giovedì 31 luglio 2025

Satana contro “il Dittatore” !!

La fortuna critica di Minuetto all’Inferno fu irta di ostacoli. Avversato da Elio Vittorini che dirigeva da Einaudi la collezione dei “Gettoni” dove poi uscì nel 1956, nei tre anni precedenti era passato al vaglio di Calvino, Fruttero, Fenoglio e altri lettori editoriali rischiando di venir rispedito al mittente inedito. Vinse lo Strega per l’opera prima e la buona stella del «giovane in abito scuro, timido, ma che si assicura intelligentissimo» sfolgorò quella sera. Qualche altra volta si sarebbe oscurata per ribrillare ancora mentre la vita di quel giovane, che nel frattempo non era più tale, correva verso il suo fine e la sua fine. Chi legge o rilegge, oggi, questo romanzo opera prima vive la doppia esperienza di transitare per un’epoca senza contatto col mondo odierno incontrandovi tipi dalla consistenza di larve, ma anche di scovare lì dentro gli indizi, i presagi dello scrittore e del pensatore che Zolla sarebbe diventato quando le croste della blanda infezione che fu per lui la scrittura narrativa cascarono via. E con essa le tracce degli esercizi di pittura e al pianoforte, in una casa dove il padre faceva il pittore e la sorella, la madre e la nipote erano tutte per la musica, e degli studi di Legge e Psichiatria all’Università di Torino.

(dal risvolto di copertina di: Elémire Zolla, "Minuetto all’inferno", Aragno editore,2004, € 14)

Lo scrittore torinese che esordì "sataneggiando"
- di Mario Baudino -

Che mai potrebbe succedere se due polarità supreme, poniamo Dio e Satana, unissero le loro forze per danneggiare (o educare, non ci sarebbe molta differenza) i protagonisti di un romanzo?  È un'idea del tutto fantastica, o cela una segreta analisi del nostro vivere?
Se lo chiese un Elémire Zolla ventiduenne e ne nacque, anche a cagione di una malattia e quindi di una lunga e forzata inattività fisica, il romanzo d'esordio, destinato anche a essere sostanzialmente l'unico. Vide la pubblicazione nel 1956, dopo anni di incertezze e serrati confronti einaudiani, nella collana dei Gettoni, guidata da quel Vittorini che "Minuetto all'inferno" detestava, e dal suo punto di vista non aveva nemmeno torto. Il giovane Zolla era agli antipodi rispetto alle poetiche correnti, legate al neorealismo, in quel tumultuoso dopoguerra.  Il suo era un romanzo fantastico nutrito (anche) dal decadentismo d'inizio secolo; persino, volendo, un romanzo snob, dal tono supremamente distaccato, dal linguaggio raffinato e ironico increspato da termini arcaici o semidimenticati, come il «rugliare» attribuito a un ladro o le «pareti imporrite sotto la tappezzeria», o una dantesca «burella» per indicare un cupo corridoio; ma anche solcato da potenti inserzioni di dialetto piemontese. Vinse lo Strega-giovani - un premio istituito allora per pochi anni, diverso dall'attuale - , un po’ a sorpresa. Vittorini lo aveva pubblicato con un risvolto in cui manifestava tutta la sua incomprensione per gli scrittori che «amano sataneggiare». E che Zolla «sataneggiasse» un poco, ma non nel senso dell'esoterico, del mistico e del magico, è indubbio.
"Minuetto all'inferno", prezioso incunabolo, ha avuto una lunga vita; è entrato sicuramente nel canone del Novecento, a poco a poco, talvolta ristampato. Ora lo propone Cliquot, con introduzione di Grazia Marchianò, la compagna dello scrittore, estetologa e custode della sua eredità culturale, scomparsa nell'aprile scorso: che lo situa storicamente e fornisce anche qualche materiale d'archivio sulla vicenda editoriale. Il romanzo è diviso idealmente in due parti. Nella prima si sviluppa per capitoli alterni la vicenda dei due protagonisti, Lotario e Giulia, fino al loro fatale e altero incontro, un amore ben presto privo della volgare «tetraggine della passione». Nella seconda compaiono Satana e «il Dittatore», ovvero un Dio prepotente e brutale nella tradizione gnostica e dualistica, cara all'autore, che vede la creazione come l'effetto di un demiurgo malvagio e beffardo. Satana è più simpatico: è un anziano, elegantissimo dandy che cita volentieri Seneca, mentre il Dittatore è un beone corpulento, a cavalcioni di un tavolo macchiato di birra, torso nudo e mammelle grasse, calzoni da cavallerizzo e cinturone di cuoio, circondato da una soldataglia di angeli; che semmai ricorda Mussolini. Sono com'è ovvio in conflitto (il Dittatore brutalizza Satana a più non posso) ma anche complementari. Uniscono le forze, se pure in gara tra loro, ai danni di Lotario e Giulia, per portarli alla rovina (e quindi sottometterli finalmente ai loro voleri, ciascuno dal proprio punto di vista più o meno infernale). Le invenzioni narrative e linguistiche sono veloci, imprevedibili. Il disprezzo per i luoghi comuni, per la socialità insensata, per i vizi privati e le pubbliche virtù disegna personaggi piuttosto emblematici sia di una volgarissima Torino fascista, dove anche gli intellettuali e artisti sembrano caricature, sia di un'altrettanto insignificante Italia del primo dopoguerra.
Il romanzo fu anche un gesto di ribellione. Era antimoderno e fuori tempo, ma davvero fuori da ogni tempo, al di là degli umori francesi o britannici che traspaiono nella prosa di Zolla, da Baudelaire a Huysmans, forse a un William Beckford, senza dimenticare un italianissimo Pitigrilli. Lo si rilegge ora come fosse stato ieri, o nel Settecento. Zolla, di formazione britannica, studiò legge ma divenne anglista alla scuola di Mario Praz, di cui poi ereditò la cattedra alla Sapienza di Roma: frequentava le lezioni il giovane Roberto Calasso, che poi pubblicò o ripubblicò gran parte delle sue opere per l'Adelphi, da "Lo stupore infantile" alle "Uscite dal mondo", alla "Storia dell'alchimia". La vocazione narrativa durò poco e si mutò nella saggistica dei grandi viaggi  nelle religioni, nell'antropologia, nella storia della spiritualità. Ma senza questo romanzo, forse, non capiremmo del tutto i mille risvolti dello studioso scomparso nel 2002, la sua sorridente elusività, il senso del suo essere molto problematicamente anti-moderno ma attentissimo alle nuove tecnologie informatiche, la critica feroce alla borghesia, un certo straniamento, quasi una forma di sonnambulismo. Il libro, al di là dei modelli goticheggianti, ha forse un solo lontano parente in Italia, e cioè "Gli indifferenti" di Alberto Moravia, o al più, curiosa coincidenza anche temporale, un racconto di Guido Morselli scoperto qualche anno fa dall'editore De Piante, dove lo scrittore varesino, poi suicida nel '73 dopo reiterati rifiuti editoriali, immaginava un incontro segretissimo tra Stalin e il Papa Pio XII, «viventi emblemi per innumerevoli moltitudini»: quasi un minuetto a San Pietro.

- Mario Baudino - Pubblicato su TuttoLibri del 13/7/2024 -

mercoledì 30 luglio 2025

Il Collasso Automatico e la Nube delle Probabilità !!

"La sostanza del capitale", di Robert Kurz
- Sintesi didattica di di Benoît Bohy-Bunel -

