venerdì 25 luglio 2025

Il Marx essoterico e l’antisemitismo a sinistra…

La sinistra e l'antisemitismo: uno sguardo indietro sull'impensato, con Misrahi
-di Rivka DLB -

Attualità di Misrahi
A partire dal 7 ottobre, si è visto, a sinistra, riemergere sulla scena la presenza di questa "questione ebraica", attraverso le nozioni antitetiche di "sionismo" e di "antisionismo". Sia dall'una che dall'altra parte, pur di essere "dalla parte giusta della storia", o per seguire un'agenda politica che va ben oltre il conflitto che ne consegue, si è cominciato ad adottare delle posizioni insostenibili . Sono anche rimasta scioccata dalla mancanza di empatia di una certa parte della sinistra radicale all'indomani del pogrom del 7 ottobre, e dalla sua ambivalenza nei confronti di Hamas, e questo in nome di una lotta de-coloniale nella quale Israele incarnerebbe un progetto imperialista e coloniale. Come diceva a suo tempo Adorno, «il compito, quasi impossibile da risolvere, è quello di non lasciarsi rendere stupidi né dal potere altrui, né dalla propria impotenza». [*1]. Non si tratta più tanto di pensare al nazismo, quanto piuttosto di mettere in discussione la presenza di un pensiero odioso e anti-umanista esistente all'interno di quei partiti che tuttavia sostengono l'universalismo dei valori umanistici. Poiché, a suo tempo, ha osato affrontare quella che veniva allora considerata una "negazione della sinistra" (p. 15) - vale a dire, "l'antisemitismo di sinistra" -  il libro di Misrahi del 1972,  su "Marx e la questione ebraica" [*2], oggi potrebbe avere ancora qualcosa da dirci. Innanzitutto, quello che l'autore chiama "antisemitismo di sinistra" ha diverse caratteristiche: clandestino, in teoria sembra essere impossibile, dal momento che contraddice i principi stessi della sinistra. «Ma, tuttavia, ciò che è contraddittorio non è per questo impossibile». Ecco perché Misrahi intende attaccarlo, e lo fa con l'aiuto di una critica radicale, che lo porta a risalire alla fonte stessa dell'ideologia di sinistra, vale a dire al marxismo e, soprattutto, allo stesso Marx e al suo testo del 1844, "Sulla questione ebraica" [*3]. Tale testo, venne pubblicato come risposta all'intellettuale socialista hegeliano tedesco Bruno Bauer, il quale, avendo studiato egli stesso l'argomento, aveva prodotto un testo innegabilmente antisemita. E - aggiunge Misrahi - anche l'antisemitismo del testo di Marx non ha influenzato il marxismo nel suo complesso. Vedremo più avanti di cosa si tratta. Tra tutte le ragioni che mi hanno indotto a ritornare su questo libro, c'è soprattutto il problema che viene posto da Misrahi, e che io riformulo sotto forma di due domande: 1) la "questione ebraica" rimane attuale, rimane attuale in quanto essa getta luce su qualcosa di impensato, ossia, il modo in cui la sinistra pensa l'ebraismo nelle nostre società contemporanee,  tenendo conto sia degli ebrei della diaspora che dello Stato di Israele? 2) E in che modo la sinistra ha integrato gli ebrei nella lotta di classe? Queste domande ci spingono a tornare all'articolazione esistente tra la sinistra e l'antisemitismo; un'articolazione questa, che ancora oggi rimane un argomento raramente presente negli studi storici e filosofici di sinistra. Pertanto, con Misrahi, si tratta di porre l'accento su qualcosa di impensato - che finirebbe così per essere più simile a un'aporia - per poi, con l'aiuto della ragione, combatterlo efficacemente. Inoltre, a partire dalla mia lettura, sono emerse due nuove domande: esiste un antisemitismo che sarebbe proprio del socialismo e inerente al comunismo? Oppure si tratterebbe solo di qualcosa di accidentale, che per quanto presente nelle persone di sinistra, lo è comunque in modo incoerente e tronco, come se, intrinsecamente, la sinistra non potesse essere antisemita? Per dirla in altro modo: 3) esiste una cosa come l'antisemitismo di sinistra, ovvero, per dirlo meglio, esiste, a sinistra, l'antisemitismo? Prima di iniziare una lettura critica del libro di Misrahi, riassumiamolo in poche parole: "Marx e la questione ebraica" cerca di decriptare le ambiguità filosofiche e storiche del rapporto esistente tra la sinistra e quella che viene chiamata "la questione ebraica". Affrontando l'analisi del celebre testo di Karl Marx, "Sulla questione ebraica", Misrahi ci offre una lettura approfondita e critica di quello che viene spesso considerato solo come un episodio controverso del pensiero marxiano. Ma considerarlo in tal modo, ha i suoi limiti: su questo ci tornerò più avanti.

"Sulla questione ebraica": un testo antisemita
Nel suo primo capitolo, Misrahi ci offre un'analisi comparativa di Marx e di Bauer. Tale analisi consente all'autore di evidenziare le diverse caratteristiche di quello che egli sostiene essere l'antisemitismo di Marx: 1) Egli ignora le persecuzioni subite dagli ebrei nella storia e, più recentemente per lui, quelle sofferte durante il pogrom del 1819. Marx ha riscritto la storia degli ebrei, omettendo il loro status di minoranza oppressa. 2) L'ebraismo - in Bauer come in Marx - si riduce a essere solo una religione, e la questione ebraica diventa così solo una questione religiosa; al punto che Marx afferma che «l'umanità deve liberarsi dagli ebrei» (p. 43). Detta altre parole, per entrambi, l'ebraismo è solo una religione ed è proprio per questo motivo che esso dev'essere soppresso.
Questo punto viene sviluppato nel capitolo successivo, quello in cui Misrahi analizza senza compromessi la definizione marxiana dell'ebraismo visto come religione. Citando più volte il testo del 1844, Misrahi specifica che è qui che Marx innova. La sua definizione, si basa su quello che egli chiama il "vero ebreo", vale a dire quello della cosiddetta "vita civile" (p. 47), un concetto che è frutto di un metodo pseudo-empirista, che non si accontenta dei contenuti dottrinali e rituali, o addirittura culturali, propri dell'ebraismo. Va anche notato che qui l'ebraismo viene ridotto a un tutto omogeneo, proprio come avviene per l'ebreo. E tuttavia, affermando di studiare il "vero ebreo" - per scoprire la natura e l'essenza dell'ebreo - Marx, nel farlo, riprende l'essenzializzazione che avveniva nei confronti di quegli ebrei caricati di pregiudizi odiosi vecchi di secoli, e lo fa nel mentre che li aggiorna, nel contesto della rivoluzione industriale del XIX° secolo. Più precisamente, agli occhi dell'autore del Capitale, l'ebraismo come essenza  ha «bisogno pratico, egoismo», detto in altre parole, bisogno materiale (p. 47). Misrahi commenta il ragionamento di Marx, sottolineando come Marx identifichi la sovrastruttura (la religione ebraica) con l'infrastruttura (la vita materiale). In altre parole, «egli afferma che la religione è la vita stessa degli ebrei, la loro essenza e la loro definizione, e che questa essenza religiosa (cioè la totalità dell'ebraismo) costituisce la manifestazione (o, fenomeno) dell'attività essenziale e fondamentale degli ebrei, il traffico» (p. 49). In quanto religione, l'ebraismo si trova pertanto a essere definito dal denaro, poiché «il denaro è il dio degli ebrei» (p. 49). Di conseguenza, ciò a cui conduce il ragionamento di Marx, è una definizione dell'ebraismo, in cui si dipinge un ritratto dell'ebreo che non può che portare alla «generale disapprovazione dei socialisti» (p. 49), dal momento che tutto viene ridotto al denaro (p. 49), e quindi viene così identificato con la borghesia (p. 50). In sostanza, alla fine, si tratta di ridurre il popolo ebraico a una minoranza irriducibile, a un «popolo-classe» [*4]... e più precisamente alla borghesia. Ora, come ci ricorda Misrahi (p. 50), la borghesia rappresenta l'antagonismo del socialismo. La dialettica marxiana spiegherebbe pertanto il perché la minoranza ebraica sarebbe stata esclusa dal proletariato: «1. L'ebraismo è il denaro. Il denaro è la borghesia. 2. Ora, la borghesia dev'essere distrutta. 3. Quindi, l'ebraismo dev'essere soppresso».
Naturalmente, non c'è nulla di empirico in una simile definizione dell'essenza dell'ebraismo che, lungi dall'essere basata sull'osservazione, fa ricorso solamente a un «pensiero magico» il quale «sostiene, senza alcuna argomentazione razionale, l'esistenza di un'essenza sostanziale, unica e malvagia, che rende possibile la definizione di un gruppo sociale concreto.» (pag. 52). Cosa cruciale, nell'analisi di Misrahi, una tale definizione di ebraismo non viene fuori dal nulla. In realtà, Marx si limita a riprendere per conto proprio i miti nauseabondi de «l'antisemitismo cristiano» [*5] (pp. 106-107) nato con i Padri della Chiesa, e che ha dominato l'Europa a partire dalla prima crociata. Più che farli propri, egli li riattiva all'interno di una teoria socio-economica che mira a costruire una nuova società, come risposta alla violenza e all'oppressione specifica della condizione operaia. Pertanto, essendo associati al denaro e alla borghesia, in una parola, al capitalismo, gli ebrei vengono resi colpevoli dell'alienazione dei lavoratori, messa in atto attraverso il lavoro e, della società, attraverso il denaro. Gli ebrei sono perciò gli antagonisti del socialismo, in quanto sono una minoranza che non può, nella sua essenza, appartenere al proletariato. Ecco che negli scritti di Marx, usciti dalla sua penna, troviamo, all'interno di una teoria socialista, tutto un immaginario di destra; quello che viene descritto nel primo capitolo del libro di Misrahi, e che fa dell'ebreo uno straniero oppressore. Ritroviamo, più  in generale, molti tropi antisemiti specifici del XIX° secolo, i quali si trovano in quelle caricature antisemite che troviamo sulle pagine dei giornali di Édouard Drumont, de "La Libre Parole". Il capro espiatorio è stato designato, ed è per questo che il nostro autore suona l'allarme, e conclude dicendo che l'articolo di Marx è una «condanna a morte, un appello al genocidio» (p. 62), che avverrebbe, se non altro, per assimilazione, per mezzo della quale l'ebraismo come religione verrebbe soppresso, senza tuttavia specificare che cosa ne sarebbe dei suoi membri.

