La sinistra e l'antisemitismo: uno sguardo indietro sull'impensato, con Misrahi
-di Rivka DLB -
Attualità di Misrahi
A partire dal 7 ottobre, si è visto, a sinistra, riemergere sulla scena la presenza di questa "questione ebraica", attraverso le nozioni antitetiche di "sionismo" e di "antisionismo". Sia dall'una che dall'altra parte, pur di essere "dalla parte giusta della storia", o per seguire un'agenda politica che va ben oltre il conflitto che ne consegue, si è cominciato ad adottare delle posizioni insostenibili . Sono anche rimasta scioccata dalla mancanza di empatia di una certa parte della sinistra radicale all'indomani del pogrom del 7 ottobre, e dalla sua ambivalenza nei confronti di Hamas, e questo in nome di una lotta de-coloniale nella quale Israele incarnerebbe un progetto imperialista e coloniale. Come diceva a suo tempo Adorno, «il compito, quasi impossibile da risolvere, è quello di non lasciarsi rendere stupidi né dal potere altrui, né dalla propria impotenza». [*1]. Non si tratta più tanto di pensare al nazismo, quanto piuttosto di mettere in discussione la presenza di un pensiero odioso e anti-umanista esistente all'interno di quei partiti che tuttavia sostengono l'universalismo dei valori umanistici. Poiché, a suo tempo, ha osato affrontare quella che veniva allora considerata una "negazione della sinistra" (p. 15) - vale a dire, "l'antisemitismo di sinistra" - il libro di Misrahi del 1972, su "Marx e la questione ebraica" [*2], oggi potrebbe avere ancora qualcosa da dirci. Innanzitutto, quello che l'autore chiama "antisemitismo di sinistra" ha diverse caratteristiche: clandestino, in teoria sembra essere impossibile, dal momento che contraddice i principi stessi della sinistra. «Ma, tuttavia, ciò che è contraddittorio non è per questo impossibile». Ecco perché Misrahi intende attaccarlo, e lo fa con l'aiuto di una critica radicale, che lo porta a risalire alla fonte stessa dell'ideologia di sinistra, vale a dire al marxismo e, soprattutto, allo stesso Marx e al suo testo del 1844, "Sulla questione ebraica" [*3]. Tale testo, venne pubblicato come risposta all'intellettuale socialista hegeliano tedesco Bruno Bauer, il quale, avendo studiato egli stesso l'argomento, aveva prodotto un testo innegabilmente antisemita. E - aggiunge Misrahi - anche l'antisemitismo del testo di Marx non ha influenzato il marxismo nel suo complesso. Vedremo più avanti di cosa si tratta. Tra tutte le ragioni che mi hanno indotto a ritornare su questo libro, c'è soprattutto il problema che viene posto da Misrahi, e che io riformulo sotto forma di due domande: 1) la "questione ebraica" rimane attuale, rimane attuale in quanto essa getta luce su qualcosa di impensato, ossia, il modo in cui la sinistra pensa l'ebraismo nelle nostre società contemporanee, tenendo conto sia degli ebrei della diaspora che dello Stato di Israele? 2) E in che modo la sinistra ha integrato gli ebrei nella lotta di classe? Queste domande ci spingono a tornare all'articolazione esistente tra la sinistra e l'antisemitismo; un'articolazione questa, che ancora oggi rimane un argomento raramente presente negli studi storici e filosofici di sinistra. Pertanto, con Misrahi, si tratta di porre l'accento su qualcosa di impensato - che finirebbe così per essere più simile a un'aporia - per poi, con l'aiuto della ragione, combatterlo efficacemente. Inoltre, a partire dalla mia lettura, sono emerse due nuove domande: esiste un antisemitismo che sarebbe proprio del socialismo e inerente al comunismo? Oppure si tratterebbe solo di qualcosa di accidentale, che per quanto presente nelle persone di sinistra, lo è comunque in modo incoerente e tronco, come se, intrinsecamente, la sinistra non potesse essere antisemita? Per dirla in altro modo: 3) esiste una cosa come l'antisemitismo di sinistra, ovvero, per dirlo meglio, esiste, a sinistra, l'antisemitismo? Prima di iniziare una lettura critica del libro di Misrahi, riassumiamolo in poche parole: "Marx e la questione ebraica" cerca di decriptare le ambiguità filosofiche e storiche del rapporto esistente tra la sinistra e quella che viene chiamata "la questione ebraica". Affrontando l'analisi del celebre testo di Karl Marx, "Sulla questione ebraica", Misrahi ci offre una lettura approfondita e critica di quello che viene spesso considerato solo come un episodio controverso del pensiero marxiano. Ma considerarlo in tal modo, ha i suoi limiti: su questo ci tornerò più avanti.