Prima parte: La qualità socio-storica negativa dell'astrazione "lavoro"
Capitolo 1: Assolutezza e relatività nella Storia - Chiarire il concetto di "relatività" storico-sociale
Nel primo capitolo, Kurz attacca le ideologie postmoderne, le quali non definiscono chiaramente il loro riferimento alla relatività. Kurz pone una distinzione che i post-modernisti non fanno: da un lato, distingue la relatività di una data formazione sociale, all'interno della Storia, e, dall'altro, l'assolutezza di certe forme sociali all'interno di una data formazione. Dal momento che i postmodernisti non fanno questa distinzione, essi non sono in grado distinguere tra forme sociali storicamente diverse. Non capiscono la specificità della modernità capitalista, né le sue categorie fondamentali.
L'importanza di una critica categoriale del capitalismo
Secondo Kurz, per poterla semplicemente criticare, è già necessario percepire tanto l'essenza categoriale quanto la sostanzialità della formazione sociale storica. Nella formazione capitalistica regna una «assolutezza a uso interno, o quanto meno esiste una pretesa reale che va in questa direzione (...), una pretesa che deve essere spezzata» (p. 28). I postmodernisti, dal momento che non hanno una chiara definizione di relatività e di assolutezza, considereranno perciò che qualsiasi critica di "essenza", "sostanza" o "totalità", sia di per sé "essenzialista", "metafisica", o addirittura "totalitaria". Essi, così facendo, si proibiscono di criticare la radice della dominazione capitalistica, e confondono il punto di vista della critica con l'oggetto della critica. Alla fine, riducono la loro critica concentrandola solo su delle semplici forme fenomeniche contingenti e disperse (rapporti di "potere", ecc.), senza però essere in grado di coglierne la logica capitalistica essenziale, e senza essere in grado di specificarla con precisione. Il fatto di tematizzare la "sostanza" del capitale, si riferisce alla preoccupazione di proporre una critica categorica del capitalismo, che vada alla radice del dominio capitalistico. Le categorie fondamentali del capitalismo (lavoro astratto, merce, valore, denaro) costituiscono delle forme che hanno una pretesa di assolutezza; e che allo stesso tempo sono relative alla modernità capitalistica. Inoltre, poiché sono assolutamente distruttive, anche la loro negazione deve essere assoluta. Distinguendo tra il livello delle categorie e quello che invece è il livello delle loro espressioni empiriche, sarà così anche possibile formare «un concetto delle relazioni che costituiscono l'essenza del capitalismo», e sarà possibile anche cogliere le «differenze tra questa essenza e le mutevoli configurazioni storiche che il capitalismo assume a sua volta» (Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale", p. 12, versione tedesca). Poiché il pensiero postmoderno non percepisce nemmeno questo piano categoriale, ecco che esso spesso confonde una specifica configurazione del capitalismo (il libero mercato, per esempio) con l'essenza stessa del capitalismo.
Capitolo 2: Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale del capitalismo - L'emergere di una sostanza unica e totalizzante nella modernità    
Kurz cerca pertanto di precisare questa sostanza sociale moderna. Nelle teorizzazioni premoderne, viene privilegiata (se si mette da parte la sostanza trascendente "Dio") l'idea di una pluralità di sostanze. Nell'era moderna, la sostanza tende a diventare unica e omogenea. Già nelle scienze naturali moderne, stiamo assistendo a un riduzionismo fisicista (Newton). Secondo Kurz, questa tendenza esprime l'emergere di un'astrazione reale unificata e totalitaria rispetto al mondo sociale. In tal modo, Kurz afferma che «il meccanismo dell'universo a orologeria newtoniano, riflette in realtà una relazione sociale assai specifica, la quale coinvolge, tra le altre cose, un modello relativo a degli individui atomizzati e astratti». (pag. 35)
La nozione di "metafisica reale"         
Le moderne scienze naturali - come le teorie sociali apologetiche - non vanno oltre la metafisica, ma avranno sempre delle evidenti basi metafisiche. Tuttavia, questa metafisica non è una semplice riflessione filosofica o teologica, bensì «una relazione all'opera nella realtà sociale, in altre parole, una vera e propria metafisica» (ivi.). Naturalmente, le costituzioni sociali premoderne, che svilupparono altre forme di feticismi (teocratici), rappresentarono anche una sorta di "metafisica reale" (le relazioni sociali potevano essere regolate da idee e rappresentazioni). Ma questa metafisica veniva determinata «dall'aldilà, attraverso la proiezione di quella che era la sostanza assoluta e trascendente per eccellenza» (p. 36): l'essenza divina. Nella metafisica capitalistica reale, la trascendenza è abolita: la sostanza feticista, sotto le spoglie della valorizzazione del valore, è «immediatamente terrena e sociale» (p. 37). Il valore, in senso capitalistico, è quindi una vera e propria "astrazione reale". Kurz dirà: «Il paradosso dell'astrazione reale, sta nel fatto che un'astrazione - in sé non incarnata, non fisica, non materiale, una cosa pura del pensiero, una creazione della mente socialmente oggettivata dalla sua natura di proiezione feticistica - appare tuttavia come una relazione interpersonale reale, e come una vera oggettività fisica» (p. 38). In questo contesto, possiamo capire come alcune correnti filosofiche dominanti, come l'idealismo tedesco, esprimano l'emergere di questa vera astrazione capitalistica. Queste correnti costituiscono delle vere e proprie apologie implicite della forma-valore. Kurz ha detto: «Nell'era moderna, specialmente nell'idealismo tedesco, l'idealità trascendente delle forme essenziali che Platone difendeva, ora appare come l'idealità immanente del principio essenziale». In tal modo, dietro la "forma in generale" kantiana, dietro lo "spirito del mondo" hegeliano, dietro la "volontà assoluta", ecc., noi troveremmo la forma-valore, che viene qui affermata in modo apologetico.
Materialismo sostanziale moderno e idealismo: due facce della stessa medaglia
Il materialismo sostanziale della fisica meccanicistica, che afferma anche l'unità di un principio immanente, non è altro che il doppio complementare e inseparabile di questo idealismo. Esso esprime anche una «forma sociale feticcio paradossalmente secolarizzata» (p. 41). A partire da questi due principi sostanziali moderni - idealistico e materialistico - si stabilisce la distinzione tra forma e contenuto. Ma il contenuto (la natura ridotta a un puro meccanismo) è esso stesso modellato dalla forma (l'astrazione reale). Kurz dirà: «Ironicamente, il materialismo reale del lavoro e della scienza capitalistica della natura, anziché essere il contrario dell'idealismo reale della forma-valore, si rivela, puramente e semplicemente, come la sua manifestazione pratica» (p. 43). È questo il motivo per cui Kurz può criticare il "materialismo" del marxismo tradizionale, il quale rappresenta solo il «riflesso affermativo di uno degli aspetti della relazione di valore, vale a dire, il materialismo sostanziale della riduzione fisicalista». (Ibidem)
Capitolo 3: Il lavoro astratto nella critica marxiana dell'economia politica: un concetto negativo di sostanza - Il marxismo tradizionale manca della critica marxiana del lavoro astratto
Il marxismo tradizionale ha definito il lavoro come se fosse un dato ontologico e insuperabile. Non ha percepito la preoccupazione per la denaturalizzazione delle categorie fondamentali del capitalismo; presenti nel I° capitolo del Capitale. Di conseguenza, è stato persino in grado di proporre una «economia politica del capitalismo», sebbene Marx formuli soprattutto una critica dell'economia politica (Marx non è in alcun modo un "economista"). Marx, nel capitolo I° del Capitale, propone un concetto di "lavoro astratto" essenzialmente negativo, e che è peculiare della modernità capitalista. Il lavoro astratto consiste in una riduzione al lavoro indifferenziato, in cui non si tiene alcun conto del contenuto concreto e differenziato delle varie opere. Questo lavoro astratto, è la sostanza del valore, e regola la sintesi sociale capitalistica. In tale contesto, diventa assurdo affermare positivamente la realtà del lavoro, come se si trattasse di una realtà trans-storica; che si tratterebbe semplicemente di realizzare. Il lavoro astratto è una sostanza negativa e distruttiva, storicamente determinata. Il marxismo tradizionale, non ha percepito questa dimensione negativa e storicamente determinata della sostanza del lavoro, motivo per cui esso non propone alcuna critica del lavoro, ma piuttosto una critica dal punto di vista del lavoro.
L'aporia marxiana sul lavoro     
Detto ciò, per quanto riguarda il lavoro, in Marx esiste un'aporia. Nello stesso momento in cui egli proponeva una critica radicale dell'astrazione reale moderna del lavoro astratto, Marx rimaneva tuttavia legato, in parallelo, all'ontologia del lavoro derivante dall'Illuminismo e dal protestantesimo. Egli pertanto oscilla tra una concezione negativa e storicamente specifica del lavoro (astratto), e una concezione trans-storica del lavoro "umano", nella quale egli confonde quest'ultimo con quella che è invece una semplice «metabolizzazione dell'uomo con la natura». Questa aporia, è stata apertamente formulata in un passo dei Grundrisse: «ll lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità come lavoro in generale — è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, "lavoro" è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. [...]Così l'astrazione più semplice che l'economia politica moderna pone al primo posto, e che esprime come se fosse un rapporto molto antico valido per tutte le forme di società, appare tuttavia in questa forma astratta, come una verità pratica, solo come una categoria della società più moderna» (Grundrisse).
Per andare oltre l'aporia marxiana. Pensare con Marx, oltre Marx
Secondo Kurz, questa aporia può essere superata solo definendo il lavoro come un'astrazione reale specificamente moderna, abbandonando l'ontologia positiva del lavoro. È solo nel capitalismo che il lavoro (astratto) diventa un'universalità sociale che comprende "l'attività in generale". Nelle società premoderne, il termine "lavoro" copriva un settore di attività molto limitato. Usare il termine "lavoro" per designare l'attività produttiva nelle società pre-moderne costituisce certamente una traduzione errata, ma anche una retroproiezione anacronistica. Inoltre, la dualità marxiana del lavoro astratto e del lavoro concreto - secondo Kurz - riflette già questa aporia marxiana. Il lavoro astratto è una sorta di pleonasmo logico, poiché la nozione di lavoro è di per sé un'astrazione. Il "lavoro concreto" sarebbe pertanto una contraddizione in termini. Ma questa tensione riflette anche il fatto che il capitale riduce già il concreto in sé, a un'astrazione. Il concreto è solo l'espressione dell'universale astratto-reale. L'aporia marxiana si esprime anche allorché Marx ontologizza il valore d'uso. Secondo Kurz, il valore d'uso non è una categoria trans-storica, ma è già un'astrazione, in quanto si riferisce all'astrazione del valore. Il valore d'uso è solo «il modo materiale specifico in cui il 'lavoro astratto' esercita la sua presa sulla "materia" naturale o sociale.» (p. 52). K. Hafner specificherà nel suo articolo "Il feticismo del valore d'uso", la necessità per cui si deve denaturalizzare il valore d'uso. In tal modo, per Kurz, possiamo continuare a usare queste dualità e concetti marxiani, ma bisogna farlo con una comprensione diversa da quella di Marx. Poiché Marx stesso si muove all'interno di un'aporia che egli non è stato in grado di superare. Pensare con Marx, e oltre Marx: è questo il programma di Wertkritik.
Riabilitare la definizione marxiana del contenuto della sostanza del valore
Inoltre, in questo capitolo, Kurz tenterà di riabilitare la definizione marxiana del contenuto della sostanza del valore. La sostanza del valore (lavoro astratto) deve avere un contenuto, poiché se è solo una forma pura, non può essere quantificata: la grandezza del valore deve riferirsi alla quantità di qualcosa che possiede un contenuto, altrimenti l'idea di una quantità di valore diventa di per sé assurda. Inoltre, la definizione di contenuto della sostanza del valore, ci consente di definire le crisi da un punto di vista categoriale, descrivendo quello che consiste in un processo di de-sostanzializzazione del valore (all'aumentare della composizione organica del capitale). Come definiamo il contenuto della sostanza del valore? Marx dice che il lavoro astratto si riferisce a un puro dispendio fisiologico di «materia cerebrale, muscolo, nervo». I neo-marxisti del valore (e anche Postone) ritengono che questa dimensione della teoria marxiana non sia soddisfacente, poiché consisterebbe nell'avere una definizione trans-storica e naturalistica del valore. Ma Kurz si oppone a questi neomarxisti: il dispendio energetico indifferenziato, che definisce il contenuto della sostanza del valore, in realtà, non è qualcosa di trans-storico o di naturale, ma si riferisce piuttosto a un processo di valorizzazione storicamente ben determinato. Il fatto di ridurre l'attività produttiva umana a un dispendio energetico indifferenziato, non è specifico di nessuna società "in generale", ma, al contrario, esprime il modo in cui il valore viene valutato nella modernità capitalista.
Capitolo 4: Il concetto positivo di lavoro astratto nell'ontologia marxista del lavoro - La recensione di Isaak Rubin
Kurz inizia criticando Rubin, un teorico che è tornato alla teoria marxiana del valore. Rubin riconosce che il lavoro astratto è specificamente capitalista, ma afferma che, in una società socialista, «il lavoro socialmente egualitario» rimarrà una necessità, al fine di poter così «realizzare un piano sociale che sia almeno in qualche modo esteso» (p. 59). Secondo Rubin, il processo di astrazione nel socialismo è solo secondario. Ma in fondo Rubin non esige l'abolizione dell'astrazione del lavoro. In sostanza, egli vorrebbe stabilire una contabilità dei reciproci risultati, al fine di costituire un sistema regolato di distribuzione, nel "socialismo". In tal modo, tutto ciò rimane prigioniero delle nozioni astratte di "performance" e di "risparmio di tempo"; sebbene esse siano specificamente capitalistiche. Così facendo, si ontologizzano le caratteristiche capitalistiche, e si proiettano nel "socialismo" (che, di fatto, rimarrà un capitalismo che ignora sé stesso). Secondo Kurz, nel testo di Marx c'è già una tensione, allorché egli distingue tra socialismo (in cui la performance astratta gioca un certo ruolo) e comunismo. Anche in questo caso, il marxismo tradizionale esprime la proporia incapacità di andare oltre l'aporia marxiana; esso non vede il programma marxiano di denaturalizzazione delle categorie dell'economia borghese.
La critica del circolazionismo      
Successivamente, Kurz critica una forma di circolarismo propria del marxismo tradizionale. Il marxismo tradizionale, considera il più delle volte quella che è una vera astrazione a posteriori, la quale si realizzerebbe sul mercato, e non una vera astrazione a priori, la quale ha già luogo nella produzione. In questo senso, il marxismo tradizionale si accontenterebbe di criticare quello che è un modo di distribuzione del valore - la disposizione legale della proprietà privata, il mercato - ma non le specificità della produzione capitalistica. Per i marxisti tradizionali, è il modo di circolazione quello che definirebbe il capitalismo, nel quale perciò la produzione viene a essere pensata come una base trans-storica e ontologica; e pertanto non aperta alla critica in quanto tale. L'idea che il proletariato possa "appropriarsi" delle "forze produttive" così come sono, fa parte di questo misticismo marxista tradizionale, il quale ontologizza il lavoro. Il lavoro concreto (inteso come lavoro trans-storico) definirebbe - secondo questa ideologia - la produzione, mentre il lavoro astratto sarebbe il lavoro rappresentato nel momento in cui la merce viene venduta su un mercato, nella circolazione. Per Kurz ci troviamo di fronte a un equivoco, dato che la dualità tra lavoro astratto e lavoro concreto agisce a priori, già nella produzione. Anche Alfred Sohn-Rethel, rimanendo concentrato sulla "astrazione-scambio", sviluppa un circolarismo tronco. Secondo lui, l'astrazione reale non configura la produzione, ma piuttosto sarebbe il valore a essere semplicemente convalidato nella circolazione. In questo contesto, la "emancipazione" finirebbe per essere solo questione di pianificazione esterna, la quale non mette in discussione i fondamenti della produzione capitalistica.
La recensione di Georg Lukács
Pertanto, questo marxismo tradizionale si riferisce alla rigida ontologizzazione di categorie che sono tuttavia specificamente capitaliste. Lukács aveva già prodotto questa ontologizzazione, nella sua "Ontologia dell'essere sociale" (1973). Per Lukács, ciò che distingue l'umano dall'animale, sarebbe il lavoro. La sostanza del lavoro è pensata, ma come una sostanza positiva e trans-storica. Questa ontologizzazione del lavoro implica logicamente anche l'ontologizzazione del valore. In Lukács, il problema è semplicemente il modo di distribuzione capitalista. Ontologizzando il modo di produzione capitalistico, ci si impedisce perciò di pensare efficacemente al superamento del capitalismo.
Capitolo 5: Elementi per una critica del concetto postoniano di lavoro - Moishe Postone non va oltre l'aporia marxiana in tema di lavoro
Postone, in "Tempo, lavoro e dominazione sociale", ha l'immenso merito di riflettere sulla specificità storica dell'opera astratta. Egli afferma che il lavoro astratto è specificamente capitalistico, in quanto esso è una mediazione sociale inseparabile dal processo di valorizzazione della merce. Ma Postone, sul tema del lavoro, non tenta di andare oltre l'aporia marxiana. Nonostante il suo tentativo di denaturalizzare la categoria dell'opera astratta, egli continua, di tanto in tanto, a riferirsi alla nozione di "opera", che secondo lui sarebbe trans-storica.
I limiti della tendenza postoniana a pensare a un Marx del tutto "coerente"
Postone evocava, ad esempio, la preoccupazione marxiana per una "economia del tempo", la quale sarebbe stata presente in una società "socialista". Egli ci tiene a distinguere questa quantificazione del tempo "socialista" dalla quantificazione all'opera nel principio capitalistico del lavoro astratto. Tuttavia, in Marx una simile distinzione non esiste (per essere precisi, Marx sviluppa qui l'aporia che egli stesso non è stato poi in grado di superare). Volendo pensare alla "unità" e alla "coerenza" di Marx, e non percependo la tensione esistente in Marx riguardo alla nozione di lavoro, è Postone stesso che stavolta riproduce alcune confusioni, e lo fa nonostante la propria preoccupazione di specificare storicamente il lavoro astratto.
Capitolo 6: Il lavoro astratto e il valore come priori sociale - La questione pratica di una critica della produzione in quanto tale
Secondo Kurz, il valore e il lavoro astratto sono dei concetti legati alla produzione. Il marxismo tradizionale - che attribuisce valore alla circolazione - ontologizza la sfera della produzione e, in ultima analisi, critica solo i rapporti politico-giuridici relativi alla distribuzione. In questo contesto marxista tradizionale, per esempio, è impossibile vedere il carattere ecologicamente distruttivo del sistema di produzione capitalistico. Secondo un marxismo tradizionale, che sostiene una forma di "riappropriazione", si tratterebbe appunto di "riappropriarsi" di quelle forze produttive che si sono sviluppate nel capitalismo, facendolo semplicemente abolendo la proprietà privata. Un tale sistema "socialista", visto dal punto di vista ecologico, non sarebbe meno distruttivo. Il fatto di pensare al lavoro astratto come se fosse un apriori sociale, che ha il suo posto nella produzione, non si riferisce semplicemente a un puro dibattito teorico privo di una vera posta in gioco pratica. A livello pratico e critico, invece, questa domanda tocca dei problemi urgenti come quello ecologico, il produttivismo distruttivo, ecc.
La recensione di Michael Heinrich
Kurz criticherà Heinrich, rimproverandogli di aver definito la teoria marxiana del valore come se si trattasse di una teoria della circolazione (e non della produzione). Secondo Heinrich, sarebbe attraverso lo scambio che si realizza l'astrazione implicita nel lavoro astratto. Per lui, il lavoro astratto sarebbe un «rapporto di convalida sociale» che esiste solo attraverso lo scambio (Heinrich, 2004, p. 48). Per Kurz, la colpa di Heinrich è quella di non distinguere tra valore e valore di scambio. Il valore di scambio, è una forma fenomenica che si esprime efficacemente nello scambio. Ma il valore è invece una forma essenziale di capitale, che è già relativo alla produzione. Il valore di scambio si manifesta nel valore di scambio stesso, come categoria essenziale della produzione. Kurz pertanto rimprovera a Heinrich di non aver colto le distinzioni marxiane tra valore/valore di scambio e tra essenza/fenomeno. Ancor prima dello scambio, le merci, in quanto oggettività del valore, sono già una «semplice gelatina di lavoro indifferenziato». Marx stesso disse: «Ciò che è in comune, e che si rivela nel rapporto di scambio, o nel valore di scambio, della merce, è il suo valore». Il valore quindi emerge nella produzione (come «oggettività spettrale») per poi essere fenomenalmente esposto nello scambio. È in questa misura che il valore (e la sostanza del valore, il lavoro astratto) costituiscono un apriori sociale. La critica radicale del valore e del lavoro astratto, non è una semplice critica della circolazione, essa sarà innanzitutto una critica delle radici essenziali della produzione. Kurz non vuole riabilitare una «teoria pre-monetaria del valore» (alla maniera di Backhaus). Il denaro, è già presupposto in quanto forma di capitale, nella produzione di merci. Le analisi del I° Capitolo del Capitale sono da intendersi come delle derivazioni logiche, non storiche. Dobbiamo anche pensare a tutto quello che costituisce l'intreccio tra circolazione e produzione. Ma questo non dovrebbe impedirci però di pensare alla specificità della produzione capitalistica di valore, e al lavoro astratto in quanto sociale a priori.
Capitolo 7: Che cos'è l'astratto-reale a livello del lavoro astratto? - Una domanda guida: in che modo la logica della valorizzazione astratta incide sull'organizzazione concreta della produzione? 
La funzione del processo di produzione, come processo di formazione del valore, ha in sé qualcosa di astratto. Il lavoro concreto, in quanto «trasformazione sensibile e tangibile della materia» (p. 117), è sempre l'espressione di qualcos'altro (il valore). Il lavoro, nel processo di produzione, vale solo in quanto dispendio di forza-lavoro astratta in generale. Questo punto di vista influenza (e domina) l'organizzazione della produzione. Kurz pone una semplice domanda: quali sono le mediazioni pratiche, che permettono di decifrare il lavoro concreto come se fosse una semplice forma fenomenica di lavoro astratto?
La logica spaziale del valore
In primo luogo, a livello spaziale, l'astrazione del valore si realizza secondo il principio di una "economia disintegrata": il luogo di produzione è uno spazio a parte; funzionale e distaccato dal processo esistenziale. I momenti dissociati di questo spazio disintegrato di produzione di valore, verranno connotati come "femminili". In questo senso, la logica spaziale del valore è diventata inseparabile da quella che è una dissociazione sessuo-patriarcale. Il lavoro astratto, è strutturalmente maschile. Le disuguaglianze salariali tra uomini e donne - il mancato riconoscimento delle donne nella sfera produttiva - sono «l'espressione del rapporto di dissociazione, in quanto caratteristica essenziale del lavoro astratto stesso, e del suo spazio funzionale di gestione aziendale» (p. 122).
La logica temporale del valore
Lo spazio funzionale e disintegrato dell'azienda, corrisponde a un tempo che è a sua volta disintegrato e astratto; un tempo funzionale, specifico del lavoro astratto. Questo tempo è illimitato e indeterminato. Esso è allo stesso tempo omogeneo, assoluto e quantificabile in ore, minuti, secondi, ecc. Non dipende da eventi qualitativi (cicli naturali, periodicità della vita umana). Si tratta piuttosto di una "variabile indipendente" (cfr. Lo spazio disintegrato e il tempo astratto formano uno «spazio-tempo specificamente sociale, un continuum spazio-temporale situato lontano anni luce da tutti i bisogni umani, e da tutta la vita sociale» (p. 134).
La forma giuridica della proprietà privata deriva dalla logica spazio-temporale del lavoro astratto
Questa forma spazio-temporale del valore, è un a priori sociale, e la forma giuridica della proprietà privata non è altro che una derivata rispetto a essa. La mera messa in discussione della proprietà privata (senza mettere in discussione le caratteristiche essenziali della produzione capitalistica) non modificherebbe in alcun modo questo carattere spazio-temporale distruttivo, e non abolirebbe il principio della dissociazione del valore, basato su una forma-soggetto assai specifica (soggetto maschio-occidentale-bianco). La proprietà privata dei mezzi di produzione, è «la forma giuridica propria del sistema del lavoro astratto, e del suo specifico spazio-tempo astratto» (p. 135): esso non può essere radicalmente messo in discussione, senza mettere radicalmente in discussione la categoria del lavoro astratto.
Un triplice processo di astrazione reale e pratica
Kurz identifica quello che è un «triplice processo di astrazione reale e pratica», il quale si svolge nello spazio-tempo astratto dell'azienda:
1 - I soggetti devono astrarre dalla propria persona, perché lo scopo della loro attività (valorizzazione) è a loro "estraneo"; Non possono influenzare il contenuto della produzione, né possono far valere i loro desideri o bisogni specifici.
2 - I sudditi devono ignorarsi a vicenda. La cooperazione è una norma imposta da criteri di gestione esterni a loro. La relazione con l'altro è negativa, e ogni soggetto produttore è una monade in competizione con gli altri.
3 - I produttori devono voltare le spalle al "materiale" della loro attività. Non si identificano con gli oggetti che realizzano.
Il valore d'uso non è altro che una semplice determinazione formale dell'oggettività del valore. Questo capovolgimento è dovuto anche al carattere specifico della merce; la forza-lavoro. Il valore d'uso specifico di questa merce consiste nel fatto che essa è «una fonte di valore, e di valore maggiore di quello che essa stessa possiede». (Marx, Il Capitale, I, PUF, 1993, p. 217). Qui, il valore d'uso designa solo la produzione di plusvalore, cioè, un processo astratto staccato dal mondo sensibile.
Il contenuto oggettivo della produzione è plasmato dalla logica astratta della valorizzazione
Inoltre, il "che cosa" della produzione, il suo contenuto oggettivo, è plasmato dalla logica astratta della valorizzazione. Nessun corpo sociale «decide consapevolmente il contenuto concreto della propria produzione, secondo dei criteri di adeguatezza ai bisogni». «L'a priori del lavoro astratto, e del valore, determina anche le strutture del bisogno sociale» (p. 142). Gli imperativi della redditività e della solvibilità, condizionano l'accumulazione di "merci" che sono distruttive, velenose, ecc. Kurz riassume questa idea così: «Il sistema del lavoro astratto, rovescia il rapporto tra bisogno e produzione: non sono più i bisogni, per loro conto, a generare la produzione, bensì il fine in sé di una produzione disincarnata che genera dei bisogni sempre più negativi, costituendo un mero mezzo per essa stessa». (pag. 143)
Riduzionismo fisicista astratto-reale
La prassi dell'impresa, realizza in ultima analisi i principi astratti di un riduzionismo fisicista. Il sociale è biologizzato, e i processi biologici sono essi stessi ridotti al chimico e al fisico. «Gli esseri umani vengono trattati come gli animali e le piante, ma gli animali e le piante sono trattati come pietre o metallo». (pag. 145) Nella prassi manageriale, la "materia umana" si trova a essere ridotta a una "oggettività morta". Questo riduzionismo fisicista astratto-reale ha anche delle conseguenze ecologiche disastrose, e implica la distruzione della biosfera planetaria.
Capitolo 8: Il tempo storico-concreto del capitalismo - La duplice natura del tempo nel capitalismo e la sua dialettica
Il tempo astratto del valore, omogeneo e astorico, deve essere pensato in relazione al tempo storico-concreto che è plasmato da questa logica astratta, e che è fatto di "sviluppi" e crisi. La natura duale del tempo nel capitalismo (tempo astratto del valore e tempo storico-concreto) è legata alla natura duale della merce, che è insieme oggettività del valore e materia sensibile. Il tempo astratto rappresenta la logica temporale della valorizzazione astratta. Il tempo storico-concreto rappresenta la logica temporale della materialità mobilitata dal processo di valorizzazione, così come il correlativo sviluppo sociale. Nello stesso momento in cui il lavoro astratto è indifferente alla materia concreta che mobilita, il processo di valorizzazione spinge verso uno sviluppo determinato-materiale-concreto. Questa dialettica definisce le relazioni tra il tempo astratto e il tempo storico-concreto nel capitalismo. Queste due forme temporali sono entrambe opposte e intrecciate.
Pensare all'emancipazione
Paradossalmente, il tempo astratto dell'impresa disintegrata è il tempo che sembra essere vissuto, soggettivamente, dai soggetti produttori, mentre il tempo storico-concreto capitalistico, modellato dal fine irrazionale del "soggetto automatico", sembra diventare un vincolo oggettivo a cui gli individui sarebbero sottoposti. Secondo Kurz, l'emancipazione presuppone «la conquista del controllo collettivo sul tempo storico-concreto, proprio per abolire consapevolmente lo spazio-tempo disintegrato della gestione aziendale, e quindi per superare la logica della valorizzazione del valore». (pag. 154)
Pensare alle crisi
Il tempo storico-concreto non è solo una traiettoria di "sviluppo". È anche una traiettoria di crisi. Secondo Kurz, l'irreversibilità del processo storico rivela un confine storico assoluto. A questa domanda si dedica nella seconda parte del libro.