Salvare il marxismo: un antisemitismo contingente
Nella seconda parte del libro, Misrahi si rivolge al marxismo. La posta in gioco è alta: si tratta di sapere se il marxismo - come corrente, o anche in quanto ideologia politica - sia o meno intrinsecamente antisemita. A tal fine, l'autore confronta il primo capitolo di "Sulla questione ebraica" con un altro testo dello stesso anno, noto come i "Manoscritti del 1844". In quest'ultimo testo, appare chiaro come il termine "ebreo" e ogni riferimento all'ebraismo siano  entrambi scomparsi. Troviamo, al loro posto, una tradizionale dialettica marxista. Questo, l'autore lo spiega con una possibile universalizzazione della questione ebraica, senza però dire in che modo ciò potrebbe attenuare le accuse di antisemitismo nei confronti di Marx. La borghesia è sta spogliata delle sue fantasmatiche particolarità ebraiche, e il che ci suggerisce come il testo "Sulla questione ebraica" sarebbe stato solo un passatempo, un momento catartico che avrebbe consentito poi a Marx di epurare una sua colpa, su cui poi ritornerò nella terza parte. Nel 2°capitolo, Misrahi continua nella sua dimostrazione del «carattere non marxista dell'antisemitismo di Marx» (p. 92), evidenziando il divario tra la realtà e le sue analisi, alla rovescia rispetto al metodo marxista.  Infatti, come egli riassume all'inizio della parte successiva, l'antisemitismo di Marx non ha nulla di marxista, dal momento che, nel suo famigerato testo, egli non applica il metodo del materialismo storico, il quale metodo si rifiuta «di postulare essenze eterne al fine di definire un gruppo umano e la sua storia». (pag. 135). Ora, questo è esattamente il contrario di ciò che egli attua in "Sulla questione ebraica", allorché si abbandona a delle fantasie che non si basano su alcun fatto o dato concreto. Nel dipingere il suo «vero ebreo» come se fosse un borghese dominante, Marx ignora (volontariamente o meno) il fatto che l'atto di emancipazione degli ebrei, dell'11 marzo 1812 nel Regno di Prussia (con il quale alla fine ottennero la cittadinanza), è precario. Assai spesso l'assimilazione era reale solo a partire da una conversione al luteranesimo. Sono soprattutto, le «rivolte dell'Hep Hep» del 1819 [*6] che dimostrano come permangano l'oppressione e la persecuzione. Il lavoro dei "maskilim" [*7] è ben lungi dall'essere completato. Pertanto, con la storia degli ebrei di Germania, vale a dire con la sua propria storia, Marx è un revisionista. Inoltre, come ci ricorda Misrahi, nella prima metà del 1842 le polemiche e la questione dell'emancipazione avrebbero continuato ad animare la società prussiana, al punto che l'ebraismo si sarebbe ridotto a diventare una semplice religione, una religione di cui ci si poteva sbarazzare con la conversione. Marx sarebbe perciò dipendente dal mondo in cui esso si è sviluppato. In altre parole, il suo antisemitismo sarebbe stato a immagine di quello delle società in cui viveva, in Germania, ma anche in Francia, dove scrisse "Sulla questione ebraica". Il capitolo si conclude tracciando un parallelo con la situazione reale degli ebrei di Francia, dove vennero emancipati dal 1791. Come nel caso degli ebrei di Germania, anche gli ebrei di Francia vengono essenzializzati e ridotti a «un amalgama di falsità provocate dallo schema cristiano dello straniero, dell'esiliato, del viaggiatore improduttivo, maledetto essendo condannato al male, vale a dire, allo sfruttamento del sangue cristiano» (p. 106). Nella penna di Marx, «tutto ciò prende la forma di un gruppo omogeneo che è la borghesia, la quale, di conseguenza, egli la esclude di fatto dal proletariato» [*8] (p. 106). Alla fine di questa seconda parte, Misrahi riassume il ragionamento antisemita di Marx: «Il mito antisemita di Marx si basa essenzialmente su tre affermazioni: 1. L'ebraismo è essenzialmente una religione, ed è essenzialmente una religione del denaro. 2. Gli ebrei sono essenzialmente cosmopoliti e stranieri. 3. Essi formano una classe mercantile e non si costituiscono mai come proletariato, ma sempre come borghesia.» (pag. 108) . Di conseguenza, per poter salvare il marxismo, se bisogna cercare una spiegazione dell'antisemitismo di Marx, essa non va cercata nel marxismo, ma in delle cause esterne, nella società europea del XIX° secolo e nella storia personale di Marx.

La causa dell'antisemitismo di Marx, «è Marx stesso»
La terza e ultima parte consente a Misrahi di proseguire nella sua purificazione del marxismo, riducendo l'antisemitismo di Marx a «una tappa puramente negativa del suo pensiero », a una «crisi [...], a una breve rottura contraddittoria nei confronti dell'insieme della dottrina marxista, e del progetto generale di Marx» (p. 136). Il primo capitolo di questa parte del libro, descrive accuratamente il contesto storico nel quale l'antisemitismo - sebbene non permanente e non diffuso - rimane un elemento importante della società tedesca, dall'Aufklärung (l'Illuminismo tedesco) all'idealismo. In altre parole, a esser presa di mira, è gran parte della filosofia tedesca del XVIII° e del XIX° secolo (non tutta, poiché filosofi come Gotthold Lessing, amico di Moses Mendelssohn, o Christian Wilhelm Dohm o Johann Georg Hamann sono tutti filosemiti ed essi hanno avuto un ruolo di primo piano nell'emancipazione degli ebrei). Sebbene non sia inevitabile, l'antisemitismo è comunque presente tra i filosofi che la storiografia tradizionale eleva al rango di grandi pensatori; come Kant, Fichte o Hegel. Questa analisi, ha il merito di dimostrare che l'antisemitismo ha avuto il suo posto nelle università tedesche, e che la sua influenza è andata ben oltre il Reno,  in modo da poter così irrigare il pensiero di molti pensatori del socialismo francese del XIX° secolo, quali Alphonse Toussenel o Pierre-Joseph Proudhon. Quindi, gli eredi dell'Illuminismo erano immersi in una cultura antisemita, e Marx non faceva eccezione. Ragion per cui la metafisica tedesca non viene risparmiata, visto che, nella penna di Ernst-Moritz Arndt o di Julius Friedrich Stahl essa è soprattutto cristiana; il che significa l'esclusione di un Universale che possa integrare l'ebraismo. Di conseguenza, lo studio di Misrahi mostra il modo in cui l'«antisemitismo cristiano», tradizionalmente teologico, sta entrando nella filosofia. Inoltre, facendo del cristianesimo la religione germanica, questi autori possono spudoratamente, e senza alcuna vergogna, affermare che gli ebrei non sono in grado di integrarsi nella società cristiana tedesca, a causa del fatto che essi non riconoscono né Cristo né il cristianesimo, che sono entrambi alla base dello Stato (p. 170). Secondo Misrahi, Marx nuota sulla scia di questi autori (p. 174).
Neppure la Francia viene risparmiata. L'autore propone uno dei rari studi sull'antisemitismo, diffuso tra i socialisti Charles Fourier, Toussenel e Proudhon. Non si tratta di liquidare il socialismo e le politiche reazionarie di estrema destra, quanto piuttosto di evidenziare la pervasività dell'«antisemitismo cristiano» (p. 176) in seno al primo socialismo francese. Più precisamente, a partire da questi socialisti antisemiti, Misrahi cerca di dimostrare che si tratta di un «antisemitismo teologico» e che, «non più di quanto Marx sia antisemita perché egli è marxista (egli è antimarxista in "Sulla questione ebraica")», nemmeno Fourier è un antisemita, poiché egli è un socialista: «il suo antisemitismo ha delle basi culturali cristiane, e delle basi psicologiche patologiche.» (pag. 186). Pertanto, è comprensibile che se c'è un antisemitismo a sinistra, esso si fonda su un «cristianesimo arcaico» attualizzato secondo una logica economica (p. 186). Anche in Proudhon, l'antisemitismo ha un'origine cristiana, visto che riprende il mito dell'ebreo in quanto usuraio e predatore (p. 199). Una simile logica, consente soprattutto di poter nuovamente escludere gli ebrei dal proletariato, poiché essi non sono cristiani. (p. 190). Tuttavia, al fine di esonerare il socialismo francese da ogni antisemitismo intrinseco (questo punto verrà discusso più avanti), Misrahi presenta il pensiero di due socialisti cristiani non antisemiti: Constantin Pecqueur ed Étienne Cabet. Qui, Misrahi avanza una tesi singolarmente interessante, basandosi sui concetti di libero arbitrio e responsabilità: «bisogna concludere che l'antisemitismo (o il suo rifiuto) appare come il risultato di una scelta della quale il pensatore va ritenuto responsabile» (p. 204). In altre parole, l'antisemitismo non è né una fatalità né una determinazione dovuta al contesto storico-sociale: la sua presenza in un pensiero, per quanto possa essere elaborato, è comunque il risultato di una scelta, e gli unici responsabili ne sono i suoi autori. Ad esempio, l'utopismo socialista, in sé non ha nulla di antisemita poiché - malgrado le esplosioni di odio di Charles Fourier - Étienne Cabet è riuscito a sviluppare un pensiero, esso stesso utopico, in cui troviamo diverse pagine filosemite (p. 211). E l'autore conclude il suo capitolo ricordando che «l'emancipazione degli ebrei, lungi dall'essere - com'era per Marx - la soppressione degli ebrei, essa è piuttosto - con Cabet - l'emancipazione politica e sociale di tutta l'umanità e, insieme a essa, degli ebrei.» (p. 216). Se quindi, in ultima analisi, l'antisemitismo è il risultato di una scelta personale, allora a Misrahi non resta che analizzarlo per quello che è: una postura specifica del suo autore, influenzata ma non determinata dal contesto in cui si evolve. Ed ecco che così, nell'ultimo capitolo del libro, si tratta di dimostrare che l'origine dell'antisemitismo di Marx «è Marx stesso» (p. 219). Per fare questo, Misrahi studia due fonti proprie del filosofo: il rapporto con il padre e quello con Moses Hess, il primo comunista hegeliano ebreo. Innanzitutto, la relazione con il padre, con questo padre ebreo emancipato, convertitosi poi al luteranesimo: è da questa colpa che, nel suo testo del 1844, il giovane Marx vorrebbe epurarsi. In altre parole, il suo odio per l'ebreo non sarebbe «nient'altro che la giustificazione derivate dall'aver interiorizzato e assunto l'esempio dato dal suo modello - il padre di Marx - il quale, nel bel mezzo dei pogrom antisemiti, si convertì al protestantesimo.» (p. 228). Questa colpa sarebbe tanto più grande, proprio in quanto Marx aveva davanti a sé, nello specchio, la figura di Moses Hess, che allora incarnava invece la sintesi dell'essere comunista e dell'essere ebreo. Oltre a quanto detto sul padre, l'antisemitismo di Marx è pertanto una «giustificazione forzata dell'antigiudaismo, e della conversione del padre al protestantesimo [...], reso necessario agli occhi di Marx a causa della presenza attiva di Moses Hess, suo ispiratore e anti-modello.» (pag. 231). In "Sulla questione ebraica", sarebbe quindi a Hess, piuttosto che a Bauer, che Marx starebbe rispondendo. Perciò sarebbe  per purificarsi da questa duplice colpa - frutto della conversione del padre - che Marx ha dovuto vivere questa "crisi" antisemita. Infine, c'è un ultimo elemento che dev'essere aggiunto a questa sovradeterminazione causale: si deve tener conto di chi sono i lettori della rivista in cui il testo del 1844 è stato pubblicato. Secondo Misrahi, si trattava di un «pubblico socialista antisemita» che avrebbe dettato qual era il trattamento da riservare agli ebrei, un pubblico dal quale Marx cercò di farsi amare, per mezzo di quello che in seguito sarebbe stato chiamato "odio di sé".

L'ebraismo: dal popolo-classe all'impensato («Cosa ricordare, finita la lettura?»)
Misrahi invita i suoi lettori a confrontarsi con un problema importante, che affronterò qui: quale visione ha, la sinistra, degli ebrei? Quale posto assegna loro, nelle sue lotte sociali? L'antisemitismo è presente in maniera strutturale, o circostanziale? Tutte domande, queste, che a loro volta ne pongono un'altra: esiste un antisemitismo "DI" sinistra, o piuttosto si tratta di un antisemitismo"A" sinistra? Per mezzo dell'esempio di Marx – il quale va oltre il semplice status di esempio, tanto esso è illuminante e ammonitore – Misrahi mostra come, riducendo l'ebraismo a una religione associata in sé al denaro e al capitalismo, si possa andare a finire in degli eccessi antisemiti, come ci mostra la sua lettura di "Sulla questione ebraica". L'interesse tuttora attuale di quel testo consiste nel mettere in luce un aspetto del pensiero di sinistra che rimane l'espressione di qualcosa di impensato: il futuro degli ebrei in quanto minoranza, e il futuro del trattamento ambiguo dell'ebraismo. Infatti - secondo Marx, così come viene letto da Misrahi - l'emancipazione degli ebrei non può bastare a cancellare quelle che sono le particolarità proprie dell'ebraismo. In altre parole, la minoranza ebraica poteva essere integrata solo a condizione che l'ebraismo stesso fosse stato soppresso. Questo è ben lontano dalle richieste dei "maskilim" i quali, già con Moses Mendelssohn, chiedevano il diritto all'uguaglianza mescolato al diritto alla differenza. [*9] È quest'ultima cosa, ciò viene negato dal pensiero di Marx del 1844. A questa lettura - sul versante degli studi contemporanei sul testo di Marx - si potrebbe contrapporre quella di Daniel Bensaïd [*10], secondo il quale Marx invece cerca di introdurre nel dibattito la possibilità di un'emancipazione che vada oltre i diritti politici. Questa emancipazione includerebbe anche questioni religiose e sociali: il nostro autore vede perciò nell'ipotesi marxiana - quella del superamento dell'ebraismo visto come una "particolarità" - dei marcatori antisemiti (la riduzione al denaro e alla religione) che non possono più essere ignorati. A me sembra che Bensaïd rimanga dalla parte della negazione, nel senso che egli non affronta l'impensato. Un tale studio dimostra perciò come la critica di Misrahi rimanga attuale, poiché essa propone proprio questo impensato, proprio della sinistra, che si manifesta nell'adesione, anche involontaria, a un immaginario antiebraico, se non addirittura antisemita. Inoltre, laddove lo studio di Misrahi eccelle è nella trattazione delle contraddizioni di Marx, secondo cui l'«Ebreo» incarna una figura ambivalente: da un lato, è il prodotto di un'alienazione storica, quella dell'ebreo riguardo la religione, che arriva a nuocere alla sua assimilazione nelle società moderne; dall'altro, serve invece come il punto di partenza per una critica del capitalismo. Qui, Misrahi sottolinea quello che è un paradosso cruciale: nel tentativo di abolire ogni specificità, a favore dell'universalismo del proletariato, Marx riproduce una violenza, quantomeno simbolica, nei confronti delle minoranze che non gli sembrerebbero in grado di conformarsi a essa. Per Marx, se l'ebraismo ha resistito, è stato perché non può essere assimilato. Tuttavia, se non è assimilabile, allora deve pertanto essere abolito. Facendo eco all'analisi di Hannah Arendt sull'antisemitismo [*11], Misrahi si interroga sul ruolo dell'ebraismo in quanto specchio delle fratture europee. Ma contrariamente ad Arendt, egli non fa dell'ebreo un semplice capro espiatorio che sarebbe in parte responsabile delle persecuzioni che egli subisce: mostra il modo in cui Marx, malgrado sé stesso, inscriva l'identità ebraica al cuore di un dilemma politico e sociale, quello del trattamento della minoranza, vale a dire, considerandola, nella sua irriducibilità, insieme a tutto ciò che questo potrebbe implicare:  integrarla in quanto tale, o sopprimerla perché è tale.