"Sulla questione ebraica": un testo antisemita
Nel suo primo capitolo, Misrahi ci offre un'analisi comparativa di Marx e di Bauer. Tale analisi consente all'autore di evidenziare le diverse caratteristiche di quello che egli sostiene essere l'antisemitismo di Marx: 1) Egli ignora le persecuzioni subite dagli ebrei nella storia e, più recentemente per lui, quelle sofferte durante il pogrom del 1819. Marx ha riscritto la storia degli ebrei, omettendo il loro status di minoranza oppressa. 2) L'ebraismo - in Bauer come in Marx - si riduce a essere solo una religione, e la questione ebraica diventa così solo una questione religiosa; al punto che Marx afferma che «l'umanità deve liberarsi dagli ebrei» (p. 43). Detta altre parole, per entrambi, l'ebraismo è solo una religione ed è proprio per questo motivo che esso dev'essere soppresso.
Questo punto viene sviluppato nel capitolo successivo, quello in cui Misrahi analizza senza compromessi la definizione marxiana dell'ebraismo visto come religione. Citando più volte il testo del 1844, Misrahi specifica che è qui che Marx innova. La sua definizione, si basa su quello che egli chiama il "vero ebreo", vale a dire quello della cosiddetta "vita civile" (p. 47), un concetto che è frutto di un metodo pseudo-empirista, che non si accontenta dei contenuti dottrinali e rituali, o addirittura culturali, propri dell'ebraismo. Va anche notato che qui l'ebraismo viene ridotto a un tutto omogeneo, proprio come avviene per l'ebreo. E tuttavia, affermando di studiare il "vero ebreo" - per scoprire la natura e l'essenza dell'ebreo - Marx, nel farlo, riprende l'essenzializzazione che avveniva nei confronti di quegli ebrei caricati di pregiudizi odiosi vecchi di secoli, e lo fa nel mentre che li aggiorna, nel contesto della rivoluzione industriale del XIX° secolo. Più precisamente, agli occhi dell'autore del Capitale, l'ebraismo come essenza ha «bisogno pratico, egoismo», detto in altre parole, bisogno materiale (p. 47). Misrahi commenta il ragionamento di Marx, sottolineando come Marx identifichi la sovrastruttura (la religione ebraica) con l'infrastruttura (la vita materiale). In altre parole, «egli afferma che la religione è la vita stessa degli ebrei, la loro essenza e la loro definizione, e che questa essenza religiosa (cioè la totalità dell'ebraismo) costituisce la manifestazione (o, fenomeno) dell'attività essenziale e fondamentale degli ebrei, il traffico» (p. 49). In quanto religione, l'ebraismo si trova pertanto a essere definito dal denaro, poiché «il denaro è il dio degli ebrei» (p. 49). Di conseguenza, ciò a cui conduce il ragionamento di Marx, è una definizione dell'ebraismo, in cui si dipinge un ritratto dell'ebreo che non può che portare alla «generale disapprovazione dei socialisti» (p. 49), dal momento che tutto viene ridotto al denaro (p. 49), e quindi viene così identificato con la borghesia (p. 50). In sostanza, alla fine, si tratta di ridurre il popolo ebraico a una minoranza irriducibile, a un «popolo-classe» [*4]... e più precisamente alla borghesia. Ora, come ci ricorda Misrahi (p. 50), la borghesia rappresenta l'antagonismo del socialismo. La dialettica marxiana spiegherebbe pertanto il perché la minoranza ebraica sarebbe stata esclusa dal proletariato: «1. L'ebraismo è il denaro. Il denaro è la borghesia. 2. Ora, la borghesia dev'essere distrutta. 3. Quindi, l'ebraismo dev'essere soppresso».