Seconda parte: Il fallimento della teoria marxista delle crisi basata su una concezione ontologica del lavoro. Le barriere ideologiche che impediscono l'ulteriore sviluppo di una critica radicale del capitalismo.
Capitolo 9: La "teoria del collasso" come parola arrabbiata e concetto falso nella storia della teoria marxista - Il rapporto tra la critica dell'opera astratta e la teoria delle crisi
La critica radicale delle condizioni astratte del lavoro, una teoria delle crisi.   
Il processo di valorizzazione capitalistica (all'aumentare della composizione organica del capitale) rende superfluo il lavoro, e lo espelle: di conseguenza, il capitale viene "de-sostanzializzato", il valore viene svalutato, il che stabilisce un "limite interno assoluto", che interviene non solo a livello logico, ma anche a livello di tempo storico-concreto. La teoria di Kurz relativa alle crisi capitaliste, sarà ulteriormente sviluppata in "VIES ET MORT DU CAPITALISME. Chroniques de la crise"(Lignes, 2011). Possiamo anche fare riferimento al libro di Trenkle e Lohoff, "La grande svalorizzazione" (Post-editions, 2014), per poter comprendere il fenomeno della "svalutazione" in modo logico ed empirico, anche se le posizioni di Kurz e Trenkle/Lohoff divergono su alcuni punti.
L'assenza di una teoria del collasso nel movimento operaio
Prima del 1900, nel movimento operaio non era emersa nessuna teoria del collasso. Più in generale, nel movimento operaio o nel marxismo tradizionale, una teoria sostanziale delle crisi non avrebbe potuto emergere, dal momento che, per il marxismo tradizionale, il lavoro non è la sostanza del capitale, quanto piuttosto un «trampolino di lancio ontologico verso l'emancipazione» (p. 166).
Capitolo 10: Una teoria tronca del collasso, come posizione marxista minoritaria nell'era della prima guerra mondiale: Rosa Luxemburg
Per la Luxemburg, la concezione di un confine interno al modo di produzione capitalistico si riferisce solo al modo di circolazione capitalistico. Per Rosa Luxemburg, il problema non è la produzione di plusvalore. Piuttosto, a esser problematica è la realizzazione del plusvalore (nella vendita delle merci), a causa delle "relazioni di distribuzione antagoniste" (Luxembourg, 1913). La contraddizione sta tra una produzione illimitata di plusvalore, da una parte, e dall'altra in una limitata capacità di realizzazione nella circolazione. La produzione di plusvalore, in quanto tale, non viene messa in discussione. Secondo la Luxemburg, per evitare questa crisi di realizzazione, il capitalismo cerca di espandersi sempre di più (colonizzazione, apertura dei mercati, esportazione di capitali, estensione del capitalismo) a spese delle società non capitaliste. Ma alla fine di questo processo imperialista, il capitalismo si verrebbe necessariamente a trovare di fronte a un collasso. La teoria lussemburghiana della crisi, è stata respinta da un buon numero di marxisti "ufficiali". Tuttavia, questa teoria ha il merito di pensare un limite interno rispetto al modo di produzione capitalistico, ma rimane però circolazionista, e non affronta il problema di una "de-sostanzializzazione" del valore.
Capitolo 11: Una teoria del collasso tronco, come posizione marxista minoritaria nell'era della seconda guerra mondiale: Henryk Grossmann
Grossmann sviluppa un'ontologia del lavoro, alla maniera di altri marxisti tradizionali. Di conseguenza, è incapace di sviluppare una critica categoriale delle crisi, che si basi sulla nozione di una "de-sostanzializzazione" del valore. Ciononostante, Grossmann tentò di sviluppare una teoria originale del collasso (1929). Egli insiste sulla correlazione tra l'aumento della composizione organica del capitale e la caduta del saggio del profitto. Ma per lui, il capitale variabile (lavoro vivo) può crescere indefinitamente, e questo per quanto la sua proporzione con il capitale fisico diminuisca. La crisi di Grossmann sarebbe relativa a delle semplici relazioni di grandezza all'interno della sostanza del valore, ma non a questa sostanza in quanto tale, che egli non mette in discussione. Grossmann scompone il plusvalore in "k" (consumo dei capitalisti) e "a" (fondo di accumulazione). Per Grossmann, l'aumento della composizione organica del capitale non porta alla graduale scomparsa della sostanza, ma semplicemente a un problema a livello della grandezza "k" (consumo dei capitalisti). Dopo un certo numero di anni, "k" comincerebbe a diminuire, inghiottito dalla quota di plusvalore da capitalizzare. Dal punto di vista dei capitalisti, l'accumulazione sarebbe pertanto un puro spreco. Braunthal, si faceva beffe della tesi di Grossmann, he avrebbe voluto farci credere in un «impoverimento dei capitalisti». Grossmann inverte causa ed effetto, e non percepisce la "de-sostanzializzazione", poiché si muove fondamentalmente all'interno della tradizionale ontologia marxista del lavoro.
Capitolo 12: Dalla demonizzazione di Grossmann all'estinzione del dibattito marxista su crisi e collasso
Per quanto Grossmann scrivesse nel 1929, egli venne ampiamente screditato dai marxisti tradizionali. La barbarie nazionalsocialista pose fine al dibattito. L'era dei posteri, nel secondo dopoguerra finì per portare il pensiero marxista a un considerevole punto morto. Il marxismo degli anni '70 non ha messo in discussione l'ontologia del lavoro, e ancora una volta ha mancato la questione della "desostanzializzazione". Per dirla in breve, la "critica sociale" nell'era "neoliberista" assomiglia all'integrazione del marxismo negli anni '70, ed è nell'ordine del discorso keynesiano. La Nuova Sinistra può manifestare la sua nostalgia keynesista solo sotto il regno del "paradigma neoliberista". In questo contesto, naturalmente, una critica categoriale del capitalismo e delle sue crisi rimane in gran parte impercettibile.
Capitolo 13: Soggetto e oggetto nella teoria della crisi: la dissoluzione illusoria del problema, in semplici relazioni di forza e volontà
Otto Bauer, nella sua polemica sulla teoria del collasso della Luxemburg, insisteva sul fatto che sarebbe stata la «crescente indignazione della classe operaia» a rovesciare il capitalismo. L'idea di un crollo oggettivo del capitalismo potrebbe sembrare inaccettabile ad alcuni marxisti operaisti, poiché potrebbe privare il proletariato della sua "vocazione" rivoluzionaria. Tuttavia, la Luxemburg rispose che il crollo oggettivo del capitalismo era solo una "finzione teorica"; La Luxemburg voleva semplicemente identificare una tendenza nell'evoluzione del capitalismo, ma riteneva che alla fine non si sarebbe arrivati al collasso; secondo la Luxemburg, infatti, «il proletariato interviene prima, come elemento attivo nel cieco gioco delle forze» (Critica dei critici, p. 221). Secondo Kurz, attraverso questi modi di pensare il rapporto tra crisi e rivoluzione, «il rapporto tra soggetto e oggetto rimane non chiarito» (p. 206). Kurz ricorda che Marx ha dimostrato come «il feticismo del sistema produttore di merci disattivi persino la soggettività politico-economica in quanto ragione ultima dello sviluppo socio-economico» (ibid.). Bukharin (1924) rimproverava alla Luxemburg il suo "determinismo economico", ma però poi era lui stesso che ricadeva in un altro determinismo. Per Bukharin il crollo del capitalismo è "inevitabile", ma il limite però è puramente «soggettivo, politico, costituito da un semplice scontro di volontà» (p. 208). Bukharin soggettivizza l'oggettività del crollo, e oggettiva il soggetto, dichiarando la sua azione, "inevitabile". Varga rivolse lo stesso tipo di rimproveri a Grossmann (1930): secondo Varga, le forze "oggettive", identificate da Grossmann, non causano il crollo del capitalismo; il vero crollo del capitalismo avverrebbe in Russia. Le posizioni di Bauer, Bukharin e Varga sono simili, in quanto non sono in grado di chiarire a sufficienza il rapporto soggetto/oggetto. Anche Pannekoek (1934), che critica il "determinismo" di Grossmann, ricade poi nell'oggettività del soggetto, e nella determinatezza della volontà. La volontà della classe operaia sarebbe «perfettamente determinata dallo sviluppo economico». Secondo Kurz, Pannekoek «evidenzia involontariamente l'intercambiabilità di soggetto e oggetto nella struttura feticistica della riproduzione» (p. 214). Pannekoek ribadisce, da parte sua, una metafisica della storia: la necessità sociale si realizza «attraverso l'intermediazione degli uomini», secondo lui. Grossmann, in risposta a ciò, insisteva sul fatto che solo dei "fattori soggettivi" potevano effettivamente rovesciare il capitalismo (nonostante una tendenza oggettiva al collasso). Ma anche qui, riducendo il "soggettivo" al rango di "fattore", Grossmann riproduce l'impensata confusione feticistica di Pannekoek. All'interno della Nuova Sinistra degli anni '70, l'analisi di classe si riduceva a «l'analisi empirica delle strutture di classe, e delle loro trasformazioni all'interno delle relazioni di volontà» (p. 218). L'operaismo ha intrapreso un tale programma di ricerca. In questo contesto, la critica categorica, la teoria della crisi e del collasso, vengono abbandonate in quanto «prive di significato e generali». Questa Nuova Sinistra rimane dentro quella che è una relazione non chiarita tra soggetto e oggetto.
Capitolo 14: Crisi e critica, illusione politica e dissociazione sessuale - La critica categoriale è antipolitica
Kurz ha detto che : «La politica, è essenzialmente legata allo Stato; e quest'ultimo, come categoria, e come apparato concreto, rappresenta il meccanismo di trattamento politico del capitalismo: un meccanismo che non può condurci oltre l'auto-movimento della valorizzazione, dal momento che è esso stesso, nient'altro che una funzione di questo sistema compulsivo.» (pag. 221).
Le illusioni politiche e sociologiche del marxismo tradizionale
La semplice tradizionale critica marxista, di quello che sarebbe uno "Stato di classe", esprime solo una soggettivazione sociologica. In tale contesto, le categorie di valore, lavoro, Stato, politica vengono tutte ontologizzate: «si parla di "lavoro" (trans-storico) sfruttato dal capitale, si parla di "valore (o di plusvalore) monopolizzato dai proprietari, di "Stato borghese", e così via; tutte cose che rendono possibile immaginare un "lavoro liberato", un valore "appropriato nel modo dell'autodeterminazione" oppure "equamente condiviso", uno "Stato proletario" e – eccoci qui, alla fine – una "politica emancipatrice".» (ibid.) E «In questa misura, la falsa oggettivazione risiede già nell'ipostasi di un concetto di classe ridotto alla sua dimensione sociologica, che passa per il punto di partenza obbligato di ogni riflessione (mentre Marx parte, non dal concetto sociologico di classe, ma piuttosto dalla merce, vista come cellula fondamentale del capitalismo, dalla determinazione feticistica della forma di riproduzione sociale)». (pag. 222) Il marxismo tradizionale, che non vede il rapporto interno tra politica ed economia, deve pertanto abbandonare anche la critica categoriale del capitalismo, così come deve fare rispetto alla concezione di un limite interno relativo al modo di produzione capitalistico. Il marxismo tradizionale - che si limita alla politica e alla sociologia delle classi - si accontenta così della "oggettivazione delle categorie", «facendone gli oggetti ontologici di un trattamento politico meramente attributivo». (pag. 226)
Chiarire il rapporto tra collasso ed emancipazione
Kurz ritiene che il rapporto tra crisi e critica, tra collasso ed emancipazione, debba essere chiarito: l'emancipazione è un atto cosciente, mentre la crisi o il collasso, sono un processo inconscio e oggettivato; il capitalismo può crollare senza che tuttavia ciò significhi l'emancipazione degli individui; a loro volta, gli esseri umani possono emanciparsi senza che debbano aspettare il crollo del capitalismo.
Pensare alla mediazione soggettiva dell'oggettività sociale
Si tratta perciò di pensare bene alla mediazione soggettiva dell'oggettività sociale, anziché soggettivizzare tale oggettività senza mediazione (che è poi ciò che fa il marxismo incentrato sulla sociologia delle classi). Kurz si oppone all'idea di una "necessità storica", ereditata dal sistema hegeliano (e che il materialismo storico ha poi assunto come propria). Egli rappresenta la storia sotto forma di una «nuvola di probabilità, la quale reca un'infinità di possibilità, e che rimane congelata nella realtà storica solo nel momento dell'azione». (pag. 229)  Ma, una volta che un campo storico si è formato, esso «restringe la contingenza alle possibilità che la sua matrice ha lasciato» (p. 230). Ecco che così ci troveremo pertanto ad avere a che fare con due distinte nubi di probabilità: «la nube della storia umana, a partire dalla quale si condensano campi, o formazioni storiche» e la nube secondaria, quella «interna a questo o a quel campo, e che seguendo lo schema della sua matrice specifica»(ibid.). La specificità del campo capitalistico consiste nel fatto che esso ha una matrice che implica, «attraverso l'esecuzione dei suoi modelli di azione», una dinamica interna contraddittoria capace di innescare un processo di collasso oggettivo. Si tratta tuttavia di articolare la contingenza di tale campo d'azione secondo quella che è la logica oggettiva delle categorie, articolando così soggettività e oggettività, critica e crisi, emancipazione e crollo:  Kurz afferma la contingenza dell'emergere del capitalismo (evoca la "Grande Peste", vale a dire, la rivoluzione militare delle armi da fuoco, le quali hanno comportato un salto di qualità e una serie di condensazioni di azioni e decisioni, ma che tuttavia non "pre-programmano" il capitalismo successivo); il campo capitalistico avrebbe già potuto essere interrotto in una fase o nell'altra (le guerre dei contadini tedeschi nei secoli XV e XVI, i movimenti sociali dei secoli XVIII e XIX, il movimento operaio alla fine del XIX secolo). In tutti questi punti di rottura, «la nube delle probabilità si è condensata in delle decisioni di fatto che, sebbene non siano state affatto giocate in anticipo, hanno tuttavia giocato ogni volta a favore dell'irrigidimento e dell'estensione del campo capitalistico, sulla base della matrice messa in atto» (p. 233); La logica delle categorie, resosi autonome, ha potuto così continuare. Kurz riassume le cose: «Pertanto, la tendenza al collasso viene oggettivamente determinata dal fatto stesso che gli uomini orientano soggettivamente le loro azioni secondo la matrice capitalistica che li preesiste; in altre parole, essi non cessano mai di portare avanti il sistema del lavoro astratto, e la sua forma-valore, fino a quando non si imprigionano dentro di esso, per così dire. Quanto più i soggetti agiscono, lottano e si muovono senza mettere in discussione il sistema del lavoro astratto che costituisce la matrice di questa azione, tanto più essi mettono in moto il meccanismo del "collasso automatico"» (p. 234). Pertanto, riconoscere tale tendenza al collasso automatico, non è fatalistico: rappresenta la consapevolezza di questo aspetto automatico che dovrebbe invece rendere possibile il superamento del campo capitalistico, e non la falsa soggettivazione delle categorie.
La necessaria critica della forma-soggetto
In questo contesto, la critica categoriale deve impegnarsi anche nella critica della forma-soggetto. Questo soggetto, è il soggetto maschio-occidentale-bianco dell'era moderna. La forma-soggetto implica una dissociazione sessuale-patriarcale e razzista. Il valore, è strutturalmente maschile e occidentale, e dissocia il "femminile" e il "non occidentale" dalla sua matrice. La distruzione pratica della matrice categoriale, implica l'abolizione della struttura dissociativa della forma-soggetto. La falsa soggettivazione delle categorie nel movimento operaio marxista, implica naturalmente l'apologia di questa forma-soggetto. Qui, la "classe operaia" è un soggetto di lavoro astratto, ed è pertanto un soggetto maschio-occidentale-bianco. Nel contesto, il concetto di lotta di classe «appartiene all'universalismo androcentrico» (p. 238). Per riassumere, la critica radicale della sostanza negativa del lavoro astratto implica una teoria del collasso, nella quale viene articolata (senza confonderle) crisi e critica; ma implica anche una critica radicale della forma-soggetto, e della sua struttura maschile-occidentale-bianca.
Capitolo 15: Il concetto quantitativo di lavoro astratto, e il rimprovero del "naturalismo"
In quest'ultimo capitolo, Kurz ribadisce la legittimità di una nozione di sostanza in quanto «dispendio energetico indifferenziato». Contro Rubin, Heinrich e Postone, egli sostiene che una tale nozione non ha nulla di naturalistico, dal momento che essa è, per definizione, determinata socio-storicamente (è assurdo parlare di dispendio fisiologico di lavoro, in una società pre-moderna). Inoltre, se facciamo a meno di questa nozione, finiamo per percepire una sola forma di valore (senza sostanza), il che rende assurda in sé l'idea di una quantità di valore. Inoltre, tale formalismo regredisce, al punto da finire in un circolazionismo - o relazionismo - che ontologizza le caratteristiche essenziali della produzione. In questo libro, siamo stati in grado di immaginare tutte le insidie di una simile ontologizzazione.