Un contributo critico da emendare
Misrahi non si accontenta di interpretare Marx. In un'epoca in cui le identità frammentate sfidano ancora le promesse universaliste della sinistra, mette in discussione la rilevanza dell'analisi marxiana (ma non marxista [*12]) . Ma la sua analisi ha alcuni limiti. "L'antisemitismo di Marx dopo il 1844".  Appare, una prima trappola: Misrahi dà prova di una certa indulgenza nei confronti di Marx, nella misura in cui la sua interpretazione, pur mettendo in luce le intenzioni emancipatrici e pericolose del filosofo, riduce le sue formulazioni problematiche, persino antisemite, a un momento di crisi temporanea, e questo al fine di evitare al marxismo ogni sospetto di antisemitismo. Tuttavia, così facendo, Misrahi dimentica di ricordare come, su questo punto, Marx non abbia mai ritrattato. In nessun suo testo successivo Marx è mai tornato sulla sua trattazione della "questione ebraica", né al molteplice riemergere, nel suo pensiero, dell'antisemitismo cristiano. Ci si può pertanto porre delle domande riguardo la contingenza della spiegazione psicologica. Ciò solleva così anche un'altra questione: il fatto di non menzionare, nei testi successivi, "ebreo" o "ebraismo", è sufficiente a scagionare il suo autore e il suo pensiero da ogni e qualsiasi antisemitismo, allorché questo si è manifestato – secondo Misrahi – in un testo che, peraltro, viene consacrato all'affermazione della sua teoria dello Stato? Il materialismo storico, che è stato forgiato da quei giovani socialisti hegeliani, non soffrirebbe piuttosto di un silenzioso antisemitismo? Questo avrebbe pertanto potuto giustificare l'espressione «antisemitismo di sinistra», vale a dire, di un antisemitismo che sarebbe inerente a un certo pensiero di sinistra. Tuttavia, ciò non avviene e, mentre Misrahi respinge che nel pensiero di sinistra ci sia un antisemitismo strutturale, continua a mantenere la particella "di", suggerendo che comunque, nella teoria politica della sinistra ci sia qualcosa che è antisemita, almeno potenzialmente.

"Un antisemitismo specifico alla sinistra”?
In effetti, l'espressione «antisemitismo di sinistra», usata dall'autore, nel libro non trova alcuna giustificazione, dal momento che le sue cause rimangono eterogenee rispetto alla sinistra, vale a dire riguardano l'antisemitismo cristiano. Nello studio di Misrahi, non c'è nulla che suggerisca un antisemitismo specifico alla sinistra. Se esso corrisponde ai temi economici e anticapitalistici, come sottolinea anche Patrick Cabanel [*13], non va dimenticato che i pregiudizi veicolati da tale antisemitismo non sono una novità: essi attingono in gran parte all'immaginario cristiano antiebraico, attualizzato nel contesto della rivoluzione industriale; essi sono i pregiudizi promossi dai monarchici cattolici in quell'epoca. A ciò si aggiunga il fatto che ogni volta che Misrahi parla di «antisemitismo DI sinistra», a essere messe sul banco degli imputati sono delle persone (Marx, Toussenel, o nuovamente Proudhon) e non dei concetti forgiati dalla sinistra, come potrebbe essere invece nel caso del concetto di «popolo-classe», attraverso l'assimilazione dell'ebraismo alla borghesia, e che avrebbe,  nelle sue caratteristiche intrinseche, qualcosa di innegabilmente antisemita. Pertanto, non c'è niente che permetta che si possa fare di questo antisemitismo una caratteristica della sinistra.

Un antisemitismo, a sinistra
Quindi, al termine della lettura di questo libro, si viene piuttosto invitati a guardare verso un antisemitismo a sinistra: non basta essere di sinistra per essere immunizzati dall'odio per l'altro, e in particolare per l'ebreo. La presenza a sinistra, di un antisemitismo, è stata studiata soprattutto dallo storico Michel Dreyfus [*14]. Per quest'ultimo, si tratta di mettere sotto il riflettore il fatto che anche la sinistra, nonostante gli ideali che essa promuove, è permeabile, magari temporaneamente, al clima antisemita europeo. Alla fine, dopo tutto, è questo ciò che fa anche Misrahi, osando pensare ciò che era rimasto impensato, e che si può riassumere in questi termini: l'antisemitismo è apolitico e ha mille facce. Lo si può trovare tanto a destra (il che è ovvio, soprattutto dopo il 1945) quanto a sinistra. In tal modo, Michel Dreyfus mostra il processo di creazione e di diffusione dell'antisemitismo, che, sebbene sia nato a destra, e soprattutto all'estrema destra, può trovare i suoi portavoce anche a sinistra. Più precisamente, egli distingue tre diverse fasi: la prima, dal 1830 al 1881, durante la quale alcuni socialisti, come Marx, associano gli ebrei al capitalismo e alla borghesia. La seconda fase, iniziata negli anni '80 dell'Ottocento, si adatta poi all'ascesa dei nazionalismi, e vede una parte della sinistra adottare dei pregiudizi antisemiti basati su delle  teorie razziali. L'ultima fase, la terza, è stata quella segnata dalla svolta dell'affare Dreyfus: la società francese ed europea si trovava talmente divisa che tutti furono portati a prendere posizione a favore o contro Dreyfus. Fu a quel punto che la sinistra decise di rifiutare apertamente l'antisemitismo. Ed è qui che la sinistra innova, esprimendo ciò che fa parte della sua essenza, allorché dimostra che la sua concezione dell'universale non esclude ma, al contrario, fa propria la causa del caso particolare di Alfred Dreyfus a nome dell'umanesimo.

E al giorno d'oggi?
In tal modo, l'opera di Michel Dreyfus arricchisce la critica di Misrahi a Marx, fornendo un contesto storico dettagliato delle manifestazioni e delle espressioni dell'antisemitismo nel contesto della sinistra francese. Getta luce sulle contraddizioni contingenti tra gli ideali di sinistra e i pregiudizi antisemiti che possono averli contaminati, offrendo una prospettiva storica essenziale al fine di comprendere le sfide contemporanee legate all'antisemitismo nei movimenti di sinistra. Inoltre, come filosofo, Misrahi ci aiuta a percepire l'antisemitismo di una parte della sinistra come qualcosa di impensato. Quella stessa sinistra che, oggi, maschera il proprio antisemitismo dietro una prospettiva antisionista di tipo de-coloniale, e che spesso ha taciuto sulla questione della lotta contro l'antisemitismo [*15], seppellendola sotto la questione della «strumentalizzazione dell'antisemitismo». Dal 7 ottobre, il suo silenzio è diventato assordante.  Alla fine della mia lettura di Misrahi, tuttavia le domande rimangono senza risposta, mostrando così il suo bisogno di un'attualizzazione filosofica: come spiegare oggi questo silenzio di una parte della sinistra radicale sulla lotta contro l'antisemitismo, della quale, da diversi anni, se ne fa carico la destra, se non  addirittura – non senza crudele ironia – l'estrema destra? L'antisemitismo, travestito da antisionismo, continua ancora a essere solo una contingenza, allo stesso modo in cui lo era l'antisemitismo di Toussenel o di Marx? A tal proposito, la questione che ci si apre davanti è quella di sapere quali fattori esplicativi, è probabile che riceva una simile espressione di antisemitismo a sinistra. Questa messa in discussione, permetterebbe senza dubbio di determinare meglio le relazioni che devono essere stabilite tra la prospettiva de-coloniale e l'antisemitismo; sia nel senso di una correlazione che chiuda la strada a una simile prospettiva, sia, al contrario, nel senso di una de-correlazione che la renda così udibile.

- di Rivka DLB - Pubbilcato nel marzo 2025 su https://www.dai-la-revue.fr/ -

NOTE:

   1 - Theodor W. Adorno, Minima moralia. Riflessioni sulla vita mutilata.

   2 - Robert Misrahi, Marx et la question juive, Paris, Gallimard, 1972.   

  3 - "Zur Judenfrage", in tedesco. Testo scritto nel 1843 e pubblicato nel 1844 nella rivista Deutsch-Französische Jahrbücher. Il testo di Bruno Bauer si intitolava Die Judenfrage (La questione ebraica), pubblicato nel 1843.

  4 - Il concetto di "Classe-Popolo" venne sviluppato da Otto Bauer, e poi da Abraham Léon. Quest'ultimo spiega, con l'aiuto di questo concetto, come, da un punto di vista materialistico e storico, l'ebraismo si sia mantenuto nonostante la dispersione e la persecuzione. Cfr.: "La concezione materialistica della questione ebraica", 1940-1944. Alla questione ebraica, Abraham Léon dà la seguente risposta: porre fine alla classe-popolo per mezzo del socialismo che «deve dare agli ebrei - così come vuole per tutti i popoli - la possibilità di assimilarsi, e la possibilità di avere una particolare vita nazionale particolare. […] Il socialismo, per quel che riguarda la sfera nazionale, può portare solo la più ampia democrazia. Esso deve dare agli ebrei, in tutti i paesi in cui vivono, l'opportunità di vivere una vita nazionale; deve anche fornire loro la possibilità di concentrarsi su uno o più territori, senza però naturalmente danneggiare gli interessi degli indigeni. Solo la più ampia democrazia proletaria può rendere possibile la soluzione del problema ebraico con il minimo di sofferenza.»

5 - Misrahi usa l'espressione antisemitismo cristiano, anziché antigiudaismo cristiano. Per coerenza con le citazioni del suo libro, si userà la prima espressione, anche se la seconda dovesse essere appropriata.

  6 - Queste rivolte furono pogrom che ebbero luogo contro gli ebrei tedeschi, a partire dal 2 agosto 1819 a Würzburg. Si diffusero fino alla Danimarca, alla Polonia, alla Lettonia e al Regno di Boemia. Il significato dell'espressione "hep hep" rimane aperto al dibattito: è stato visto come il grido di battaglia dei crociati quando attaccarono gli ebrei, ed è derivato dall'espressione "Hierosolyma est perdita" ("Gerusalemme è perduta"); oppure dalla contrazione di "Hebräer". I fratelli Grimm, nel loro dizionario della lingua tedesca (iniziato nel 1838), spiegano che questo sarebbe un modo di chiamare le capre che veniva applicato agli ebrei a causa delle loro barbe.

  7 - Fortemente influenzata dall'Illuminismo (francese e tedesco), l'Haskalah (letteralmente saggezza, erudizione o educazione) corrisponde all'Illuminismo ebraico tedesco. I suoi membri sono chiamati "maskilim" (singolare maskil, che significa studioso o uomo illuminato). La loro lotta era principalmente finalizzata a riformare l'educazione tradizionale degli ebrei e la parità di diritti. Moses Mendelssohn è considerato uno dei fondatori di questo movimento, insieme a Hartwig Wessely e David Friedländler.

  8 - Questa esclusione degli ebrei dal proletariato venne in parte ripresa da Abraham Léon, il quale sviluppò anche un pensiero antisionista – e non antisemita – nel contesto di un dibattito che opponeva l'internazionalismo e il sionismo.

  9 - Su richiesta di Moses Mendelssohn, Christian Wilhelm von Dohm scrisse "Über die bürgerliche Verbesserung der Juden" (Sulla riforma politica degli ebrei), pubblicato nel 1791. Si trattava di una difesa degli ebrei dell'Alsazia, e costituiva un appello all'emancipazione di tutti gli ebrei. Il saggio fu ben accolto da molti filosofi dell'Illuminismo su entrambe le sponde del Reno.

  10 - Daniel Bensaïd, "Sur la question juive", Paris, La Fabrique, 2006.

