agli inquirenti Gibson dirà di aver provato ad ammazzare Mussolini «per glorificare Dio, che mi ha mandato un angelo». La donna viene presto estradata in Inghilterra, a condizione che non sia mai rilasciata. Gibson morirà all'ospedale psichiatrico di St. Andrews nel 1956, a Northampton, dove è sepolta, dopo aver scritto invano a Churchill e alla futura regina Elisabetta per essere graziata.
Dei quattro tentativi di omicidio di Mussolini, Gibson è quella che è andata più vicino all'obiettivo. Anche per questo «non può essere dimenticata», dice alla Bbc Mannix Flynn, consigliere regionale di Dublino, che ha presentato la mozione per la targa commemorativa: « Come capitato a molti autori di gesti straordinari, soprattutto se donne, Gibson è stata dimenticata dall'establishment britannico e irlandese. Col tempo è diventata una pazza da nascondere. Ma adesso basta ». Aggiunge Barry Dowdall, marito e collaboratore di Siobhan Lynam autrice del documentario "The woman who shot Mussolini", del 2014: «Se Gibson fosse stata un uomo avrebbe già avuto una statua. Invece, perché donna, fu per tutti una matta. Ma chi era più matto, lei o Mussolini?»

- Antonello Guerrera - Pubblicato su Repubblica del 22/2/2021 -