Benoît Bohy-Bunel - Pubblicato il 30/10/2019 su  "Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme" -

martedì 29 luglio 2025

Il Ritorno della "Colonna Durruti" ?!!???

Il "Wall Street Journal", ha pubblicato un articolo firmato da Firas Hamdan, palestinese di Gaza ed ex detenuto nelle prigioni di Hamas, oggi membro delle Popular Forces, una milizia che è nata dentro quell'l’inferno per combattere chi lo governa.
Le sue parole sono chiare, nitide: «Hamas ci ha distrutto più di quanto abbia fatto qualsiasi bombardamento.»
No, a dire questo, non è un "Colono" e non è nemmeno lo Stato di Israele; non ce lo dice nemmanco il Mossad.
Lo dice un uomo che ha vissuto negli scantinati di Rafah, quelli dove si tortura e si viene torturati, e dove i civili non possono andare a rifugiarsi.
Il punto non è di sapere se Hamas sia crudele. Questo lo sa anche il mio barbiere, che pensa che Gaza sia un tipo di tessuto.
Il punto è che una parte sempre più crescente della popolazione di quella Striscia comincia a dirlo, oltre che a pensarlo.
Solo che qui, da queste parti, quella voce non la vogliamo ascoltare.
Poiché nel momento in cui il nemico di Israele e il boia dei palestinesi coincide, ecco che allora gli slogan andrebbero riscritti. Ma ammetterlo costa troppo, soprattutto in termini di "like". Tuttavia non c'è certo da illudersi. Nessuno sta parlando di una rivoluzione a Gaza. Il popolo, quello che oggi - in silenzio - comincia finalmente a voltare le spalle ad Hamas, è quello stesso popolo che Hamas, lo ha eletto a proprio rappresentante, lo ha sostenuto, e per anni lo ha venerato come martire. Questo "popolo" è costituito da quegli stessi individui che, in massa, hanno sputato sui corpi dei soldati israeliani trascinati per le strade, gli stessi che hanno fatto a pezzi i cadaveri nel mentre che si filmavano, che hanno preso parte a razzie e stupri, che hanno nascosto nelle loro case gli ostaggi, e che quando qualcuno è riuscito a fuggire, lo hanno ripreso e riconsegnato ai carcerieri. Non esiste un popolo innocente in blocco, allo stesso esatto modo in cui non esiste alcun popolo colpevole in blocco.     
Le immagini non mentono: la complicità è stata ampia, feroce, orgogliosa di esserlo.
Eppure, è da qui che bisogna ripartire. Perché è questa la materia che abbiamo: sporca, compromessa, devastata, ma reale.
Non esistono popoli perfetti, esistono popoli che cambiano. E se i gazawi iniziano – anche fosse solo per rabbia, per stanchezza o per fame – a rompere il tabù dell’intoccabilità di Hamas, il rumore che proviene dalla frattura di questa crepa che si rompe, va ascoltato, e non ignorato: a maggio, nel mezzo del Ramadan, dei giovani gazawi hanno distrutto delle postazioni di Hamas. E questo, dopo che a marzo, una rivolta nella zona di Nuseirat era stata repressa nel silenzio più totale. E dopo che a febbraio, tre donne erano state frustate in pubblico per “condotta inappropriata”.
Altrove ci avrebbero fatto una serie Netflix. Sui nostri media, invece gli eventi sono diventati dei "semplici dettagli che non confermano né smentiscono la linea editoriale".     
E questo perché non c'è spazio per quel minimo di complessità nella quale un popolo può soffrire e opprimere allo stesso tempo.
E allora meglio ignorare ogni segnale, facendo finta che siano solo rumori di fondo, deviazioni, o incidenti di percorso.
Il mondo - quello che finge di avere a cuore i palestinesi - continua a guardare altrove.
Troppo impegnato a dare la caccia agli ebrei, e a contare quanti gradi di separazione dividono ciascun ebreo dal governo Netanyahu, in modo che così possano giustificare ogni attentato antisemita.
E intanto, laggiù dentro, chi osa ribellarsi rischia la vita. Mentre noi, qui fuori, continuiamo a dire che quello che stiamo facendo, lo facciamo solo per loro!
Ma i segnali ci sono. Eccome se ci sono. Ma voi? Voi, dove state guardando ?

fonte: @Alex Zarfati

domenica 27 luglio 2025

Esperienze inesperite…

Dostoevskij e Blanchot: l'istante della loro morte
- Lo scrittore russo si salvò dal plotone di esecuzione dello zar; il francese, dal muro nazista. Ma l'esperienza estrema di entrambi, ha trovato nella parola un luogo per abitare, seppure instabile, mostrandoci attraverso la letteratura che tutto può finire; e, paradossalmente, ricominciare -
di João Paulo Ayub Fonseca