  11 - Hannah Arendt, "Sur l'antisémitisme", Paris, Calmann-Lévy, (Nuova edizione), 2005.

  12 - L'aggettivo "marxiano" descrive tutto ciò che è specifico di Marx, mentre "marxista" si riferisce al marxismo, una corrente di pensiero che nasce da Marx, ma non è identica a lui.

  13 - Nota di Patrick Cabanel nell'enciclopedia "L'histoire juive de France", a cura di Sylvie-Anne Goldberg, pubblicata da Albin Michel nel 2023. In questa nota, egli difende l'espressione di un "antisemitismo di sinistra", riprendendo più o meno le argomentazioni di Misrahi.

  14 - Michel Dreyfus, "L'antisémitisme à gauche. Histoire d'un paradoxe, de 1830 à nos jours", Paris, La Découverte, rééd. 2011.

  15 - La questione del silenzio intorno all'antisemitismo a sinistra, è stata oggetto di un articolo sulla rivista Vacarme, con il titolo « Le non-sujet de l’antisémitisme à gauche ». Inoltre, in "Peuple juif ou problème juif ?" (Paris, Maspero, 1981), Maxime Rodinson nostra come il conflitto in medio oriente abbia  a favorito l'emergere nel mondo arabo di una giudeo-fobia in coloro che sostengono la causa palestinese.

mercoledì 23 luglio 2025

Vivere la Forza: i Due Cuori di Simone Weil !!!

"Simone Weil non avrebbe mai rinnegato pubblicamente gli anarchici"
- Roger Costa Puyal intervista Xavier Artigas-

Ultimamente, la celebre filosofa francese Simone Weil (1909-1943) è stata strumentalizzata al fine di screditare l'anarchismo, a partire da una sua lettera inviata a un falangista dissidente e in base al diario personale che scrisse durante la sua partecipazione al gruppo internazionale della Colonna Durruti. Nel libro "Viure la força. Simone Weil e la Colonna Durruti" (casa editrice Descontrol, 2025), il sociologo e documentarista barcellonese Xavier Artigas analizza a fondo i due testi e smonta questa tesi. Il libro include un prologo scritto dalla ginecologa Myrtille Gonzalbo, e un epilogo, del filosofo Amador Fernández-Savater. Attualmente, si sta girando un film che usa il libro come materiale di partenza.

Simone Weil è una vittima della storiografia?
Originariamente, scoperta attraverso i suoi testi mistici, viene pertanto collocata come se fosse una pensatrice mistica. Ma poi, e per tutti gli anni Cinquanta, Albert Camus si dedica al recupero e alla pubblicazione dei suoi scritti politici, avvertendo che in realtà si tratta di una grande pensatrice politica. In tutta la sua storia, c'è questa dicotomia: era una donna conservatrice, spirituale, religiosa, ma era anche una politica. Avrebbe avuto questi due battiti cardiaci. A seconda del momento, viene fuori o l'uno o l'altro. Penso che oggi ci troviamo in un periodo nel quale la Simone Weil più politica stia cominciando a riprendersi. Il mio lavoro vuole un po' contribuire alla conoscenza dei fatti relativi alla guerra civile spagnola, che poi è quella su cui si è lavorato di meno; e serva a spiegare che lei era andata lì in quanto anarchica convinta. Non era una filosofa sprovveduta andata lì a caso, che non sapeva in cosa si stesse cacciando; era una militante, sapeva a cosa andava incontro, e conosceva molta gente a Barcellona. Andò lì per sostenere il movimento anarchico e si arruolò convintamente nella Colonna Durruti. Sapeva che stavano bruciando chiese, inseguendo preti, uccidendo persone di destra; e tutto questo non le ha impedito di andare in prima linea e prendere il fucile.

La lettera allo scrittore Georges Bernanos, è il punto di partenza di questa strumentalizzazione?
La famosa lettera a Bernanos, la scrive dopo due anni dal suo arrivo qui, ma ci sono molti modi di interpretare questa lettera. All'inizio era come se fosse una sorta di via di mezzo tra lei e Bernanos; non è un testo pubblico, e neppure un manifesto. Sta scrivendo in privato, come se fosse, a uno zio che era anche un falangista, un pensatore monarchico francese, un sostenitore di Charles Maurras, il quale, all'improvviso, esce allo scoperto e dice che quelli dalla sua parte sono tutti assetati di sangue, e li rinnega completamente. Simone Weil è molto scioccata da questo, ritiene assai onorevole che una persona del genere sia in grado di rivedere le proprie idee. E, per poter avvicinarsi a Bernanos, anche lei fa lo stesso, e gli dice che prima era a favore degli anarchici, ma che ora ritiene che gli anarchici abbiano sbagliato, perché anche loro hanno commesso delle atrocità. È come un modo che lei ha per potersi avvicinare al personaggio, ed essere così in grado di trovare un terreno comune. Ma si tratta di qualcosa che fa in privato, non va in giro per il mondo a dire che gli anarchici commettono atrocità. Quello che avviene,  è che la storiografia recupera la lettera e finisce per rafforzare la tesi secondo cui Weil, come pensatrice, sia un conservatore, una sorta di eminente mistica, una religiosa che ha completamente rinnegato gli anarchici. Nel libro, quello che faccio è confermare che lei non ha rinnegato nessuno, e che era convinta della parte con cui avrebbe combattuto e – per di più – quando è tornata in Francia ha continuato a sostenerla pubblicamente. Anche mentre scriveva privatamente a Bernanos, difendeva pubblicamente gli anarchici. Tutta questa tesi sulla filosofa innocente che viene qui, e che non sa dove va a finire è una bugia. Bisogna che la sfera politica venga differenziata da quella filosofica e che lei, per entrare in contatto con questo pensatore, si permetta di banalizzare quelli che erano stati i suoi compagni di trincea, ma poi ha continuato a stare in contatto con questo gruppo, e li ha sostenuti. Penso che sarebbe rimasta scioccata se avesse saputo che la lettera era stata resa pubblica. A volte in privato diciamo cose che non ci interessa che emergano pubblicamente. Penso che Simone Weil non avrebbe mai rinnegato pubblicamente gli anarchici, e pertanto, nel libro, cerco di smontare questo mito.

C'è del maschilismo in questa strumentalizzazione?
Sì, il fatto che sia una donna rende più facile fare finta che si trattasse di una persona che non capiva molto bene in cosa si stava cacciando. Ma lei, invece, aveva una conoscenza molto chiara della politica catalana, a casa le arrivavano giornali catalani di sinistra, aveva contatti con figure importanti dei movimenti sociali della Catalogna, era amica di Joaquim Maurín e di Jaume Miravitlles, e aveva già vissuto a Barcellona, partecipando al movimento anarchico. Quando arriva, nel 1936, sa perfettamente cosa sta succedendo intorno a lei, sa cosa sta succedendo in tutta la Repubblica, chi sono gli attori chiave, quali sono i movimenti sociali e i partiti politici, non è affatto ignara. Ma è altrettanto vero che, essendo una donna, questa innocenza e ingenuità vengono in lei presupposti.

Perché Simone Weil venne a Barcellona nel 1936?
Una delle tesi, che io difendo nel libro, e che non è quella accettata storicamente, è che lei non viene qui per combattere il fascismo, bensì per osservare e sperimentare in prima persona l'attuazione del comunismo libertario. Lei, nel suo diario e in altri suoi testi e lettere, mostra parecchio interesse per questo progetto politico che la affascina, ed è molto curiosa di vedere come viene messo in pratica. Il suo diario, più che un diario di guerra, sembra un diario di rivoluzione. Commenta, dicendo cose come: «il denaro non è ancora stato abolito», oppure: «mi è stato detto che il comunismo libertario, in uno o due mesi verrà messo in pratica». Non sta facendo una cronaca di guerra, a parlare della guerra, non inizierà a parlare fino a un futuro inoltrato. Quando arriva, quello che le interessa è la socializzazione delle fabbriche, il lavoro comune nelle campagne, o se il comunismo libertario sia stato formalmente dichiarato, o meno. Tutti questi sono degli indizi che lei sta dando, ma che sono stati totalmente ignorati. A partire da queste e altre fonti, concludo che uno dei motivi principali che l'ha portata a prendere questa decisione, consapevolmente o inconsciamente, è stato il progetto rivoluzionario. La questione della guerra è arrivata dopo. Una volta lì, si è resa conto che la rivoluzione non poteva durare se non fosse stato fermato il fascismo, e pertanto si avvicinò al fronte, fino a che non decise di prendere le armi e difendere la rivoluzione.

Passa perciò da osservatrice a miliziana?
Sì, e questo spiega anche tutti i dilemmi morali in cui è incorsa durante questo processo. Era una pacifista, nel senso che era un'antimilitarista. Ha sostenuto che ci sono dei contesti nei quali può essere legittimo l'uso della violenza, e a volte aveva anche detto che forse il fascismo andrebbe fermato militarmente. Ma era antimilitarista. E questo è il suo dilemma morale, si trova in mezzo a una rivoluzione che vale la pena tentare, ma è minacciata dal fascismo, e così arriva alla conclusione che bisogna difendersi con le armi, e prende una pistola. Ma a un certo punto, arriva anche a pensare che prendere un'arma ci fa entrare in un processo inconscio, interno alle dinamiche della guerra, che ci fa diventare quel nemico che vogliamo combattere. Chi dà inizio alla guerra? Lo fa il fascismo, sempre, ma quando entriamo sul terreno della guerra, che è il terreno del fascismo, corriamo il rischio di diventare fascisti noi stessi. Quando l'economia non vigila più sul benessere del popolo ma funziona per scopi bellici, quando dobbiamo reprimere le libertà della popolazione perché bisogna vincere la guerra, e dobbiamo anche scoprire chi sono i nostri nemici, per eliminarli, ecco che vediamo che tutti questi processi mentali non sono altro che quelli del fascismo, e quindi entrare nelle dinamiche della guerra ci trasforma in fascisti. È questo il grande apprendimento che lei in seguito attua. Non lo fa mentre è qui. Perché, mentre è qui, ritiene che la rivoluzione debba essere difesa.

Cosa si dice del diario di viaggio di Weil?
Una delle cose importanti del libro è che esso mostra gli originali del "Diari d’Espanya", dal momento che alcune tesi sostengono che Simone Weil avesse strappato alcune pagine del diario, e questo spinge a pensare che forse era perché voleva autocensurare alcuni capitoli sulla brutalità degli anarchici, o perché doveva passare dei controlli e non voleva che gli anarchici vedessero che li stava criticando. Ciò è rafforzato dal fatto che, in effetti, le diverse trascrizioni del diario mostrano come il contenuto sia molto intermittente e che ci sono molte parti incompiute, e anche dei salti temporali. Il che ci ha portato a dire che il vero contenuto importante è proprio in quelle pagine che sono state strappate. Quando ho avuto il diario originale ho visto che la maggior parte delle cose che sono incompiute, lo sono perché lei le ha lasciate incompiute, non perché sono state strappate. Ho le mie teorie sul perché lo siano, incompiute. Ci sono solo due pagine che sono state strappate, alla fine del quaderno, e dopo 22 pagine bianche. Quando hai un taccuino, e sei in viaggio, e strappi le pagine dalla fine, di solito è perché stai dando qualcosa di scritto a qualcuno, o perché li stai usando per qualche motivo. La tesi sulle pagine strappate, nel suo complesso, non ha senso. Il diario non è completo, perché sei in guerra e quindi scrivi quando puoi e come puoi, e pensi «questo riuscirò a finirlo».