  L'istante dell'incontro tra la vita e la morte, o meglio, della morte stessa con la morte che viene da fuori, è intraducibile. Maurice Blanchot, membro attivo della Resistenza francese, nel 1944, sotto l'occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale, fu testimone di quello che per lui divenne allora un istante senza fine. Lo stesso era accaduto quasi cent'anni prima a Dostoevskij, dopo essere rimasto intrappolato dal potere sovrano dello zar Nicola I. Davanti a Blanchot, il plotone d'esecuzione nazista; per Dostoevskij, le armi allineate delle truppe dello zar. Nel 1849, a causa della sua partecipazione al cosiddetto "Circolo Petrashevskij" (un gruppo di intellettuali rivoluzionari radicali riuniti attorno alla figura di Michail Petrashevskij), Dostoevskij era stato arrestato. Accusato di aver cospirato contro l'ordine politico dello zar Nicola I, si trovava nella fortezza russa dei Santi Pietro e Paolo, a San Pietroburgo, quando gli venne comunicata la sua condanna a morte, per fucilazione, in una pubblica piazza. Ma poi, nel momento in cui nella piazza era tutto pronto, l'esecuzione dei prigionieri venne sospesa. Come si scoprì dopo, si era trattato di una grande farsa orchestrata dallo stesso Nicola I, il cui scopo era quello di trarre profitto politico sia dalla spietata punizione comminata ai gruppi rivoluzionari sia, allo stesso tempo, dal gesto finale di sovrana benevolenza. Al momento dell'esecuzione, le armi erano già puntate in direzione dei prigionieri, e all'improvviso un rullo di tamburi: lo zar ordinò il ritiro delle truppe, e concesse la grazia. Tutto questo sarebbe stato poi convertito in esilio, in isolamento e nei lavori forzati in Siberia, laddove Dostoevskij sarebbe rimasto ininterrottamente per dieci anni. Mentre invece Blanchot, da parte sua, sfuggì per un pelo all'esecuzione sommaria per mano dell'esercito nazista. Paradossalmente, il fatto di non essere stati passati per le armi, riuscendo a sfuggire alla loro sorte all'ultimo momento, li rese per sempre prigionieri di quegli effetti che furono provocati dalla certezza di quell'istante dove la sensazione dell'incontro con la morte era rimasta presente. Per i due scrittori, l'impossibilità della rappresentazione di un tempo che è in qualche modo fuori dal tempo, ha finito per stimolare, attraverso la narrazione letteraria, la testimonianza di una profonda trasformazione. Il carattere testimoniale, materializzatosi nella scrittura, della registrazione concreta di un evento/soglia, diventa responsabile della sopravvivenza di ciò che - non potendo esistere - trova nella parola un luogo di dimora, sebbene instabile e per sempre provvisorio. [*1] 
    Ci sono almeno due dei suoi romanzi, "Delitto e castigo" e "L'idiota", in cui Dostoevskij prende in prestito il discorso dei suoi personaggi per provare, ancora una volta, a narrare l'esperienza dell'imminente esecuzione. Raskolnikov, in "Delitto e castigo": «"Dove ho mai letto", pensò Raskòlnikov, proseguendo il cammino, "dove posso mai aver letto di quel condannato a morte che, un’ora prima dell’esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l’abisso, l’oceano, la tenebra eterna, la solitudine eterna e l’eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l’eternità, ebbene, preferirebbe vivere così piuttosto che morire in quell’istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità!"» [*2] Il riferimento letterario di Raskolnikov, vale a dire, quello del protagonista del romanzo "L'idiota"; il principe Myshkin , personaggio che narra un'esperienza simile, e quello dello stesso Dostoevskij, il quale, nel momento della sua condanna si dibatté nel mistero della morte, risale a un libro di Victor Hugo, "L’ultimo giorno di un condannato a morte". Questo fatto cruciale nella vita dello scrittore russo, costituisce un altro di quei casi in cui la letteratura, e la sua capacità di dire l'indicibile, presta la propria voce in quel momento acuto nel quale il reale traumatico – per Dostoevskij, "un terrore mistico" – produce uno strappo in quella che è la rete simbolica e immaginaria del soggetto. Secondo il biografo Joseph Frank: «Liov, che era con lui sul patibolo, scrisse tra il 1859 e il 1861 che "Dostoevskij era piuttosto agitato, ricordava 'L'ultimo giorno di vita di un condannato' di Victor Hugo e, avvicinandosi a Spiechniev, aveva detto: 'Nous serons avec le Christ'"». In una lettera dal carcere al fratello Mikhail, poco dopo l'esito della macabra farsa al centro di piazza Semenovsky, e la conseguente conversione della sentenza, Dostoevskij dice: «Quando guardo indietro al mio passato e penso a quanto tempo ho sprecato per niente, a quanto tempo ho sprecato per l'inutilità, gli errori, l'ozio, l'incapacità di vivere; quanto poco l'ho apprezzato, quante volte ho peccato contro il mio cuore e contro la mia anima, ecco che allora il mio cuore sanguina. La vita è un dono, la vita è felicità, ogni minuto può essere un'eternità di felicità! Si jeunesse savait! Ora, mentre cambio la mia vita, sono rinato in una nuova forma, Fratello! Giuro che non perderò la speranza e manterrò pura la mia anima e il mio cuore. Rinascerò in meglio. Questa è tutta la mia speranza, tutta la mia consolazione! La vita è vita ovunque, la vita è in noi stessi, non all'esterno. Avrò degli esseri umani intorno a me [in Siberia], e di essere un uomo tra gli uomini e di continuare ad esserlo sempre, di non perdermi d'animo e di non arrendersi, nonostante la disgrazia che può capitare: questa è la vita, questo è il suo compito, ne ho preso coscienza. Questa idea è entrata nella mia carne e nel mio sangue. Ma ho ancora il mio cuore e la stessa carne e lo stesso sangue, che può anche vivere, soffrire, desiderare e ricordare, e che, in fondo, è anche vita. On voit le soleil!»[*3]. Joseph Frank non manca di far notare che quest'ultima frase, «Tu vedi il sole», si riferisce a un frammento dell'opera di Hugo, allorché il "condannato", in attesa dell'esecuzione sulla ghigliottina, riafferma la vita di fronte alla sua imminente morte. Fu questa, una delle voci che invasero la mente dello scrittore nel momento dell'esperienza della propria condanna a morte. L'ultimo libro di Maurice Blanchot, "L'istante della mia morte", è stato pubblicato per la prima volta nel 1994, cinquant'anni dopo la sua «esperienza inesperita» [*4] di pre-morte. L'evento narrato avviene nel contesto dell'arrivo dei paesi alleati sul suolo francese, e delle successive sconfitte dell'esercito tedesco, che combatté «invano con una ferocia inutile». Un "giovane" viene catturato dai soldati guidati da un "tenente nazista" per poi essere posto contro un muro bianco, sotto il bersaglio delle armi che erano in attesa dell'ordine di sparare. Tuttavia, l'intrusione dei rumori di guerra all'interno della scena, la cui durata infinita indugiava nel cuore del personaggio, ne ha posticipato l'esecuzione: il rumore della battaglia ha disturbato la determinazione omicida del "tenente nazista", distogliendo così la sua attenzione, al punto che il giovane riuscì finalmente a scappare.

«Io lo so, io avrei saputo che colui che i tedeschi già avevano nel mirino, aspettando solo l'ordine finale, provò allora un sentimento di straordinaria leggerezza, come una specie di beatitudine (nulla, però, che assomigliasse alla felicità); una gioia sovrana? L'incontro della morte con la morte? Eviterò di analizzare questa sensazione di leggerezza. All'improvviso, forse era diventata invincibile. Morto; vale a dire, immortale. Forse l'estasi. O meglio il sentimento di compassione per l'umanità sofferente, la felicità di non essere immortale o eterno. D'ora in poi, fui legato alla morte, da un'amicizia clandestina. [...] Rimaneva però - come nel momento in cui la fucilazione era imminente - la sensazione di leggerezza che non riuscirò a tradurre: liberato dalla vita? L'infinito che mi si apriva? Né felicità né infelicità. Né assenza di paura e già allo stesso tempo l'oltre. Lo so, immagino che questa sensazione inanalizzabile abbia cambiato ciò che rimaneva dell'esistenza. Come se la morte fuori di lui potesse ormai combattere solo la morte in lui. "Sono vivo. No, sei morto".»[*5]

   Nel racconto di Blanchot, l'atto di "iscrivere" il momento della pre-morte espone quella che è una soglia insuperabile e indissolubile tra testimonianza e finzione. Alla voce del narratore, dell'uomo che ricorda molti anni dopo ciò che ha vissuto, si affiancano, via via, l'esperienza narrata, il giovane sotto tiro dei soldati schierati [*6], e l'assenza dell'autore stesso, che sta rivolgendo al pubblico la sua scrittura letteraria. L'uomo sa – "forse", sa ancora cosa è successo – nello stesso momento in cui egli immagina («lo so, immagino...») cosa sarebbe accaduto nella pelle del giovane. Il contenuto testimoniale degli scritti di Blanchot ci fa capire che sia il giovane, che era realmente una volta, e che l'"altro" che è ancora sono - malgrado un'irrimediabile discrepanza - condannati a riflettere l'uno sull'altro... all'infinito. L'uno non potrà mai sostituire l'altro; e la sintesi congiuntiva operata dall'"io" dovrà sempre fallire: «Sono vivo. No, sei morto». Nel corpo della narrazione, il dis/incontro di queste linee temporali  e l'incapacità di decidere, a volte su una (fiction), a volte su un'altra (auto-fiction), testimonia l'irriducibile presenza di «un sentimento non analizzabile». Qualcosa di indistinto, un "istante indivisibile" che resiste al cuore di ogni atto testimoniale, e che, come suggerisce Derrida, rimane tra le righe del testo e alimenta il gioco indeterminato, indecidibile, che attraversa la scrittura di Blanchot. Ciò che accadde non passa nella mente dello scrittore: «Rimane solo il sentimento di leggerezza, che è la morte stessa o, per dirla più precisamente, l'istante della mia morte d'ora in poi sempre in istanza». La risonanza tra i racconti di Dostoevskij e quelli di Blanchot è incalcolabile, e il primo sostiene anche l'osservazione che «il sentimento inanalizzabile ha cambiato ciò che rimaneva della sua esistenza». Attraverso la scrittura, l'unicità di ciascuno dei due eventi estrapola l'istante per sempre irraggiungibile e raggiunge, almeno, la capacità di un detto che può essere universalizzato. Un possibile incontro tra i due avviene nella misura in cui l'intraducibile richiede, come condizione di possibilità, lo sforzo della sua traduzione.

- João Paulo Ayub Fonseca - 13/6/2025 fonte: Outras Palavras -

Note:

[1] – Si veda la riflessione di Jacques Derrida sulla narrazione di Blanchot: "Paraggi" (Jaca Book)

[2] – Delitto e castigo.

[3] "Frank, Joseph. "Dostoevsky: A Writer in His Time "

[4] – Concetto sviluppato da Jacques Derrida nella sua lettura seminale del testo di Blanchot: «Cosa può significare un'esperienza invissuta? Come provarlo? In breve, morire diventerà possibile, tanto quanto è proibito. Ogni essere vivente ha un rapporto impossibile con la morte; al momento della morte, l'impossibile diventerà possibile come impossibile».  La lettura che segue è ispirata al saggio di Derrida.

[5] – L'instant de má mort. Maurice Blanchot. Parigi: Gallimard, 2002.

[6] All'inizio della narrazione i soldati vengono nominati come soldati tedeschi. Tuttavia, poco dopo la sospensione dell'ordine di sparare sul giovane, il lettore viene "informato" che in realtà si trattava di un esercito russo, guidato dal generale Vlassov, un traditore che si unì ai tedeschi durante la guerra. In un francese "anormale", uno degli uomini in fila concede la salvezza al giovane, facendogli segno di sparire dopo aver detto: «Noi, non tedeschi, russi». Un altro tradimento: questa volta il soldato russo tradisce sia il "tenente nazista" tedesco che il generale Vlassov.

sabato 26 luglio 2025

Ritornare a Camus !!

In Francia, la Sinistra deve abbandonare Sartre, e riscoprire Camus
- Pierre-André Taguieff *** -

«Un uomo che è divenuto cosciente dell’assurdo, rimane legato per sempre a una tale consapevolezza.»
(Albert Camus, "Il Mito di Sisifo") 

Chamfort disse una volta che: «In Francia, chi appicca il fuoco è lasciato a riposo, ma chi dà l’allarme è perseguitato». Suonare l’allarme significa avvisare di un pericolo, dopo aver fatto un lavoro da risvegliatori, che consiste nell’essere vigili, cioè attenti ai segni rivelatori o annunciatori. Ma c’è vigilanza e vigilanza, c’è una vera vigilanza e una falsa vigilanza. I veri vigilanti, coloro che possono essere considerati come quelli che danno l’allarme, quando indicano minacce ritenute trascurabili o inesistenti (islamismo, immigrazione incontrollata, antisemitismo, ecc.) dal politicamente corretto, vengono regolarmente etichettati come “estrema destra”, squalificati come “reazionari”, denunciati come “razzisti” o “fascisti”, ecc. È così che si creano gli infrequentabili e i paria. Per i nuovi inquisitori e informatori che si identificano con il campo “antifascista” e “progressista”, non si tratta più di essere “assolutamente moderni”, ma di essere “del nostro tempo”, in cui tutto cambia, si scambia e si mescola. Il “nuovo mondo” è segnato dalla normalizzazione delle “identità ibride” e dall’idealizzazione delle frontiere aperte (“siamo tutti migranti”). Dobbiamo quindi assomigliare agli ultimi arrivati, quelli che, secondo il sistema mediatico, dovrebbero popolare la suddetta epoca e assomigliare tutti dentro società sempre più “fluide” o “liquide”. Ma l’epoca è wokista. Questa è la sua morale e la sua politica, la cui dimensione religiosa o gnostica è stata riconosciuta e analizzata dal filosofo Jean-François Braunstein. Quindi chi non è wokista non può che essere un residuo del “vecchio mondo”, e quindi “di destra” o “di estrema destra”. La vigilanza wokista illustra una forma moralizzante o virtuosa di cecità militante, quella che si trova oggi nei circoli intellettuali, mediatici e politici che pretendono di essere “di sinistra”, veramente e totalmente. Costituiscono le truppe della sinistra estrema emergente, una sinistra post-comunista (o post-marxista) che si è convertita alla politica delle identità o, più precisamente, delle “minoranze”, e che io chiamo “sinistra di sinistra”, una sinistra che non ha altro progetto che la lotta contro l’“estrema destra” in ogni angolo delle società democratiche occidentali. Questa ossessione anti-destra porta ad atteggiamenti paranoici: coloro che hanno professionalizzato la caccia all’“estrema destra” finiscono per inventarla quando non ne trovano traccia. In questo modo, scambiano le loro fantasie con la realtà che ritengono intollerabile. Ciò che colpisce, soprattutto negli ambienti della nuova sinistra intellettuale, è la diffusione di questa patologia cognitiva della cecità ideologica, legata a uno stile di attivismo che pretende di fare “resistenza” piuttosto che rivoluzione. Può essere analizzata come una forma di cecità intenzionale, molto simile alla servitù mentale intenzionale, come ha visto chiaramente il filosofo Yves Charles Zarka. Si tratta di un nuovo tipo di cecità ideologica, post-comunista, generata dalla combinazione di un certo numero di cause, vecchie o emergenti (antirazzismo, antifascismo, anticapitalismo, antimperialismo, anticolonialismo, antisessismo, antisionismo, antislamofobia, antioccidentalismo o anti-esperofobia, ecc.). La “cultura dell’annullamento” è la codificazione di tutto ciò: non parliamo con gli “innominabili”, li denunciamo per escluderli, per porre fine alle loro sofferenze. La cultura della cancellazione ha scacciato la cultura del dibattito, ma non senza prima criminalizzarla. L’intolleranza e il fanatismo ideologico si sono così radicati sia nella sfera culturale che in quella politica, dove sono diventati attraenti. Questa cecità, che colpisce soprattutto i cosiddetti intellettuali “progressisti”, in particolare i giovani accademici e gli studenti coinvolti in gruppi di protesta più o meno radicali (cioè intransigenti e violenti), è l’effetto della totale sottomissione alla nuova ideologia dominante, che è intersezionalista, decoloniale, identitaria e razzista, neo-femminista e pro-LGBTQIA+, islamofila e anti-islamofobica, pro-palestinese e anti-sionista. La stupidità ideologizzata, con i suoi discorsi infiorettati e sofisticati, non ha smesso di diffondersi dopo l’ondata decostruzionista che le ha dato le sue patenti di nobiltà. È così che si creano nuove generazioni di “utili idioti”, che si atteggiano a teorici dalla “faccia truce” che conoscono il senso ultimo della Storia. Accecati dalle loro pretese e dalla loro vanità, questi nuovi “idioti” strumentalizzabili politicamente sono soprattutto utili agli islamisti che, grazie a loro, hanno acquisito uno status di vittime pur assumendo il ruolo di “combattenti della resistenza”. La trasformazione dei terroristi islamici di Hamas in “combattenti della resistenza” ne è la testimonianza. Questa è la principale eredità ideologica e mediatica del mega pogrom del 7 ottobre 2023, quella conservata dalla sinistra affascinata dalla “resistenza armata” dell’organizzazione jihadista antiebraica, le cui azioni criminali ora illustrano il terrorismo “buono”, quello che gli intellettuali di sinistra applaudono fin dagli anni Cinquanta. Queste miscele di nazionalismo e islamismo, dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino alle organizzazioni palestinesi come Hamas e la Jihad islamica, fanno ancora presa sui movimenti di estrema sinistra come l’ANP e La France Insoumise (LFI) in Francia, che proiettano su quelle organizzazioni terroristiche il loro desiderio ideologizzato di liberazione o emancipazione dei popoli oppressi, cioè, in ultima analisi, il loro desiderio di rivoluzione mondiale. Hanno sostituito il proletariato, troppo “bianco” e “reazionario” per i loro gusti, con i “resistenti” islamisti e più in particolare con gli islamo-palestinesi. Questo tipo di angelismo rischia di trasformarli in compagni di viaggio, o addirittura in complici più o meno consapevoli, dei gruppi terroristici più sanguinari. La sinistra raccoglie pietosamente l’eredità di Sartre, quella della prefazione a I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, mentre noi dovremmo urgentemente rivisitare quella di Camus.

- Pierre-André Taguieff - Pubblicato il 26/3/2024 nella rubrica «Tribune» de “Le Figaro” -

*** - Pierre-André Taguieff (1946) è un filosofo, sociologo e storico delle idee, ricercatore presso il CNRS. Autore di numerosi saggi politologici, sociologici, di storia delle idee e di teoria della falsificabilità. Nei suoi studi si è occupato di razzismo, antisemitismo e ha analizzato le ideologie legate all’estrema destra francese ed europea. È noto anche per i suoi lavori pioneristici sul populismo, sulla cosiddetta “Nuova Destra” e sul Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen. Tra le sue innumerevoli pubblicazioni: La forza del pregiudizio. Saggio sul razzismo e sull’antirazzismo (il Mulino, Bologna 1994); Sulla Nuova Destra. Itinerario di un intellettuale atipico (Vallecchi, Firenze 2003); Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti (Raffaello Cortina, Milano 1999); Il progresso. Biografia di un’utopia moderna (Città Aperta, Troina 2003);Cosmopolitismo e nuovi razzismi. Populismo, identità e neo-comunitarismi (Mimesis, Milano 2003); L’illusione populista (Bruno Mondadori, Milano 2003); L’antisemitismo (Raffaello Cortina Editore, Milano 2016). Tra i suoi ultimi lavori in francese: Le nouvel opium des progressistes: Antisionisme radical et islamo-palestinisme (Gallimard, 2023); Les «Protocoles des Sages de Sion». Des origines à nos jours (Hermann, 2024). -

Plurilinguisti e Non…

 

Negli anni della seconda guerra mondiale, quando Hermann Broch scrive "La morte di Virgilio", Gianfranco Contini sta preparando la sua edizione delle Rime di Dante. A partire da questo lavoro, Contini iniziava a sviluppare una delle sue principali idee critiche: la contrapposizione, in letteratura, tra "plurilinguismo" e "monolinguismo", che egli traduce vedendola come contrapposizione tra Dante e Petrarca; vale a dire, come una contrapposizione tra quello che è un movimento della creazione, all'interno del linguaggio, che privilegia la trasformazione, e un movimento della creazione che invece privilegia il mantenimento; se non addirittura la circoscrizione lessicale, sintattica e ritmica. Il romanzo di Broch, pubblicato nel 1945 – sei anni prima della morte dell'autore – viene realizzato sotto l'influenza decisiva di James Joyce e del suo "Ulisse" (più plurilingue dell'Ulisse c'è solo Finnegans Wake, che è del 1939!!).

Partendo dal romanzo di un irlandese che salva un personaggio greco, Broch – austriaco – realizza, da parte sua, un romanzo in cui viene salvato un personaggio latino: il poeta occidentale per eccellenza, Virgilio, colui che – per dirla con le parole di T. S. Eliot – rende possibile il canone anche per chi non lavora in una lingua che parta dalla matrice latina virgiliana. È possibile dire che - per Broch - senza l'intervento di Dante, Virgilio non esisterebbe. Non esisterebbe, senza l'intervento della Divina Commedia che porta avanti l'Eneide. A insistere su questa relazione, è lo stesso Broch, e lo fa a partire dalle epigrafi del romanzo: le prime due dell'Eneide, e la terza e ultima della Divina Commedia: nell'Inferno, canto XXXIV, proprio quando Dante parla di Virgilio, «Lo duca ed io per quel cammino ascoso / Entrammo a ritornar nel chiaro mondo» (qui, è molto interessante l'uso dantesco della parola "Duca": Dal latino "ducem", "dux", che significa "colui che guida", passando attraverso il basso greco (o bizantino) "doúka" o "doúkas", "capo militare di una città o di una provincia").

fonte: Um túnel no fim da luz

venerdì 25 luglio 2025

Il Marx essoterico e l’antisemitismo a sinistra…

La sinistra e l'antisemitismo: uno sguardo indietro sull'impensato, con Misrahi
-di Rivka DLB -

Attualità di Misrahi
A partire dal 7 ottobre, si è visto, a sinistra, riemergere sulla scena la presenza di questa "questione ebraica", attraverso le nozioni antitetiche di "sionismo" e di "antisionismo". Sia dall'una che dall'altra parte, pur di essere "dalla parte giusta della storia", o per seguire un'agenda politica che va ben oltre il conflitto che ne consegue, si è cominciato ad adottare delle posizioni insostenibili . Sono anche rimasta scioccata dalla mancanza di empatia di una certa parte della sinistra radicale all'indomani del pogrom del 7 ottobre, e dalla sua ambivalenza nei confronti di Hamas, e questo in nome di una lotta de-coloniale nella quale Israele incarnerebbe un progetto imperialista e coloniale. Come diceva a suo tempo Adorno, «il compito, quasi impossibile da risolvere, è quello di non lasciarsi rendere stupidi né dal potere altrui, né dalla propria impotenza». [*1]. Non si tratta più tanto di pensare al nazismo, quanto piuttosto di mettere in discussione la presenza di un pensiero odioso e anti-umanista esistente all'interno di quei partiti che tuttavia sostengono l'universalismo dei valori umanistici. Poiché, a suo tempo, ha osato affrontare quella che veniva allora considerata una "negazione della sinistra" (p. 15) - vale a dire, "l'antisemitismo di sinistra" -  il libro di Misrahi del 1972,  su "Marx e la questione ebraica" [*2], oggi potrebbe avere ancora qualcosa da dirci. Innanzitutto, quello che l'autore chiama "antisemitismo di sinistra" ha diverse caratteristiche: clandestino, in teoria sembra essere impossibile, dal momento che contraddice i principi stessi della sinistra. «Ma, tuttavia, ciò che è contraddittorio non è per questo impossibile». Ecco perché Misrahi intende attaccarlo, e lo fa con l'aiuto di una critica radicale, che lo porta a risalire alla fonte stessa dell'ideologia di sinistra, vale a dire al marxismo e, soprattutto, allo stesso Marx e al suo testo del 1844, "Sulla questione ebraica" [*3]. Tale testo, venne pubblicato come risposta all'intellettuale socialista hegeliano tedesco Bruno Bauer, il quale, avendo studiato egli stesso l'argomento, aveva prodotto un testo innegabilmente antisemita. E - aggiunge Misrahi - anche l'antisemitismo del testo di Marx non ha influenzato il marxismo nel suo complesso. Vedremo più avanti di cosa si tratta. Tra tutte le ragioni che mi hanno indotto a ritornare su questo libro, c'è soprattutto il problema che viene posto da Misrahi, e che io riformulo sotto forma di due domande: 1) la "questione ebraica" rimane attuale, rimane attuale in quanto essa getta luce su qualcosa di impensato, ossia, il modo in cui la sinistra pensa l'ebraismo nelle nostre società contemporanee,  tenendo conto sia degli ebrei della diaspora che dello Stato di Israele? 2) E in che modo la sinistra ha integrato gli ebrei nella lotta di classe? Queste domande ci spingono a tornare all'articolazione esistente tra la sinistra e l'antisemitismo; un'articolazione questa, che ancora oggi rimane un argomento raramente presente negli studi storici e filosofici di sinistra. Pertanto, con Misrahi, si tratta di porre l'accento su qualcosa di impensato - che finirebbe così per essere più simile a un'aporia - per poi, con l'aiuto della ragione, combatterlo efficacemente. Inoltre, a partire dalla mia lettura, sono emerse due nuove domande: esiste un antisemitismo che sarebbe proprio del socialismo e inerente al comunismo? Oppure si tratterebbe solo di qualcosa di accidentale, che per quanto presente nelle persone di sinistra, lo è comunque in modo incoerente e tronco, come se, intrinsecamente, la sinistra non potesse essere antisemita? Per dirla in altro modo: 3) esiste una cosa come l'antisemitismo di sinistra, ovvero, per dirlo meglio, esiste, a sinistra, l'antisemitismo? Prima di iniziare una lettura critica del libro di Misrahi, riassumiamolo in poche parole: "Marx e la questione ebraica" cerca di decriptare le ambiguità filosofiche e storiche del rapporto esistente tra la sinistra e quella che viene chiamata "la questione ebraica". Affrontando l'analisi del celebre testo di Karl Marx, "Sulla questione ebraica", Misrahi ci offre una lettura approfondita e critica di quello che viene spesso considerato solo come un episodio controverso del pensiero marxiano. Ma considerarlo in tal modo, ha i suoi limiti: su questo ci tornerò più avanti.

"Sulla questione ebraica": un testo antisemita
Nel suo primo capitolo, Misrahi ci offre un'analisi comparativa di Marx e di Bauer. Tale analisi consente all'autore di evidenziare le diverse caratteristiche di quello che egli sostiene essere l'antisemitismo di Marx: 1) Egli ignora le persecuzioni subite dagli ebrei nella storia e, più recentemente per lui, quelle sofferte durante il pogrom del 1819. Marx ha riscritto la storia degli ebrei, omettendo il loro status di minoranza oppressa. 2) L'ebraismo - in Bauer come in Marx - si riduce a essere solo una religione, e la questione ebraica diventa così solo una questione religiosa; al punto che Marx afferma che «l'umanità deve liberarsi dagli ebrei» (p. 43). Detta altre parole, per entrambi, l'ebraismo è solo una religione ed è proprio per questo motivo che esso dev'essere soppresso.
Questo punto viene sviluppato nel capitolo successivo, quello in cui Misrahi analizza senza compromessi la definizione marxiana dell'ebraismo visto come religione. Citando più volte il testo del 1844, Misrahi specifica che è qui che Marx innova. La sua definizione, si basa su quello che egli chiama il "vero ebreo", vale a dire quello della cosiddetta "vita civile" (p. 47), un concetto che è frutto di un metodo pseudo-empirista, che non si accontenta dei contenuti dottrinali e rituali, o addirittura culturali, propri dell'ebraismo. Va anche notato che qui l'ebraismo viene ridotto a un tutto omogeneo, proprio come avviene per l'ebreo. E tuttavia, affermando di studiare il "vero ebreo" - per scoprire la natura e l'essenza dell'ebreo - Marx, nel farlo, riprende l'essenzializzazione che avveniva nei confronti di quegli ebrei caricati di pregiudizi odiosi vecchi di secoli, e lo fa nel mentre che li aggiorna, nel contesto della rivoluzione industriale del XIX° secolo. Più precisamente, agli occhi dell'autore del Capitale, l'ebraismo come essenza  ha «bisogno pratico, egoismo», detto in altre parole, bisogno materiale (p. 47). Misrahi commenta il ragionamento di Marx, sottolineando come Marx identifichi la sovrastruttura (la religione ebraica) con l'infrastruttura (la vita materiale). In altre parole, «egli afferma che la religione è la vita stessa degli ebrei, la loro essenza e la loro definizione, e che questa essenza religiosa (cioè la totalità dell'ebraismo) costituisce la manifestazione (o, fenomeno) dell'attività essenziale e fondamentale degli ebrei, il traffico» (p. 49). In quanto religione, l'ebraismo si trova pertanto a essere definito dal denaro, poiché «il denaro è il dio degli ebrei» (p. 49). Di conseguenza, ciò a cui conduce il ragionamento di Marx, è una definizione dell'ebraismo, in cui si dipinge un ritratto dell'ebreo che non può che portare alla «generale disapprovazione dei socialisti» (p. 49), dal momento che tutto viene ridotto al denaro (p. 49), e quindi viene così identificato con la borghesia (p. 50). In sostanza, alla fine, si tratta di ridurre il popolo ebraico a una minoranza irriducibile, a un «popolo-classe» [*4]... e più precisamente alla borghesia. Ora, come ci ricorda Misrahi (p. 50), la borghesia rappresenta l'antagonismo del socialismo. La dialettica marxiana spiegherebbe pertanto il perché la minoranza ebraica sarebbe stata esclusa dal proletariato: «1. L'ebraismo è il denaro. Il denaro è la borghesia. 2. Ora, la borghesia dev'essere distrutta. 3. Quindi, l'ebraismo dev'essere soppresso».
Naturalmente, non c'è nulla di empirico in una simile definizione dell'essenza dell'ebraismo che, lungi dall'essere basata sull'osservazione, fa ricorso solamente a un «pensiero magico» il quale «sostiene, senza alcuna argomentazione razionale, l'esistenza di un'essenza sostanziale, unica e malvagia, che rende possibile la definizione di un gruppo sociale concreto.» (pag. 52). Cosa cruciale, nell'analisi di Misrahi, una tale definizione di ebraismo non viene fuori dal nulla. In realtà, Marx si limita a riprendere per conto proprio i miti nauseabondi de «l'antisemitismo cristiano» [*5] (pp. 106-107) nato con i Padri della Chiesa, e che ha dominato l'Europa a partire dalla prima crociata. Più che farli propri, egli li riattiva all'interno di una teoria socio-economica che mira a costruire una nuova società, come risposta alla violenza e all'oppressione specifica della condizione operaia. Pertanto, essendo associati al denaro e alla borghesia, in una parola, al capitalismo, gli ebrei vengono resi colpevoli dell'alienazione dei lavoratori, messa in atto attraverso il lavoro e, della società, attraverso il denaro. Gli ebrei sono perciò gli antagonisti del socialismo, in quanto sono una minoranza che non può, nella sua essenza, appartenere al proletariato. Ecco che negli scritti di Marx, usciti dalla sua penna, troviamo, all'interno di una teoria socialista, tutto un immaginario di destra; quello che viene descritto nel primo capitolo del libro di Misrahi, e che fa dell'ebreo uno straniero oppressore. Ritroviamo, più  in generale, molti tropi antisemiti specifici del XIX° secolo, i quali si trovano in quelle caricature antisemite che troviamo sulle pagine dei giornali di Édouard Drumont, de "La Libre Parole". Il capro espiatorio è stato designato, ed è per questo che il nostro autore suona l'allarme, e conclude dicendo che l'articolo di Marx è una «condanna a morte, un appello al genocidio» (p. 62), che avverrebbe, se non altro, per assimilazione, per mezzo della quale l'ebraismo come religione verrebbe soppresso, senza tuttavia specificare che cosa ne sarebbe dei suoi membri.