Cos'altro hai trovato?
C'è un'altra cosa interessante nella riproduzione del diario originale, cose che non vengono prese in considerazione nella trascrizione, come un ex libris che dice dove è stato fatto il taccuino, vale a dire, a Saragozza. Il diario inizia a Portbou, nel momento in cui lei entra in Spagna.E ci arrivi con un taccuino prodotto a Saragozza? La parte dell'ingresso a Portbou è vuota, e lo sono anche gli ingressi a Barcellona, a Lleida,  e anche "Columna Durruti" è vuota. Il diario comincia quando si trova a Pina d'Ebre. La mia tesi è che lei abbia comprato il taccuino a Pina d'Ebre, ed è per questo che è stato fabbricato a Saragozza, che dista 30 chilometri; la cosa ha molto più senso. Penso che sia molto probabile che avesse un diario di Parigi e che l'abbia perso, e quando è arrivata a Pina ha comprato un quaderno, e ha lasciato le pagine bianche per poi riempirle di nuovo in seguito. Questa tesi è rafforzata da una notizia del quotidiano El Diluvio, dove si dice che Weil aveva perso i documenti che le permettevano di lavorare come giornalista in territorio repubblicano. Ha perso i lasciapassare mentre era a Barcellona. Penso che abbia perso il suo taccuino allo stesso modo, o che sia stato rubato. Questo spiega lo strano formato di questo diario; perché mancano così tante informazioni. Da Barcellona lascia cinque pagine bianche. Penso che queste pagine mancanti dovessero essere piene delle sue impressioni sulle diverse industrie collettivizzate di Barcellona; che è ciò che lo interessava. Era molto affascinata dal lavoro industriale e, quando arrivò a Barcellona, ovviamente la prima cosa che la interessò fu come funzionasse il lavoro industriale sotto un regime rivoluzionario; in che modo avesse cambiato le cose. Quello che sto cercando di sostenere è che, se è vero che lei ha visto la brutalità anarchica a Barcellona, e ne è rimasta inorridita, non è chiaro perché allora sia andata al fronte e abbia chiesto a Durruti un'arma per difendere la rivoluzione. Non ha alcun senso. Quello che ha vissuto a Barcellona, per lei deve essere stato bello, poiché altrimenti non si va a Pina d'Ebre e si chiede di far parte del gruppo internazionale per poter andare ad ammazzare i fascisti.

E l'episodio della vendetta a Sitges dopo la fallita spedizione a Maiorca?
Quello che sostengo nel libro è che gli anarchici non c'entravano nulla, si trattava principalmente di militanti del POUM, e sembra che fossero quelli dello Stato catalano. È un problema che l'ha colpita mentre era in ospedale, ma non direi nemmeno che sia stato un punto di svolta, visto che poi ha continuato a sostenere il movimento anarchico. Lei è consapevole che già durante la guerra si sta costruendo questa storia sulla brutalità degli anarchici. È molto triste che, quando lei stessa si era sforzata di contrastare questa storia, la sua lettera personale a Bernanos serva invece a rafforzarla. Ed è anche vero che nella lettera compie una generalizzazione assai goffa sul movimento anarchico, e sottintende che alcune di queste atrocità commesse abbiano a che fare con il movimento anarchico. Ma in seguito, storici come quelli del gruppo "Els Gimenòlegs" hanno dimostrato come nemmeno gli esempi forniti da Weil possano essere attribuiti al movimento anarchico, e uno di questi esempi è proprio quello di Sitges.

Ed è dopo che sviluppa il concetto filosofico di forza?
È assai importante, dire molto chiaramente e a piena voce che questo concetto di forza poteva finire per diventare - e finisce per esserlo - uno dei concetti più centrali della sua filosofia, proprio a partire dal momento che è lei a sperimenta in prima persona questa forza, mentre partecipa alla guerra civile. Perché la colpisce così tanto la storia di un giovane falangista di 15 anni che viene giustiziato dagli anarchici? Perché questo giovane è stato catturato dai suoi compagni di trincea, da cui si è separato solo un giorno prima, a causa di un incidente che l'ha costretta ad andare via dal fronte. La mia tesi, è che lei si renda conto del fatto che se questo incidente non l'avesse portata via dal fronte, avrebbe potuto essere stata lei a uccidere quel giovane falangista. È questo che la porterà a riflettere molto sul concetto di forza, e capirà che avrebbe potuto essere lei stessa a esercitare questa forza contro un nemico che doveva essere eliminato, e di qui a rendersi conto che questo nemico era solo un quindicenne fanatico il quale non capiva in cosa si stesse allora cacciando. Ma è altrettanto certa che - una volta in un contesto di guerra segnato dall'imperativo di eliminare il nemico - non avrebbe fatto altro che obbedire a tale imperativo. Io penso che una simile consapevolezza sia tanto forte da portarla a sviluppare il concetto di forza, fino a dei livelli filosofici molto interessanti. Il che non significa che poi,  in seguito, politicamente, non rinunci al movimento anarchico. Ed è anche curioso che, una volta che ne è certa e che vuole scrivere di questo argomento, lei non parli però di guerra civile, e questo non è banale. Per illustrare questo concetto filosofico confermatosi nella guerra civile, Simone Weil parla dell'Iliade, passa a quello che è stato il più importante conflitto umano primario che conosciamo, la guerra di Troia. E questo è importante, perché lei sapeva che se invece ne avesse parlato inserendolo nella guerra civile spagnola, allora ci sarebbe stato il pericolo che la gente potesse dire che anarchici e fascisti erano sullo stesso piano. Credo che Weil non volesse che si dicesse; voleva separare la conclusione a cui era giunta in campo filosofico da ciò che difendeva in campo politico, e pertanto non voleva che fascismo e anarchismo venissero equiparati. Dirlo sarebbe stata un'aberrazione.

Malgrado le conclusioni filosofiche, ha continuato a combattere politicamente?
Alla fine della sua vita, sarà ossessionata dall'idea di partecipare alla Resistenza contro i nazisti. Si impegnerà politicamente contro il fascismo, fino all'ultimo momento. Morì all'età di 34 anni, malata di tubercolosi, delusa. Per lei, arriva un momento in cui crede che Hitler debba essere fermato e, pertanto, è legittimo condurre una guerra antifascista contro i nazisti. In un certo qual modo, diventa una militarista proprio perché ha continuato a essere antimilitarista per tutto il conflitto spagnolo; così, dice in guerra ci devono essere dei volontari, e che le persone devono andare perché sono davvero queste le idee che lei difende, non perché si costringe a farlo. Per questo, alla fine della sua vita, con la guerra contro Hitler,riesamina tutte le sue idee, perché arriva a dire che, in caso contrario, Hitler avrebbe fatto come l'Impero Romano, e avrebbe distrutto tutte le singolarità culturali del Mediterraneo. È antifascista fino all'ultimo momento, e crede che in questo debba metterci il proprio corpo, pensa che non si debbano mai separare gli ambiti del pensiero e del lavoro manuale. E questa è una costante in tutta la sua vita.

Quali sono i suoi contributi filosofici?
In questo paese, ci sono persone che da molti anni pensano e scrivono di Simone Weil, e potrebbero dire molto meglio di me quali sono i suoi grandi contributi filosofici e politici; i quali sono molteplici e assai diversi tra loro. Certo, c'è sì una Simone Weil mistica, ma c'è anche una Simone Weil politica molto potente che va rivendicata. E io cerco di dare valore alla politica. Prima di cominciare a esplorare il terreno mistico, lei aveva già scritto delle cose abbastanza rilevanti da essere considerata una delle più importanti filosofe del XX secolo. C'è un suo trattato politico ed economico che mira a confutare il marxismo sotto molti aspetti, che propone una teoria emancipatrice al di là del marxismo; cosa che ai suoi tempi costituiva una novità. Era il 1934, e lei fa una feroce critica all'URSS, da posizioni di sinistra radicale, di ispirazione libertaria, non esplicitamente anarchica. Al momento, è molto amica di Boris Souvarine, che è un antistalinista ma che è anche un anti-trotzkista. Si tratta di una visione molto interessante e innovativa, critica nei confronti del marxismo. Poi è vero che a livello filosofico esplora dei terreni mistici che sono anch'essi interessanti. Ma è da molto tempo che viene evidenziata la parte mistica, adesso è importante salvare quest'altro aspetto.

Come reagì l'anarchismo alla strumentalizzazione di Weil?
Nel momento in cui la lettera a Bernanos venne pubblicata su una rivista anarchica, fu uno shock, soprattutto per i suoi compagni di trincea, in particolar modo per Luis Mercier-Vega. Questo ha significato che, da parte dello stesso movimento anarchico, c'è stato un rifiuto della figura di Simone Weil; si dice che «lei non è una di noi, è una traditrice perché ci ha criticato». La reazione di Mercier e di molti anarchici, è del tutto legittima e logica, ma penso anche che debba essere messa in prospettiva, e non debba farci dimenticare che Simone Weil continua ancora a essere molto recuperabile dall'anarchismo. È un peccato sottovalutare tutto ciò che ha scritto a favore dell'anarchismo, solo perché è stata pubblicata la lettera a Bernanos. Simone Weil, certo non direbbe di essere una pensatrice anarchica, anche perché era molto infastidita dal fatto che potesse essere incasellata in qualsiasi ideologia, o movimento politico, ma penso che abbia delle posizioni libertarie ben chiare, e che si debba continuare a recuperarle, per alimentare il nostro pensiero libertario. Nel libro, cerco anche di recuperare un po' di genealogia riguardo a come sia passata dal sindacalismo all'anarchismo in maniera abbastanza consapevole.

E ora ne farai un film, il tuo primo film di fiction?
La pubblicazione del libro non era programmata. Negli ultimi quindici anni mi sono dedicato ai documentari, e ora mi sto impegnando su un registro di fiction. Essendo abituato a fare documentari - e pertanto quando faccio un'opera mi documento - in qualche modo sento che tutte queste informazioni, le quali poi pertanto non si rifletteranno nell'opera finale, mi fanno male. Il film di fiction prende la realtà e la incapsula in un prodotto che dev'essere molto facile da consumare, ma il film è separato dal documento. Il film sarà in grado di aiutarci a capire la realtà grazie a una certa semplificazione, ma poiché vengo da dove vengo, ho bisogno anche di questa realtà [sottolinea: il libro]. La sceneggiatura è stata scritta sulla base di questo, ma viene fatta semplificando. In questo momento siamo nella fase di sviluppo, e spero di poter essere nella fase di produzione all'inizio del prossimo anno. Poi penso che tutto andrà molto più veloce. Con un po' di fortuna, tra un paio d'anni riusciremo a vedere il film sullo schermo.

- Intervista di Roger Costa Puyal a Xavier Artigas - Pubblicata il 20/3/2025 su https://directa.cat/ -

martedì 22 luglio 2025

Un “grottesco fraintendimento” ??!!???

Heidegger senza Heidegger
- Hannah Arendt viene considerata come l'autorità morale della sinistra, e Martin Heidegger un simpatizzante nazista compromesso. Insieme, condividono quello che può essere definito come un "aristocratismo radicale". Chi non vuole ammettere questa scomoda relazione, sostituisce l'analisi critica con l'adorazione cieca. -
  di Emmanuel Faye

L'opera di Hannah Arendt, è interessante per l'importanza che essa attribuisce a quello che oggi appare come uno dei problemi più importanti del nostro tempo: quello dei rifugiati. Il modo in cui riesce a mettere la sua formazione letteraria al servizio delle sue descrizioni storiche, conferisce a quest'ultime una certa forza suggestiva. Ed è la vivacità della sua mente a rendere così stimolante la lettura di una tale corrispondenza. Il suo lavoro appare caratterizzato da una notevole contraddizione: sebbene abbia colto il nazionalsocialismo in quanto fenomeno totalitario, ha anche difeso il suo ex maestro e amante Martin Heidegger malgrado la sua fondamentale approvazione del nazionalsocialismo. Nel 1953, Heidegger aveva pubblicato - senza commentare - le parole della «verità interiore e della grandezza» del movimento nazionalsocialista, e nei "Quaderni neri", pubblicati nel 1939 - vale a dire dopo i pogrom della cosiddetta Kristallnacht del novembre 1938 -  esprimeva la sua «essenziale affermazione» del movimento nazionalsocialista. Come si spiega questa contraddizione? Nel mio libro, "Arendt et Heidegger. Extermination nazie et destruction de la pensée", ho cercato di rispondere a questa domanda. Una sua recensione, pubblicata sulla Süddeutsche Zeitung dal biografo ed editore di Arendt, Thomas Meyer, mi è sembrata insolitamente feroce. Ha descritto il mio lavoro come un «grottesco fraintendimento». Lo stesso Meyer però non entra affatto nell'oggetto centrale della mia indagine, vale a dire, il rapporto intellettuale tra Arendt e Heidegger. Ma a causa della sua importanza per la storia delle idee nel XX secolo, tuttavia, questa domanda merita una discussione il più obiettiva possibile.