Salvare il marxismo: un antisemitismo contingente
Nella seconda parte del libro, Misrahi si rivolge al marxismo. La posta in gioco è alta: si tratta di sapere se il marxismo - come corrente, o anche in quanto ideologia politica - sia o meno intrinsecamente antisemita. A tal fine, l'autore confronta il primo capitolo di "Sulla questione ebraica" con un altro testo dello stesso anno, noto come i "Manoscritti del 1844". In quest'ultimo testo, appare chiaro come il termine "ebreo" e ogni riferimento all'ebraismo siano  entrambi scomparsi. Troviamo, al loro posto, una tradizionale dialettica marxista. Questo, l'autore lo spiega con una possibile universalizzazione della questione ebraica, senza però dire in che modo ciò potrebbe attenuare le accuse di antisemitismo nei confronti di Marx. La borghesia è sta spogliata delle sue fantasmatiche particolarità ebraiche, e il che ci suggerisce come il testo "Sulla questione ebraica" sarebbe stato solo un passatempo, un momento catartico che avrebbe consentito poi a Marx di epurare una sua colpa, su cui poi ritornerò nella terza parte. Nel 2°capitolo, Misrahi continua nella sua dimostrazione del «carattere non marxista dell'antisemitismo di Marx» (p. 92), evidenziando il divario tra la realtà e le sue analisi, alla rovescia rispetto al metodo marxista.  Infatti, come egli riassume all'inizio della parte successiva, l'antisemitismo di Marx non ha nulla di marxista, dal momento che, nel suo famigerato testo, egli non applica il metodo del materialismo storico, il quale metodo si rifiuta «di postulare essenze eterne al fine di definire un gruppo umano e la sua storia». (pag. 135). Ora, questo è esattamente il contrario di ciò che egli attua in "Sulla questione ebraica", allorché si abbandona a delle fantasie che non si basano su alcun fatto o dato concreto. Nel dipingere il suo «vero ebreo» come se fosse un borghese dominante, Marx ignora (volontariamente o meno) il fatto che l'atto di emancipazione degli ebrei, dell'11 marzo 1812 nel Regno di Prussia (con il quale alla fine ottennero la cittadinanza), è precario. Assai spesso l'assimilazione era reale solo a partire da una conversione al luteranesimo. Sono soprattutto, le «rivolte dell'Hep Hep» del 1819 [*6] che dimostrano come permangano l'oppressione e la persecuzione. Il lavoro dei "maskilim" [*7] è ben lungi dall'essere completato. Pertanto, con la storia degli ebrei di Germania, vale a dire con la sua propria storia, Marx è un revisionista. Inoltre, come ci ricorda Misrahi, nella prima metà del 1842 le polemiche e la questione dell'emancipazione avrebbero continuato ad animare la società prussiana, al punto che l'ebraismo si sarebbe ridotto a diventare una semplice religione, una religione di cui ci si poteva sbarazzare con la conversione. Marx sarebbe perciò dipendente dal mondo in cui esso si è sviluppato. In altre parole, il suo antisemitismo sarebbe stato a immagine di quello delle società in cui viveva, in Germania, ma anche in Francia, dove scrisse "Sulla questione ebraica". Il capitolo si conclude tracciando un parallelo con la situazione reale degli ebrei di Francia, dove vennero emancipati dal 1791. Come nel caso degli ebrei di Germania, anche gli ebrei di Francia vengono essenzializzati e ridotti a «un amalgama di falsità provocate dallo schema cristiano dello straniero, dell'esiliato, del viaggiatore improduttivo, maledetto essendo condannato al male, vale a dire, allo sfruttamento del sangue cristiano» (p. 106). Nella penna di Marx, «tutto ciò prende la forma di un gruppo omogeneo che è la borghesia, la quale, di conseguenza, egli la esclude di fatto dal proletariato» [*8] (p. 106). Alla fine di questa seconda parte, Misrahi riassume il ragionamento antisemita di Marx: «Il mito antisemita di Marx si basa essenzialmente su tre affermazioni: 1. L'ebraismo è essenzialmente una religione, ed è essenzialmente una religione del denaro. 2. Gli ebrei sono essenzialmente cosmopoliti e stranieri. 3. Essi formano una classe mercantile e non si costituiscono mai come proletariato, ma sempre come borghesia.» (pag. 108) . Di conseguenza, per poter salvare il marxismo, se bisogna cercare una spiegazione dell'antisemitismo di Marx, essa non va cercata nel marxismo, ma in delle cause esterne, nella società europea del XIX° secolo e nella storia personale di Marx.

La causa dell'antisemitismo di Marx, «è Marx stesso»
La terza e ultima parte consente a Misrahi di proseguire nella sua purificazione del marxismo, riducendo l'antisemitismo di Marx a «una tappa puramente negativa del suo pensiero », a una «crisi [...], a una breve rottura contraddittoria nei confronti dell'insieme della dottrina marxista, e del progetto generale di Marx» (p. 136). Il primo capitolo di questa parte del libro, descrive accuratamente il contesto storico nel quale l'antisemitismo - sebbene non permanente e non diffuso - rimane un elemento importante della società tedesca, dall'Aufklärung (l'Illuminismo tedesco) all'idealismo. In altre parole, a esser presa di mira, è gran parte della filosofia tedesca del XVIII° e del XIX° secolo (non tutta, poiché filosofi come Gotthold Lessing, amico di Moses Mendelssohn, o Christian Wilhelm Dohm o Johann Georg Hamann sono tutti filosemiti ed essi hanno avuto un ruolo di primo piano nell'emancipazione degli ebrei). Sebbene non sia inevitabile, l'antisemitismo è comunque presente tra i filosofi che la storiografia tradizionale eleva al rango di grandi pensatori; come Kant, Fichte o Hegel. Questa analisi, ha il merito di dimostrare che l'antisemitismo ha avuto il suo posto nelle università tedesche, e che la sua influenza è andata ben oltre il Reno,  in modo da poter così irrigare il pensiero di molti pensatori del socialismo francese del XIX° secolo, quali Alphonse Toussenel o Pierre-Joseph Proudhon. Quindi, gli eredi dell'Illuminismo erano immersi in una cultura antisemita, e Marx non faceva eccezione. Ragion per cui la metafisica tedesca non viene risparmiata, visto che, nella penna di Ernst-Moritz Arndt o di Julius Friedrich Stahl essa è soprattutto cristiana; il che significa l'esclusione di un Universale che possa integrare l'ebraismo. Di conseguenza, lo studio di Misrahi mostra il modo in cui l'«antisemitismo cristiano», tradizionalmente teologico, sta entrando nella filosofia. Inoltre, facendo del cristianesimo la religione germanica, questi autori possono spudoratamente, e senza alcuna vergogna, affermare che gli ebrei non sono in grado di integrarsi nella società cristiana tedesca, a causa del fatto che essi non riconoscono né Cristo né il cristianesimo, che sono entrambi alla base dello Stato (p. 170). Secondo Misrahi, Marx nuota sulla scia di questi autori (p. 174).
Neppure la Francia viene risparmiata. L'autore propone uno dei rari studi sull'antisemitismo, diffuso tra i socialisti Charles Fourier, Toussenel e Proudhon. Non si tratta di liquidare il socialismo e le politiche reazionarie di estrema destra, quanto piuttosto di evidenziare la pervasività dell'«antisemitismo cristiano» (p. 176) in seno al primo socialismo francese. Più precisamente, a partire da questi socialisti antisemiti, Misrahi cerca di dimostrare che si tratta di un «antisemitismo teologico» e che, «non più di quanto Marx sia antisemita perché egli è marxista (egli è antimarxista in "Sulla questione ebraica")», nemmeno Fourier è un antisemita, poiché egli è un socialista: «il suo antisemitismo ha delle basi culturali cristiane, e delle basi psicologiche patologiche.» (pag. 186). Pertanto, è comprensibile che se c'è un antisemitismo a sinistra, esso si fonda su un «cristianesimo arcaico» attualizzato secondo una logica economica (p. 186). Anche in Proudhon, l'antisemitismo ha un'origine cristiana, visto che riprende il mito dell'ebreo in quanto usuraio e predatore (p. 199). Una simile logica, consente soprattutto di poter nuovamente escludere gli ebrei dal proletariato, poiché essi non sono cristiani. (p. 190). Tuttavia, al fine di esonerare il socialismo francese da ogni antisemitismo intrinseco (questo punto verrà discusso più avanti), Misrahi presenta il pensiero di due socialisti cristiani non antisemiti: Constantin Pecqueur ed Étienne Cabet. Qui, Misrahi avanza una tesi singolarmente interessante, basandosi sui concetti di libero arbitrio e responsabilità: «bisogna concludere che l'antisemitismo (o il suo rifiuto) appare come il risultato di una scelta della quale il pensatore va ritenuto responsabile» (p. 204). In altre parole, l'antisemitismo non è né una fatalità né una determinazione dovuta al contesto storico-sociale: la sua presenza in un pensiero, per quanto possa essere elaborato, è comunque il risultato di una scelta, e gli unici responsabili ne sono i suoi autori. Ad esempio, l'utopismo socialista, in sé non ha nulla di antisemita poiché - malgrado le esplosioni di odio di Charles Fourier - Étienne Cabet è riuscito a sviluppare un pensiero, esso stesso utopico, in cui troviamo diverse pagine filosemite (p. 211). E l'autore conclude il suo capitolo ricordando che «l'emancipazione degli ebrei, lungi dall'essere - com'era per Marx - la soppressione degli ebrei, essa è piuttosto - con Cabet - l'emancipazione politica e sociale di tutta l'umanità e, insieme a essa, degli ebrei.» (p. 216). Se quindi, in ultima analisi, l'antisemitismo è il risultato di una scelta personale, allora a Misrahi non resta che analizzarlo per quello che è: una postura specifica del suo autore, influenzata ma non determinata dal contesto in cui si evolve. Ed ecco che così, nell'ultimo capitolo del libro, si tratta di dimostrare che l'origine dell'antisemitismo di Marx «è Marx stesso» (p. 219). Per fare questo, Misrahi studia due fonti proprie del filosofo: il rapporto con il padre e quello con Moses Hess, il primo comunista hegeliano ebreo. Innanzitutto, la relazione con il padre, con questo padre ebreo emancipato, convertitosi poi al luteranesimo: è da questa colpa che, nel suo testo del 1844, il giovane Marx vorrebbe epurarsi. In altre parole, il suo odio per l'ebreo non sarebbe «nient'altro che la giustificazione derivate dall'aver interiorizzato e assunto l'esempio dato dal suo modello - il padre di Marx - il quale, nel bel mezzo dei pogrom antisemiti, si convertì al protestantesimo.» (p. 228). Questa colpa sarebbe tanto più grande, proprio in quanto Marx aveva davanti a sé, nello specchio, la figura di Moses Hess, che allora incarnava invece la sintesi dell'essere comunista e dell'essere ebreo. Oltre a quanto detto sul padre, l'antisemitismo di Marx è pertanto una «giustificazione forzata dell'antigiudaismo, e della conversione del padre al protestantesimo [...], reso necessario agli occhi di Marx a causa della presenza attiva di Moses Hess, suo ispiratore e anti-modello.» (pag. 231). In "Sulla questione ebraica", sarebbe quindi a Hess, piuttosto che a Bauer, che Marx starebbe rispondendo. Perciò sarebbe  per purificarsi da questa duplice colpa - frutto della conversione del padre - che Marx ha dovuto vivere questa "crisi" antisemita. Infine, c'è un ultimo elemento che dev'essere aggiunto a questa sovradeterminazione causale: si deve tener conto di chi sono i lettori della rivista in cui il testo del 1844 è stato pubblicato. Secondo Misrahi, si trattava di un «pubblico socialista antisemita» che avrebbe dettato qual era il trattamento da riservare agli ebrei, un pubblico dal quale Marx cercò di farsi amare, per mezzo di quello che in seguito sarebbe stato chiamato "odio di sé".

L'ebraismo: dal popolo-classe all'impensato («Cosa ricordare, finita la lettura?»)
Misrahi invita i suoi lettori a confrontarsi con un problema importante, che affronterò qui: quale visione ha, la sinistra, degli ebrei? Quale posto assegna loro, nelle sue lotte sociali? L'antisemitismo è presente in maniera strutturale, o circostanziale? Tutte domande, queste, che a loro volta ne pongono un'altra: esiste un antisemitismo "DI" sinistra, o piuttosto si tratta di un antisemitismo"A" sinistra? Per mezzo dell'esempio di Marx – il quale va oltre il semplice status di esempio, tanto esso è illuminante e ammonitore – Misrahi mostra come, riducendo l'ebraismo a una religione associata in sé al denaro e al capitalismo, si possa andare a finire in degli eccessi antisemiti, come ci mostra la sua lettura di "Sulla questione ebraica". L'interesse tuttora attuale di quel testo consiste nel mettere in luce un aspetto del pensiero di sinistra che rimane l'espressione di qualcosa di impensato: il futuro degli ebrei in quanto minoranza, e il futuro del trattamento ambiguo dell'ebraismo. Infatti - secondo Marx, così come viene letto da Misrahi - l'emancipazione degli ebrei non può bastare a cancellare quelle che sono le particolarità proprie dell'ebraismo. In altre parole, la minoranza ebraica poteva essere integrata solo a condizione che l'ebraismo stesso fosse stato soppresso. Questo è ben lontano dalle richieste dei "maskilim" i quali, già con Moses Mendelssohn, chiedevano il diritto all'uguaglianza mescolato al diritto alla differenza. [*9] È quest'ultima cosa, ciò viene negato dal pensiero di Marx del 1844. A questa lettura - sul versante degli studi contemporanei sul testo di Marx - si potrebbe contrapporre quella di Daniel Bensaïd [*10], secondo il quale Marx invece cerca di introdurre nel dibattito la possibilità di un'emancipazione che vada oltre i diritti politici. Questa emancipazione includerebbe anche questioni religiose e sociali: il nostro autore vede perciò nell'ipotesi marxiana - quella del superamento dell'ebraismo visto come una "particolarità" - dei marcatori antisemiti (la riduzione al denaro e alla religione) che non possono più essere ignorati. A me sembra che Bensaïd rimanga dalla parte della negazione, nel senso che egli non affronta l'impensato. Un tale studio dimostra perciò come la critica di Misrahi rimanga attuale, poiché essa propone proprio questo impensato, proprio della sinistra, che si manifesta nell'adesione, anche involontaria, a un immaginario antiebraico, se non addirittura antisemita. Inoltre, laddove lo studio di Misrahi eccelle è nella trattazione delle contraddizioni di Marx, secondo cui l'«Ebreo» incarna una figura ambivalente: da un lato, è il prodotto di un'alienazione storica, quella dell'ebreo riguardo la religione, che arriva a nuocere alla sua assimilazione nelle società moderne; dall'altro, serve invece come il punto di partenza per una critica del capitalismo. Qui, Misrahi sottolinea quello che è un paradosso cruciale: nel tentativo di abolire ogni specificità, a favore dell'universalismo del proletariato, Marx riproduce una violenza, quantomeno simbolica, nei confronti delle minoranze che non gli sembrerebbero in grado di conformarsi a essa. Per Marx, se l'ebraismo ha resistito, è stato perché non può essere assimilato. Tuttavia, se non è assimilabile, allora deve pertanto essere abolito. Facendo eco all'analisi di Hannah Arendt sull'antisemitismo [*11], Misrahi si interroga sul ruolo dell'ebraismo in quanto specchio delle fratture europee. Ma contrariamente ad Arendt, egli non fa dell'ebreo un semplice capro espiatorio che sarebbe in parte responsabile delle persecuzioni che egli subisce: mostra il modo in cui Marx, malgrado sé stesso, inscriva l'identità ebraica al cuore di un dilemma politico e sociale, quello del trattamento della minoranza, vale a dire, considerandola, nella sua irriducibilità, insieme a tutto ciò che questo potrebbe implicare:  integrarla in quanto tale, o sopprimerla perché è tale.

Un contributo critico da emendare
Misrahi non si accontenta di interpretare Marx. In un'epoca in cui le identità frammentate sfidano ancora le promesse universaliste della sinistra, mette in discussione la rilevanza dell'analisi marxiana (ma non marxista [*12]) . Ma la sua analisi ha alcuni limiti. "L'antisemitismo di Marx dopo il 1844".  Appare, una prima trappola: Misrahi dà prova di una certa indulgenza nei confronti di Marx, nella misura in cui la sua interpretazione, pur mettendo in luce le intenzioni emancipatrici e pericolose del filosofo, riduce le sue formulazioni problematiche, persino antisemite, a un momento di crisi temporanea, e questo al fine di evitare al marxismo ogni sospetto di antisemitismo. Tuttavia, così facendo, Misrahi dimentica di ricordare come, su questo punto, Marx non abbia mai ritrattato. In nessun suo testo successivo Marx è mai tornato sulla sua trattazione della "questione ebraica", né al molteplice riemergere, nel suo pensiero, dell'antisemitismo cristiano. Ci si può pertanto porre delle domande riguardo la contingenza della spiegazione psicologica. Ciò solleva così anche un'altra questione: il fatto di non menzionare, nei testi successivi, "ebreo" o "ebraismo", è sufficiente a scagionare il suo autore e il suo pensiero da ogni e qualsiasi antisemitismo, allorché questo si è manifestato – secondo Misrahi – in un testo che, peraltro, viene consacrato all'affermazione della sua teoria dello Stato? Il materialismo storico, che è stato forgiato da quei giovani socialisti hegeliani, non soffrirebbe piuttosto di un silenzioso antisemitismo? Questo avrebbe pertanto potuto giustificare l'espressione «antisemitismo di sinistra», vale a dire, di un antisemitismo che sarebbe inerente a un certo pensiero di sinistra. Tuttavia, ciò non avviene e, mentre Misrahi respinge che nel pensiero di sinistra ci sia un antisemitismo strutturale, continua a mantenere la particella "di", suggerendo che comunque, nella teoria politica della sinistra ci sia qualcosa che è antisemita, almeno potenzialmente.

"Un antisemitismo specifico alla sinistra”?
In effetti, l'espressione «antisemitismo di sinistra», usata dall'autore, nel libro non trova alcuna giustificazione, dal momento che le sue cause rimangono eterogenee rispetto alla sinistra, vale a dire riguardano l'antisemitismo cristiano. Nello studio di Misrahi, non c'è nulla che suggerisca un antisemitismo specifico alla sinistra. Se esso corrisponde ai temi economici e anticapitalistici, come sottolinea anche Patrick Cabanel [*13], non va dimenticato che i pregiudizi veicolati da tale antisemitismo non sono una novità: essi attingono in gran parte all'immaginario cristiano antiebraico, attualizzato nel contesto della rivoluzione industriale; essi sono i pregiudizi promossi dai monarchici cattolici in quell'epoca. A ciò si aggiunga il fatto che ogni volta che Misrahi parla di «antisemitismo DI sinistra», a essere messe sul banco degli imputati sono delle persone (Marx, Toussenel, o nuovamente Proudhon) e non dei concetti forgiati dalla sinistra, come potrebbe essere invece nel caso del concetto di «popolo-classe», attraverso l'assimilazione dell'ebraismo alla borghesia, e che avrebbe,  nelle sue caratteristiche intrinseche, qualcosa di innegabilmente antisemita. Pertanto, non c'è niente che permetta che si possa fare di questo antisemitismo una caratteristica della sinistra.

Un antisemitismo, a sinistra
Quindi, al termine della lettura di questo libro, si viene piuttosto invitati a guardare verso un antisemitismo a sinistra: non basta essere di sinistra per essere immunizzati dall'odio per l'altro, e in particolare per l'ebreo. La presenza a sinistra, di un antisemitismo, è stata studiata soprattutto dallo storico Michel Dreyfus [*14]. Per quest'ultimo, si tratta di mettere sotto il riflettore il fatto che anche la sinistra, nonostante gli ideali che essa promuove, è permeabile, magari temporaneamente, al clima antisemita europeo. Alla fine, dopo tutto, è questo ciò che fa anche Misrahi, osando pensare ciò che era rimasto impensato, e che si può riassumere in questi termini: l'antisemitismo è apolitico e ha mille facce. Lo si può trovare tanto a destra (il che è ovvio, soprattutto dopo il 1945) quanto a sinistra. In tal modo, Michel Dreyfus mostra il processo di creazione e di diffusione dell'antisemitismo, che, sebbene sia nato a destra, e soprattutto all'estrema destra, può trovare i suoi portavoce anche a sinistra. Più precisamente, egli distingue tre diverse fasi: la prima, dal 1830 al 1881, durante la quale alcuni socialisti, come Marx, associano gli ebrei al capitalismo e alla borghesia. La seconda fase, iniziata negli anni '80 dell'Ottocento, si adatta poi all'ascesa dei nazionalismi, e vede una parte della sinistra adottare dei pregiudizi antisemiti basati su delle  teorie razziali. L'ultima fase, la terza, è stata quella segnata dalla svolta dell'affare Dreyfus: la società francese ed europea si trovava talmente divisa che tutti furono portati a prendere posizione a favore o contro Dreyfus. Fu a quel punto che la sinistra decise di rifiutare apertamente l'antisemitismo. Ed è qui che la sinistra innova, esprimendo ciò che fa parte della sua essenza, allorché dimostra che la sua concezione dell'universale non esclude ma, al contrario, fa propria la causa del caso particolare di Alfred Dreyfus a nome dell'umanesimo.

E al giorno d'oggi?
In tal modo, l'opera di Michel Dreyfus arricchisce la critica di Misrahi a Marx, fornendo un contesto storico dettagliato delle manifestazioni e delle espressioni dell'antisemitismo nel contesto della sinistra francese. Getta luce sulle contraddizioni contingenti tra gli ideali di sinistra e i pregiudizi antisemiti che possono averli contaminati, offrendo una prospettiva storica essenziale al fine di comprendere le sfide contemporanee legate all'antisemitismo nei movimenti di sinistra. Inoltre, come filosofo, Misrahi ci aiuta a percepire l'antisemitismo di una parte della sinistra come qualcosa di impensato. Quella stessa sinistra che, oggi, maschera il proprio antisemitismo dietro una prospettiva antisionista di tipo de-coloniale, e che spesso ha taciuto sulla questione della lotta contro l'antisemitismo [*15], seppellendola sotto la questione della «strumentalizzazione dell'antisemitismo». Dal 7 ottobre, il suo silenzio è diventato assordante.  Alla fine della mia lettura di Misrahi, tuttavia le domande rimangono senza risposta, mostrando così il suo bisogno di un'attualizzazione filosofica: come spiegare oggi questo silenzio di una parte della sinistra radicale sulla lotta contro l'antisemitismo, della quale, da diversi anni, se ne fa carico la destra, se non  addirittura – non senza crudele ironia – l'estrema destra? L'antisemitismo, travestito da antisionismo, continua ancora a essere solo una contingenza, allo stesso modo in cui lo era l'antisemitismo di Toussenel o di Marx? A tal proposito, la questione che ci si apre davanti è quella di sapere quali fattori esplicativi, è probabile che riceva una simile espressione di antisemitismo a sinistra. Questa messa in discussione, permetterebbe senza dubbio di determinare meglio le relazioni che devono essere stabilite tra la prospettiva de-coloniale e l'antisemitismo; sia nel senso di una correlazione che chiuda la strada a una simile prospettiva, sia, al contrario, nel senso di una de-correlazione che la renda così udibile.

- di Rivka DLB - Pubbilcato nel marzo 2025 su https://www.dai-la-revue.fr/ -

NOTE:

   1 - Theodor W. Adorno, Minima moralia. Riflessioni sulla vita mutilata.

   2 - Robert Misrahi, Marx et la question juive, Paris, Gallimard, 1972.   

  3 - "Zur Judenfrage", in tedesco. Testo scritto nel 1843 e pubblicato nel 1844 nella rivista Deutsch-Französische Jahrbücher. Il testo di Bruno Bauer si intitolava Die Judenfrage (La questione ebraica), pubblicato nel 1843.

  4 - Il concetto di "Classe-Popolo" venne sviluppato da Otto Bauer, e poi da Abraham Léon. Quest'ultimo spiega, con l'aiuto di questo concetto, come, da un punto di vista materialistico e storico, l'ebraismo si sia mantenuto nonostante la dispersione e la persecuzione. Cfr.: "La concezione materialistica della questione ebraica", 1940-1944. Alla questione ebraica, Abraham Léon dà la seguente risposta: porre fine alla classe-popolo per mezzo del socialismo che «deve dare agli ebrei - così come vuole per tutti i popoli - la possibilità di assimilarsi, e la possibilità di avere una particolare vita nazionale particolare. […] Il socialismo, per quel che riguarda la sfera nazionale, può portare solo la più ampia democrazia. Esso deve dare agli ebrei, in tutti i paesi in cui vivono, l'opportunità di vivere una vita nazionale; deve anche fornire loro la possibilità di concentrarsi su uno o più territori, senza però naturalmente danneggiare gli interessi degli indigeni. Solo la più ampia democrazia proletaria può rendere possibile la soluzione del problema ebraico con il minimo di sofferenza.»

5 - Misrahi usa l'espressione antisemitismo cristiano, anziché antigiudaismo cristiano. Per coerenza con le citazioni del suo libro, si userà la prima espressione, anche se la seconda dovesse essere appropriata.

  6 - Queste rivolte furono pogrom che ebbero luogo contro gli ebrei tedeschi, a partire dal 2 agosto 1819 a Würzburg. Si diffusero fino alla Danimarca, alla Polonia, alla Lettonia e al Regno di Boemia. Il significato dell'espressione "hep hep" rimane aperto al dibattito: è stato visto come il grido di battaglia dei crociati quando attaccarono gli ebrei, ed è derivato dall'espressione "Hierosolyma est perdita" ("Gerusalemme è perduta"); oppure dalla contrazione di "Hebräer". I fratelli Grimm, nel loro dizionario della lingua tedesca (iniziato nel 1838), spiegano che questo sarebbe un modo di chiamare le capre che veniva applicato agli ebrei a causa delle loro barbe.

  7 - Fortemente influenzata dall'Illuminismo (francese e tedesco), l'Haskalah (letteralmente saggezza, erudizione o educazione) corrisponde all'Illuminismo ebraico tedesco. I suoi membri sono chiamati "maskilim" (singolare maskil, che significa studioso o uomo illuminato). La loro lotta era principalmente finalizzata a riformare l'educazione tradizionale degli ebrei e la parità di diritti. Moses Mendelssohn è considerato uno dei fondatori di questo movimento, insieme a Hartwig Wessely e David Friedländler.

  8 - Questa esclusione degli ebrei dal proletariato venne in parte ripresa da Abraham Léon, il quale sviluppò anche un pensiero antisionista – e non antisemita – nel contesto di un dibattito che opponeva l'internazionalismo e il sionismo.

  9 - Su richiesta di Moses Mendelssohn, Christian Wilhelm von Dohm scrisse "Über die bürgerliche Verbesserung der Juden" (Sulla riforma politica degli ebrei), pubblicato nel 1791. Si trattava di una difesa degli ebrei dell'Alsazia, e costituiva un appello all'emancipazione di tutti gli ebrei. Il saggio fu ben accolto da molti filosofi dell'Illuminismo su entrambe le sponde del Reno.

  10 - Daniel Bensaïd, "Sur la question juive", Paris, La Fabrique, 2006.

  11 - Hannah Arendt, "Sur l'antisémitisme", Paris, Calmann-Lévy, (Nuova edizione), 2005.

  12 - L'aggettivo "marxiano" descrive tutto ciò che è specifico di Marx, mentre "marxista" si riferisce al marxismo, una corrente di pensiero che nasce da Marx, ma non è identica a lui.

  13 - Nota di Patrick Cabanel nell'enciclopedia "L'histoire juive de France", a cura di Sylvie-Anne Goldberg, pubblicata da Albin Michel nel 2023. In questa nota, egli difende l'espressione di un "antisemitismo di sinistra", riprendendo più o meno le argomentazioni di Misrahi.

  14 - Michel Dreyfus, "L'antisémitisme à gauche. Histoire d'un paradoxe, de 1830 à nos jours", Paris, La Découverte, rééd. 2011.

  15 - La questione del silenzio intorno all'antisemitismo a sinistra, è stata oggetto di un articolo sulla rivista Vacarme, con il titolo « Le non-sujet de l’antisémitisme à gauche ». Inoltre, in "Peuple juif ou problème juif ?" (Paris, Maspero, 1981), Maxime Rodinson nostra come il conflitto in medio oriente abbia  a favorito l'emergere nel mondo arabo di una giudeo-fobia in coloro che sostengono la causa palestinese.