Sulla scia di Martin Heidegger
Cosa ha detto la stessa Arendt a proposito di questa relazione? Nel 1960, scrisse a Heidegger per dirgli che il proprio libro "Vita activa" gli doveva «praticamente tutto, sotto ogni aspetto». L'antropologia sviluppata in quel testo, si basa su una distinzione priva di qualsiasi fondamento filologico, ovvero, quella tra zôê e bios  (gli antichi termini greci per "vita"). Tale distinzione, risale alla conferenza che Heidegger tenne a Marburgo nel semestre invernale del 1924-25, sui Sofisti di Platone, alla quale partecipò Arendt, la quale all'epoca aveva appena 18 anni. La contrapposizione -, fatta da Arendt tra zôê, da un lato, cioè la vita puramente animale condotta da delle persone che si preoccupano esclusivamente del loro sostentamento, e bios dall'altro, il quale si riferisce invece alla vita umana nel senso proprio che si realizza nell'azione - è heideggeriana e viene "adottata" da Arendt. Nel "Festschrift", pubblicato nel 1969 dalla Klostermann Verlag in occasione dell'80° compleanno del pensatore di Friburgo, Arendt scrive: «Mi sembra che la vita e l'opera [di Heidegger] ci abbiano insegnato che cos'è il PENSARE». In tal modo, si congeda dalle sue chiare riserve, espresse nel 1946 nei confronti del suo impegno nazionalsocialista. Nella sua opera pubblicata postuma, "La vita della mente", nel 1978, rimasta incompiuta, sottolinea: «Mi sono chiaramente unita a coloro [intendendo Heidegger] che da tempo cercano di smantellare la metafisica e la filosofia e tutte le sue categorie [...]». In questo libro, riprende il motivo della fine della filosofia di Heidegger, che appare nei "Quaderni neri", in una nota del 1934 e ricorre poi, nel 1947, nella sua lettera sull'umanesimo. Le connessioni sono concise. «La domanda è cosa pensa la stessa Arendt di questo aristocratismo radicale, che disumanizza una parte dell'umanità che lei chiama animal laborans».
Ma che cosa intendono Arendt e Heidegger per "pensare", e che cosa significa e che cosa implica la loro impresa di "smantellamento": Heidegger parla di "distruzione", Arendt di "smantellamento"? In particolare, esamino il contrasto di Arendt tra Heidegger, da un lato, che lei stilizza come paradigma del "pensiero", ed Eichmann (uno dei principali responsabili della "Soluzione finale"), dall'altro, al quale attribuisce la "sconsideratezza". Questa contraddizione contribuisce indirettamente a esonerare Heidegger dal suo impegno nazionalsocialista. Tuttavia, Meyer non menziona questa analisi, sebbene essa sia centrale nel mio lavoro.

Una politica aristocratica
Meyer, invece, nella sua critica si concentra su quattro aspetti. Da un lato, mi accusa di fare confusione tra un frammento di Eraclito e il pensiero di Arendt. Scrive Arendt in "Vita activa": «La distinzione tra l'uomo e l'animale si manifesta nella stessa specie umana: soltanto i migliori ("aristoi"), che costantemente provino di essere i migliori ("aristeuein", un verbo che non ha un valido equivalente in nessun'altra lingua) e che "preferiscano una fama immortale alle cose mortali", sono realmente umani;». Le virgolette indicano che Arendt lì sta usando una citazione. Se non faccio notare che la citazione proviene da un frammento di Eraclito, ciò è perché tutto il mio libro è un commento analitico alle opere di Arendt, nel quale cito tutte le prove che consentono ai lettori di fare riferimento al testo originale. In questo contesto, va notato che Hannah Arendt non parla semplicemente come una storica, ma spesso si affida all'autorità dell'antichità per legittimare le proprie tesi. Si parla di un'antichità ricostruita, da una Grecia repubblicana ai giorni nostri, ma non senza la già citata distinzione tra "vita animale" e "vita politica (bios politikos)". Ciò vale anche per il passo appena citato, in cui si riferisce a Eraclito quando scrive che «la distinzione tra uomo e animale [...] passa attraverso la stessa specie umana». Ciò solleva la questione di come la Arendt stessa si ponga riguardo a questo aristocratismo radicale, il quale alla fine disumanizza una parte dell'umanità, e che lei chiama animal laborans. Naturalmente, questi passaggi possono essere visti come un atto d'accusa contro la società lavorativa e la sua "alienazione". Ma poi, però,  bisogna anche ammettere che questa accusa rimane assai a doppio taglio. E ciò dal momento che Hannah Arendt rifiuta il concetto marxista di alienazione, e lo sostituisce con il concetto di "alienazione dal mondo", in altre parole, un termine legato ai "senzatetto" di Heidegger.
«Arendt è dell'opinione che non solo lo schiavo e il barbaro nell'antichità, ma anche l'operaio e l'impiegato siano esclusi dal regno del politico».
Nel capitolo "Aristocrazia e schiavitù" mostro come una rivendicazione aristocratica sia una componente centrale della loro antropologia. Già nel prologo di "Vita activa", Arendt lamenta la mancanza di una «aristocrazia politica o spirituale da cui possa partire una restaurazione delle altre capacità dell'uomo». Vista correttamente, l'intera teoria politica di Arendt si basa su una divisione che a sua volta si fonda sulla distinzione heideggeriana di cui sopra. Solo coloro che partecipano a quella che lei chiama una "seconda nascita", vale a dire quei pochi che hanno giustamente accesso all'azione politica – al bios politikos – meritano l'enfatica designazione di autentica umanità nel vero senso della parola. Secondo Arendt, questa visione non si limita alla polis antica, poiché è dell'opinione che non solo lo schiavo, lo straniero e il barbaro nell'antichità, ma anche l'operaio e l'impiegato nell'era premoderna e moderna siano esclusi dall'accesso allo spazio del politico. Questa separazione tra il sociale e il politico – che ha portato Hannah Arendt a rifiutare anche il movimento per i diritti civili degli afroamericani, per quanto riguarda la politica di desegregazione scolastica nel Sud – rappresenta uno degli aspetti più discutibili della sua teoria politica; insieme alla sua idea che il lavoro non contribuisca all'umanizzazione. Tutti questi argomenti vengono discussi troppo raramente, sebbene siano al centro dell'argomentazione. Il secondo punto riguarda un testo del 1932, che Arendt dedica al concetto di "comunità politica" di Adam Müller. Müller è uno dei principali rappresentanti del movimento che Carl Schmitt chiama "romanticismo politico". Così Meyer ora mi accusa di considerare il pensiero di Arendt come ciò che invece in realtà sarebbe solo una parafrasi sociologica, e meramente neutrale-descrittiva, delle idee di Adam Müller, svolta sulla scia delle opere di Karl Mannheim. Ma qui è Meyer che sta confondendo qualcosa: gli scritti di Arendt sul problema dell'assimilazione degli ebrei in Germania sono influenzati da Mannheim, ma non lo sono però i suoi testi sul romanticismo politico. Questi sono dovuti all'influenza del controrivoluzionario inglese Edmund Burke sul loro pensiero, che ora è stato ben studiato, così come alcuni dei pensieri di Carl Schmitt. Meyer, in tal modo, spazza via il terzo punto con un tratto di penna. Quello in cui dimostro che Arendt usa il termine "pluralità" per la prima volta in una conferenza del 1954, in un luogo centrale, in modo affermativo e con esplicito riferimento a Heidegger. Per ragioni di spazio, vorrei qui fare riferimento alla prefazione all'edizione tedesca del mio libro, in cui spiego dettagliatamente lo stretto legame tra il concetto di pluralità di Arendt e la concezione di comunità politica di Heidegger. Il quarto punto riguarda invece un esempio delle fonti nazionalsocialiste, su cui Arendt si basa nel suo libro del 1951, sul totalitarismo. In questo libro, esonera l'élite intellettuale del nazionalsocialismo da ogni responsabilità politica e, oltre a Carl Schmitt, elogia anche lo storico antisemita Walter Frank, specializzato nella "questione ebraica". Meyer qui si riferisce solo a una delle pagine del mio libro, in cui cito questo storico. Senza dubbio il passaggio in questione avrebbe potuto essere più dettagliato, ma Meyer ignora il nocciolo del problema: la sorprendente apertura di Arendt verso autori che sono particolarmente problematici a causa del loro compromesso politico. Ne ho discusso più dettagliatamente in altre pubblicazioni.

Heidegger senza zavorra politica
Ora, è comprensibile che la prospettiva sviluppata nel mio libro faccia infuriare Thomas Meyer. Purtroppo, però, a causa della squalifica generale. egli perde l'opportunità di affrontare in maniera obiettiva le questioni reali. Mi accusa di «rabbia vuota», ma in realtà egli proietta sul mio libro la propria rabbia causata dall'analisi critica della sua icona. Da un punto di vista sociologico, sarebbe interessante indagare come e perché Arendt sia diventata una figura talmente intoccabile, al punto che il suo pensiero difficilmente possa essere messo in discussione criticamente. Quando la stella di Heidegger iniziò a svanire, nel corso dell'opera di Hugo Ott e di Victor Farías, ecco che allora molti autori si rivolsero ad Hannah Arendt. Un heideggeriano francese ha scritto, giustamente, che allora si scoprì che lei era «Heidegger senza Heidegger» – ovvero, alcune delle sue tesi fondamentali, ma senza i suoi compromessi politici. Ci sono, naturalmente, aspetti del pensiero di Arendt che vanno oltre il suo legame con Heidegger, come la sua difesa della Rivoluzione americana, di cui parlerò più dettagliatamente in futuro, e che tuttavia non contraddice in alcun modo la sua concezione aristocratica della maturità politica. Tuttavia, il suo rapporto con Heidegger, che ha avuto un'influenza significativa sul suo pensiero, non deve essere sottovalutato. Sarebbe auspicabile che l'edizione delle sue "Opere complete", che attualmente è in fase di sistemazione grazie a un apparato critico, approfondisse questa discussione, anziché ignorarla con intento apologetico. Si tratta dei fondamenti della teoria politica e, non ultimo, di una difesa di quella tradizione filosofica che Heidegger e Arendt credevano fosse giunta al termine.

- Emmanuel Faye - Pubblicato il 20/7/2025 su https://jacobin.de/ -

lunedì 21 luglio 2025

Nel Ghetto !!!

Gangs of New York. Ebrei e neri negli Stati Uniti
- Come spiegare la convergenza, apparentemente spontanea, nei campus americani, tra antirazzismo e antisionismo? Seguendo il processo di radicalizzazione del movimento per i diritti civili, Christian Voller traccia in questo testo la genesi del legame tra Black Lives Matter e Free Palestine. La storia che segue, passa per Brooklyn, dove l'incontro tra afroamericani ed ebrei tradizionalisti ha assunto a volte la forma di una guerra tra bande -
di Christian Voller,  Febbraio 21, 2024

Pochi giorni dopo i pogrom mortali avvenuti il 7 ottobre 2023, nelle università americane hanno avuto inizio delle proteste pro-palestinesi, le quali hanno riguadagnato rapidamente slancio, fino ad avere influenza internazionale. Oltre ai già esistenti "Comitati di Solidarietà con la Palestina", il tono della situazione è stato dato dai gruppi antirazzisti, i quali fino ad allora erano stati principalmente dediti alla causa afroamericana. In tal modo, la liquidazione dello Stato ebraico sulle rive del Mediterraneo è diventato chiaramente una rivendicazione fondamentale per le molte iniziative che si erano organizzate sotto lo slogan "Black Lives Matter": improvvisamente, quasi subito dopo gli eventi del 7 ottobre, è stata subito presa una posizione radicale, e spesso con una totale mancanza di tatto, o addirittura di decenza. Ascoltando le loro analisi e i loro appelli, si ha come l'impressione di una connessione quasi naturale tra le lotte dei neri in America e quelle degli arabi nell'ex mandato britannico della Palestina. Questa connessione tra attivismo antirazzista e antisionismo, non è nuova, ma segna tuttavia in modo inedito le proteste e i dibattiti in corso, sia nella forma che nella sostanza, e questo è sempre più vero man mano che arriva in Europa. Tuttavia, questa connessione non è affatto evidente. Chiunque voglia capirla, deve distogliere per un attimo l'attenzione dagli attuali eventi del Medio Oriente, e guardare indietro agli anni '70. O, più precisamente, su quel periodo che ha avuto iniziò negli Stati Uniti il 2 luglio del 1964, con la firma del Civil Rights Act. Tale legge, simboleggia il perpetuarsi del successo del movimento per i diritti civili, ma il fatto che sia stata firmata, ha anche suggellato la fine di quel movimento. L'uguaglianza giuridica era stata raggiunta, e per quanto la discriminazione razziale non era affatto una cosa del passato, essa era ora vietata. All'interno del sistema liberale, ciò che doveva essere raggiunto era stato raggiunto, e il raggiungimento dell'uguaglianza così raggiunta, era ora responsabilità della polizia. Molti protagonisti e sostenitori del movimento, hanno ritenuto pertanto di aver vinto la loro causa, e di conseguenza le proteste hanno perso la loro forza. Ma altri invece dubitavano, giustamente, che, in una società prevalentemente bianca, la piena uguaglianza potesse essere raggiunta. In una tale società, e nelle sue istituzioni, il razzismo sembrava troppo radicato. Inoltre, sembrava probabile che il capitalismo di ispirazione liberal-americana avrebbe fatto sì che le persone senza capitale o ricchezza rimanessero povere per generazioni. Per i discendenti degli schiavi, in una società in cui si diventa milionari solo eccezionalmente lavando i piatti, e dove il vecchio denaro determina il destino e la politica, questo significava un notevole svantaggio strutturale.

     Fu in questo contesto che il movimento per i diritti civili subì una radicalizzazione in termini di politiche identitarie; cosa che avrebbe segnato il tumulto politico e intellettuale che avrebbe attanagliato gli Stati Uniti, sulla scia della guerra del Vietnam. I gruppi del Black Power che si stavano formando in quel periodo, sostenevano di far parte della rivoluzione sociale, odiavano il liberalismo, e quello che era iniziato come un movimento per i diritti civili - e quindi come un progetto genuinamente liberal - proseguì anche con l'attivismo militante. Gli studenti bianchi, molti dei quali ebrei, mostrarono solidarietà, e formarono i Weather Underground, così come anche parti del movimento hippie impegnate nella lotta a fianco delle Pantere Nere, sotto il nome di White Panthers e inizialmente, in generale, le azioni dirette contro il governo, la polizia e l'imperialismo statunitense godevano di un notevole sostegno tra gli americani liberal. L'ebraismo liberal in particolare, che si era già dimostrato un importante alleato del movimento per i diritti civili, simpatizzava con la lotta degli afroamericani, con i quali sembrava condividere una storia di privazione dei diritti civili e di oppressione. Tuttavia, l'alleanza era fragile. Questo lo si vedeva nei quartieri poveri delle principali città americane, come New York, Chicago, Detroit o Boston. Alla fine del XX secolo, i vari gruppi della popolazione, i quali si consideravano, ed erano visti, come alieni (irlandesi, polacchi, ebrei, russi, tedeschi, ecc.), si erano in gran parte fuse con questo strato sociale bianco, al quale precedentemente solo i protestanti bianchi anglosassoni potevano appartenere. In tal modo, le loro comunità erano diventate in gran parte un affare folkloristico del passato, e questo sforzo di adattamento aveva dato i suoi frutti, per la stragrande maggioranza. Poi ebbe inizio la fuga dai centri cittadini, verso la periferia. Interi quartieri vennero abbandonati; rimasero soprattutto i poveri, e coloro che non erano pronti a mimetizzarsi in tutto e per tutto nella popolazione maggioritaria, e diventare così americani senza trattini. Questo portò a una distanza tra assimilati e tradizionalisti. Distanza, che era particolarmente netta nei circoli ebraici. Infatti, mentre per una parte significativa della popolazione ebraica l'assimilazione era direttamente correlata alla mobilità verso l'alto, e al trasferimento in quartieri migliori, i rappresentanti delle comunità dei centri urbani, molti dei quali erano dei sopravvissuti all'Olocausto, si rifiutarono di abbandonare le proprie tradizioni e rimasero riconoscibili come ebrei a partire dalla loro lingua, habitus e abbigliamento. Erano significativamente più poveri della maggior parte degli ebrei assimilati, e attiravano su di sé l'antisemitismo. Tuttavia, erano ben organizzati nei quartieri in cui vivevano. Erano sovra-rappresentati nel sistema scolastico, ben integrati nell'amministrazione e nella polizia, e molti edifici in affitto erano di proprietà di famiglie ebree. Quando iniziarono i grandi movimenti migratori intra-americani, dal Sud al Nord, e milioni di afroamericani vennero a cercare lavoro e fortuna nelle metropoli industriali del Nord, i nuovi arrivati incontrarono per la prima volta questi ebrei. Spesso, essi costituivano il più grande gruppo omogeneo di bianchi che erano rimasti nei quartieri più poveri, e sembravano prosperi quando venivano guardati dal punto di vista di coloro che venivano dal Sud, ed erano indigenti. Le stesse persone che avevano rifiutato di fondersi nella società a maggioranza bianca, ne divennero invece in tal modo i diretti rappresentanti. Harlem e Brooklyn, quartieri di New York che sono entrambi molto ebraici, e la cui popolazione afroamericana era cresciuta notevolmente dagli anni '50, sono gli esempi emblematici di questo caso. La convivenza, nel piccolo spazio di quelli che erano quartieri sempre più fatiscenti, causò ben presto tensioni, e pertanto si stabilì un antisemitismo assai specifico, che era rivolto tanto agli ebrei locali quanto ai bianchi; o visti almeno come dei potenziali bianchi. Infatti, secondo le argomentazioni, gli ebrei, in qualsiasi momento, avrebbero potuto mimetizzarsi nella maggioranza della popolazione; un privilegio che i neri non avevano a causa del colore della loro pelle.
Questo antisemitismo assai specifico - legato a un ambiente non generalizzabile, e a certe esperienze - è ben attestato. Ad esempio, l'Harlem che James Baldwin ha descritto nei suoi romanzi e saggi, e che negli Stati Uniti sarebbe rapidamente diventata una metonimia per il "ghetto", è sempre popolata da dei personaggi secondari grottescamente esagerati. Alcuni di essi possono essere troppo facilmente decifrati in quanto caricature antisemite, eppure, allo stesso tempo, devono essere intesi come un'espressione autentica dell'esperienza afroamericana di vivere ad Harlem e in dei quartieri residenziali simili. Baldwin notò e spiegò l'esistenza di un antisemitismo specificamente afroamericano, ma egli non voleva essere visto come uno dei suoi rappresentanti. Infatti, nel 1967, in «I neri sono antisemiti perché sono anti-bianchi» aveva affrontato il fenomeno. Il suo saggio attribuisce l'antisemitismo nero soprattutto all'esperienza per cui i neri, nei ghetti, venivano sfruttati dagli ebrei, i quali, nel particolare contesto storico degli Stati Uniti, sono così diventati bianchi: «Nel contesto americano, la cosa più ironica dell'antisemitismo nero è che si sta davvero condannando l'ebreo per il fatto di essere diventato un uomo bianco americano»[*1]. L'assimilazione riuscita - o potenzialmente realizzabile - all'America bianca, diventa così il motivo per un risentimento che Baldwin riproduce e critica allo stesso tempo; l'argomento decisivo è quello secondo cui la sofferenza, sofferta dagli ebrei come gruppo, è un'esperienza essenzialmente europea, e quindi, contrariamente all'oppressione dei neri, non è veramente americana: «Non è qui, e non è ora, che l'ebreo viene massacrato, e non viene mai disprezzato qui, come lo è stato lì, perché qui è un americano»[*2]. Alla fine, Baldwin rispose all'antisemitismo afroamericano per mezzo del suo universalismo, basato sul cristianesimo, e con il rifiuto di ogni razzismo: quella che si prospetta è una conciliazione, se l'America riuscirà a integrare tutti in un'identità americana in cui le sofferenze e i contributi degli afroamericani siano finalmente riconosciuti appieno. Questa enfatica professione di fede a favore del melting pot americano fu per molti  un'ispirazione, ma a Baldwin valse anche aspre critiche. Nel suo libro polemico "The Crisis of the Intellectual" (1967), Harold Cruse attaccò Baldwin definendolo «un intellettuale piuttosto innocente e provinciale», il quale «si faceva in quattro per evitare di criticare gli ebrei che fingevano di essere arrabbiati con i bianchi», e lo rimprovera di minimizzare quello che in America era il potere degli ebrei. Se non in quanto «amante degli ebrei», sarebbe stato almeno come «apologeta degli ebrei»[*4], dicendo che Baldwin si sarebbe lasciato trascinare in un complotto, dove gli ebrei sono certamente impegnati per l'integrazione degli afroamericani, però con l'obiettivo di ostacolare la loro lotta per un'identità, per una cultura e, in definitiva, per una nazione propria. Quando invece essi hanno creato tutto questo per sé stessi. In quanto "nazionalismi" rivali all'interno degli Stati Uniti - il cui destino comune è quello di non essere in grado e di non voler fondersi facilmente nell'America integrata dei bianchi -  gli ebrei e gli afro-americani vengono collocati agli antipodi di Cruse, la cui lotta per una propria identità collettiva è modellata in modo essenzialmente agonistico. Ma laddove l'identità ebraica, come identità culturale, sembra chiaramente definita per Cruse, e dove la fondazione dello Stato di Israele, nel 1948, ha creato una patria per gli ebrei, cosa che dà loro una grande capacità di affermarsi anche negli Stati Uniti; ecco che invece l'unità culturale degli afroamericani e la loro richiesta di un proprio stato nazionale sono rimasti lettera morta. Ed è proprio la rivendicazione dell'integrazione e dell'assimilazione dei neri americani – difesa anche e soprattutto dagli ebrei americani – che, secondo Cruse, si oppone alla realizzazione di questi due ideali di unità culturale, e di uno Stato-nazione appartenente alla nazione nera. A differenza di Baldwin, il cui uso letterario di immagini e tropi antisemiti è spesso ambiguo, Cruse presenta quindi una narrazione che nel suo insieme è basata sull'antisemitismo. Sullo sfondo del pluralismo etnico a favore del quale egli sostiene, la richiesta dell'integrazione dei neri nel modo della loro assimilazione nella società maggioritaria americana può essere concepita solo come un tradimento della causa di un'identità e di una cultura risolutamente afro-americane; ed è soprattutto l'ebraismo americano che Cruse identifica come il potere sinistro che favorisce questo tradimento, proprio perché ha accompagnato e sostenuto attivamente gli sforzi per integrare i neri durante il movimento per i diritti civili. Ciò che è decisivo qui non è tanto il risentimento antisemita che Cruse nutriva chiaramente come individuo (e che è il filo conduttore della sua potente polemica), ma è piuttosto il fatto che questo risentimento si manifesta nel contesto di una concezione fondamentalmente diversa di ciò che significherebbe in definitiva avere l'emancipazione nera in America, rispetto a quella di Baldwin. Laddove l'universalismo di Baldwin rimane attaccato all'ideale della produzione di un'identità americana integrata e integrativa, Cruse rifiuta questo progetto di integrazione multilaterale a favore del pluralismo etnico.

     L'antisemitismo di Cruse non passò inosservato ed è stato criticato fin dall'inizio [*5], ma la sua diagnosi della crisi del modello di integrazione americano ha funzionato da precursore. E mentre, di fronte all'approfondirsi delle tensioni tra bianchi e neri, l'universalismo "innocente" di Baldwin sembrava romantico e obsoleto, il pluralismo etnico - sostenuto da Cruse - divenne il paradigma della politica identitaria all'interno del movimento Black Power. Gruppi del nazionalismo nero, come i musulmani neri, notoriamente antisemiti, guadagnarono rapidamente sempre più influenza all'interno del movimento, e il risentimento antiebraico - che si può ritrovare in molti punti negli scritti corrispondenti - ebbe effetti che vennero avvertiti soprattutto da quegli ebrei dei quartieri poveri che, da un lato, erano riconoscibili come ebrei e, dall'altro, vivevano tra i neri, cosa che non accadeva agli ebrei assimilati delle periferie. Alla fine degli anni '60, gli Stati Uniti sperimentarono un'ondata di violenza urbana, in cui la rabbia contro la "classe bianca sfruttatrice" nei quartieri misti, veniva regolarmente scatenata contro gli ebrei e le loro proprietà.  Fu in questo contesto che a Brooklyn, nel 1968, venne fondata la Jewish Defense League, oggi quasi dimenticata, ma non priva di importanza per la storia dell'ebraismo negli Stati Uniti. Raggruppato attorno al carismatico rabbino Meir Kahane - il quale rappresentava una miscela, peculiare e profondamente americana, di conservatorismo culturale, di autoaffermazione militante e di politica identitaria ebraica - si formò tutto un ambiente di giovani ebrei particolarmente bellicosi, e spesso armati. Il fatto che Kahane sia fosse ovviamente ispirato alle Pantere Nere, dalle quali aveva preso in prestito non solo il logo della sua truppa (completo di una stella gialla), ma anche gran parte della sua retorica, gli valse il soprannome di Panther Reb. Anche i suoi uomini, con i loro "jewfros" [i capelli, tagliati con i boccoli laterali e un ciuffo lasciato dietro ciascun orecchio], le giacche di pelle e i berretti, imitavano spavaldamente lo stile delle Pantere. Ma, allo stesso tempo, fu proprio con i gruppi urbani appartenenti al movimento del Black Power che, fin dall'inizio e in maniera duratura, entrarono in conflitto. La ragione di ciò, non andava ricercata tanto nel razzismo di Kahane, diventato un elemento predominante del suo pensiero solo negli anni '80, quanto piuttosto nei concreti disaccordi locali sorti intorno a questioni di politica scolastica. Nei quartieri, ora prevalentemente afroamericani, secondo la richiesta politica dei loro residenti neri, l'istruzione doveva essere fornita da insegnanti afroamericani; una richiesta che godeva di grande sostegno tra i liberali, e persino tra gli ebrei liberali. Tuttavia, la sua realizzazione si scontrò con i piani di vita e di carriera degli insegnanti che avevano precedentemente lavorato a Brooklyn e in quartieri demograficamente simili, e che erano in gran parte ebrei. Kahane si schierò con loro, e divenne il portavoce di un ambiente ebraico economicamente arretrato e tradizionalista, in nome del quale polemizzò con forza, e usando una retorica di lotta di classe contro l'establishment ebraico, che, in nome della causa nera, non si preoccupava né dei poveri né degli ebrei tradizionali che vivevano in questi quartieri e che vi si guadagnavano il pane quotidiano. Allo stesso tempo, divenne il sostenitore militante di una politica identitaria ebraica, che fu spesso accusata di essere razzista, perché gli ebrei di cui cercava di organizzare l'affermazione erano concepiti e percepiti dagli attivisti del Black Power come dei bianchi, e quindi come parte di quella società maggioritaria che doveva essere combattuta in quanto razzista. In altre parole, affermando un'identità ebraica, agli occhi degli attivisti del Black Power, gli ebrei affermavano un'identità bianca. Detto ciò, è innegabile che, nel contesto dei conflitti tra questi due gruppi, siano state pronunciate frasi razziste. Le polemiche antirazziste, presumibilmente dirette contro gli oppressori bianchi, puzzavano regolarmente di antisemitismo e, in alcuni luoghi, sfociavano in aperto antisemitismo. Questo diede a Kahane l'opportunità di indurire il suo tono, e pertanto, gli effetti dell'ebraismo combattivo che egli cercava di rafforzare, vennero avvertiti soprattutto dagli afro-americani che dovevano condividere il quartiere con i suoi chayas (in ebraico: bestie). L'alleanza tra ebrei americani e afroamericani, formatasi nella lotta comune per i diritti civili nel Sud, rischiava così di rompersi a New York. Inoltre, la vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni aveva bruscamente posto il sionismo al centro dell'agitazione antimperialista, che poneva un problema a molti ebrei di sinistra, un numero significativo dei quali in seguito si schierò con i neoconservatori. I gruppi del Black Power, da parte loro, cercavano di avvicinarsi a quegli arabi che nelle grandi città americane sembravano soffrire a causa degli stessi bianchi per i quali soffrivano i loro "fratelli", vale a dire, gli ebrei. I pregiudizi razzisti e antisemiti, che in precedenza esistevano già in entrambi i gruppi della popolazione, si trasformarono in un odio aperto che esplose alla fine degli anni '60 in una serie di violenti scontri tra attivisti neri ed ebrei, che attirarono ben poca attenzione in Europa, e che nella memoria degli americani lasciarono un ricordo piuttosto pallido. Tuttavia, questi eventi non sono stati privi di conseguenze.

    Kahane pose fine al suo progetto di radicalizzazione dell'identità degli ebrei americani nei primi anni '70, e chiese l'aliyah collettiva, ossia un "ritorno" a Israele: «È ora di tornare a casa» era il titolo del suo pamphlet del 1972. Avrebbe intrapreso una seconda carriera politica in Israele, agendo in modo così radicale e regolarmente razzista che alla fine venne espulso dalla Knesset, e il suo partito Kach fu infine bandito. Quindi, l'integrazione non è riuscita proprio laddove avrebbe dovuto essere realizzata senza ostacoli, secondo quelli che erano i criteri della politica identitaria. Fu così che Kahane divenne un odioso critico degli arabi in Israele, adulato da un numero relativamente piccolo di sostenitori radicali, ma bandito dalla scena politica. La lotta che condusse rimase comunque americana. Profondamente radicato, non nell'Israele liberale, ma piuttosto nell'identitaria Brooklyn degli anni '60, Kahane non è stato in grado di inserirsi nel panorama politico dello Stato ebraico; e questo vale ancora oggi per i suoi sostenitori, i quali sono in gran parte immigrati ebrei dagli Stati Uniti. L'eredità ideologica del Panther Reb, viene ora gestita dai coloni armati e molto aggressivi della Cisgiordania, dei quali parlano (o dovrebbero parlare) coloro che denunciano la violenza dei "coloni": «Kahane aveva ragione» era e rimane ancora il loro grido di battaglia. Tuttavia, in Israele i kahanisti sono sempre stati un gruppo radicale, in gran parte isolato, con cui nessuno che abbia a cuore la cultura politica del paese vorrebbe avere a che fare. Solo Benjamin Netanyahu ha cercato di avvicinarsi a loro, per rimanere al potere, e dopo la nomina di Itamar Ben-Gvir – il cui partito Otzma Yehudit è nella tradizione diretta del partito Kach di Kahane – a ministro della sicurezza, in Israele si è parlato di un ritorno al kahanismo e si è parlato dei pericoli che derivano dalla sua partecipazione al governo. Negli Stati Uniti, invece, sono molti i rappresentanti e sostenitori del movimento Black Power che sono riusciti a fare carriera nelle università. La loro integrazione ha avuto un tale successo, e durata, che la retorica e gli strumenti analitici emersi in uno specifico clima socio-storico ora giocano un ruolo importante nelle discipline umanistiche che erano tradizionalmente di sinistra. Quella che nell'Internazionale Antimperialista è stata discussa come la "Teoria della Triplice Oppressione", si sta ora riunendo a una teoria della inter-sezionalità, e quello che allora era chiamato il Tricontinente, ora è diventato il Sud del mondo; quindi non una categoria geografica, ma politica. Le forme di azione e di protesta del movimento "Free Gaza", anche se ora mediatizzate digitalmente, ricordano anche gli anni '70, se non altro per il diffuso ritorno della kufiya come simbolo della lotta dei popoli oppressi. E anche l'antisemitismo (legato a Israele), che ha sempre avuto un rapporto intimo con l'antimperialismo militante, ora è tornato, e per gran parte della sinistra americana non sembra rappresentare un problema. Pertanto, è prendendo in considerazione la radicalizzazione identitaria del movimento per i diritti civili durante gli anni '70 - e le sue ripercussioni accademiche - che oggi possiamo spiegare le proteste impetuose, e troppo spesso ostili, contro gli ebrei, nelle università americane; e criticarle. Ma l'accoglienza euforica che esse hanno ricevuto nel frattempo in tutta Europa, e in gran parte dei suoi circoli accademici attivisti, è tuttavia spaventosa. Vengono ripresi qui dei modelli di interpretazione e delle forme di azione, la cui manifesta ingenuità si nutre di uno spazio di esperienza fondamentalmente diverso da quello dell'Europa del post-Olocausto. In effetti, negli Stati Uniti, l'assimilazione ha effettivamente offerto agli ebrei l'opportunità di essere in gran parte risparmiati dalla discriminazione, per quanto l'antisemitismo fosse, e rimane, diffuso. In Europa, d'altra parte, l'integrazione degli ebrei attraverso l'assimilazione ebbe in gran parte successo, ma venne cancellata a tradimento. Senza alcuna protezione, gli ebrei europei sono stati sottoposti a una razzializzazione che aveva un solo scopo: identificare tutti gli ebrei, trovarli e inviarli alla "Soluzione Finale".

     Kahane (nella foto), che è nato a Brooklyn nel 1932, e non ha vissuto nulla di tutto questo in prima persona, era consapevole del rischio. Il suo programma militante si identificava con il regolare riferimento ad Auschwitz e ai pogrom nell'Europa dell'Est, e si presentava come un manuale di autodifesa al servizio di una vita ebraica, che egli vedeva costantemente minacciata, anche in America. Per gli attivisti del Black Power, d'altra parte, le cose sembravano diverse. Gli ebrei che erano riusciti ad arrivare in America, erano stati salvati da quella stessa nazione che opprimeva i neri come gruppo, e dalla cui ricchezza rimanevano in gran parte esclusi, nonostante l'uguaglianza legale. Ciò sembrava loro tanto più ingiusto, in quanto anche loro avevano pagato un considerevole tributo di sangue nella lotta contro il Terzo Reich e le potenze dell'Asse. Agli occhi del Black Power, anche se in Europa erano stati perseguitati e quasi sterminati, in America gli ebrei erano diventati bianchi, o almeno potevano diventare bianchi. La Jewish Defense League apparve quindi come una banda di teppisti bianchi, il cui comportamento era suscettibile di evocare ricordi dei linciaggi del Sud; una visione comprensibile delle cose, nella misura in cui nulla era mai accaduto agli ebrei negli Stati Uniti che potesse essere paragonato in alcun modo all'odio razziale che gli afroamericani avevano sperimentato e a cui erano ancora esposti negli anni '60. Mentre l'assimilazione non solo non è riuscita a proteggere gli ebrei europei dalla discriminazione a lungo termine - ma è finita nei campi di sterminio - ha avuto un tale successo in America che oggi si potrebbe pensare che l'antisemitismo non sia altro che un'innocua variante del razzismo "intra-bianco". Nei paesi della Shoah, dove non c'è quasi più vita ebraica, rispetto a quella che c'era prima del 1945, questo sembra utopico ed è comprensibile che molti vogliano credere in tale utopia. Tuttavia, bisogna diffidare. Il vento fresco che soffia da ovest dovrebbe essere accolto con il massimo scetticismo, visto quello che è successo qui. Non è questa colpa tedesca, di cui si parla tanto oggi [*6], a obbligarci a preservare la nozione di antisemitismo così com'è stata sviluppata paradigmaticamente nella teoria critica di Adorno, Horkheimer e altri, o di Jean Amery [N.d.T.: vedi il suo “Il Nuovo Antisemitismo” Bollati Boringhieri], e a difenderla, se necessario, contro l'antirazzismo di ispirazione americana; ma è piuttosto, semplicemente, l'esperienza europea: «è successo, e quindi può succedere di nuovo» (Primo Levi).

- Christian Voller - Pubblicato il 21 febbraio 2024 su K.Le juifs, l'Europe, le XXI° siécle -

NOTE:

1    Baldwin, James, "Negroes Are Anti-Semitic Because They're Anti-White" (Orig.: New York Times Magazine, 9 aprile 1967), in: Ders, Collected Essays, a cura di Toni Morrison, New York, Literary Classics of the United States, 1998, pp. 739-748, qui p. 744. [Nel contesto americano, l'aspetto più ironico dell'antisemitismo nero è che l'uomo nero sta in realtà condannando l'ebreo per essere diventato un uomo bianco americano.]
2 - Ivi, 745 [«Non è qui, né ora, che l'ebreo viene massacrato, e non è mai disprezzato qui, come lo è lì, perché è un americano.»]
3    Cruse, Harold, "La crisi dell'intellettuale" (1967), The New York Review of Books, New York 2005, p. 498. [Un intellettuale piuttosto innocente e provinciale, che si fa in quattro per evitare di criticare gli ebrei fingendo di essere arrabbiato con i bianchi.]
4    Ivi, p. 482
5    Robert Chrisman, per esempio, ha osservato sarcasticamente: «Una cospirazione comunista, ebrea, sionista liberale e integrazionista ha soffocato la cultura nera per sessant'anni, dice Cruse». Da: Chrisman, Robert, "La crisi di Harold Cruse", in: The Black Scholar, novembre 1969, vol. 1, n. 1, La cultura della rivoluzione, pp. 77-84, qui p. 79.
6    Lo slogan "Liberare Gaza dalla colpa tedesca" è arrivato per la prima volta all'attenzione del pubblico nell'autunno del 2022 nell'ambito della controversia che circonda documenta 15, e da allora è diventato un punto fermo della cultura di protesta filo-palestinese in Germania e oltre. Esso sostiene che un senso di colpa specificamente tedesco, nato dall'Olocausto, avrebbe portato la Repubblica Federale a stringere un'alleanza indissolubile con Israele, in conseguenza della quale i palestinesi, "vittime delle vittime", sono diventati i soggetti di un'oppressione in cui si perpetua la colpa tedesca. Questo slogan è stato fortemente criticato in Germania, anche e soprattutto tra la sinistra, per aver ripreso e variato un topos che già dagli anni '50 occupa un posto centrale nel repertorio retorico dell'estrema destra, vale a dire la richiesta di porre fine al cosiddetto "culto della colpa". Questa richiesta è stata recentemente riaffermata con veemenza dall'ala völkisch dell'Alternative für Deutschland (AFD), ma risale alla formazione della Nuova Destra negli anni '50. Tuttavia, il discorso sulla colpa tedesca è sbagliato, anche perché si rivolge a un senso di colpa soggettivo e diffuso, e quindi livella l'esperienza oggettiva dell'Olocausto, compresa la responsabilità che ne deriva – e non solo per la Repubblica Federale di Germania.