Naturalmente, non c'è nulla di empirico in una simile definizione dell'essenza dell'ebraismo che, lungi dall'essere basata sull'osservazione, fa ricorso solamente a un «pensiero magico» il quale «sostiene, senza alcuna argomentazione razionale, l'esistenza di un'essenza sostanziale, unica e malvagia, che rende possibile la definizione di un gruppo sociale concreto.» (pag. 52). Cosa cruciale, nell'analisi di Misrahi, una tale definizione di ebraismo non viene fuori dal nulla. In realtà, Marx si limita a riprendere per conto proprio i miti nauseabondi de «l'antisemitismo cristiano» [*5] (pp. 106-107) nato con i Padri della Chiesa, e che ha dominato l'Europa a partire dalla prima crociata. Più che farli propri, egli li riattiva all'interno di una teoria socio-economica che mira a costruire una nuova società, come risposta alla violenza e all'oppressione specifica della condizione operaia. Pertanto, essendo associati al denaro e alla borghesia, in una parola, al capitalismo, gli ebrei vengono resi colpevoli dell'alienazione dei lavoratori, messa in atto attraverso il lavoro e, della società, attraverso il denaro. Gli ebrei sono perciò gli antagonisti del socialismo, in quanto sono una minoranza che non può, nella sua essenza, appartenere al proletariato. Ecco che negli scritti di Marx, usciti dalla sua penna, troviamo, all'interno di una teoria socialista, tutto un immaginario di destra; quello che viene descritto nel primo capitolo del libro di Misrahi, e che fa dell'ebreo uno straniero oppressore. Ritroviamo, più in generale, molti tropi antisemiti specifici del XIX° secolo, i quali si trovano in quelle caricature antisemite che troviamo sulle pagine dei giornali di Édouard Drumont, de "La Libre Parole". Il capro espiatorio è stato designato, ed è per questo che il nostro autore suona l'allarme, e conclude dicendo che l'articolo di Marx è una «condanna a morte, un appello al genocidio» (p. 62), che avverrebbe, se non altro, per assimilazione, per mezzo della quale l'ebraismo come religione verrebbe soppresso, senza tuttavia specificare che cosa ne sarebbe dei suoi membri.
Salvare il marxismo: un antisemitismo contingente
Nella seconda parte del libro, Misrahi si rivolge al marxismo. La posta in gioco è alta: si tratta di sapere se il marxismo - come corrente, o anche in quanto ideologia politica - sia o meno intrinsecamente antisemita. A tal fine, l'autore confronta il primo capitolo di "Sulla questione ebraica" con un altro testo dello stesso anno, noto come i "Manoscritti del 1844". In quest'ultimo testo, appare chiaro come il termine "ebreo" e ogni riferimento all'ebraismo siano entrambi scomparsi. Troviamo, al loro posto, una tradizionale dialettica marxista. Questo, l'autore lo spiega con una possibile universalizzazione della questione ebraica, senza però dire in che modo ciò potrebbe attenuare le accuse di antisemitismo nei confronti di Marx. La borghesia è sta spogliata delle sue fantasmatiche particolarità ebraiche, e il che ci suggerisce come il testo "Sulla questione ebraica" sarebbe stato solo un passatempo, un momento catartico che avrebbe consentito poi a Marx di epurare una sua colpa, su cui poi ritornerò nella terza parte. Nel 2°capitolo, Misrahi continua nella sua dimostrazione del «carattere non marxista dell'antisemitismo di Marx» (p. 92), evidenziando il divario tra la realtà e le sue analisi, alla rovescia rispetto al metodo marxista. Infatti, come egli riassume all'inizio della parte successiva, l'antisemitismo di Marx non ha nulla di marxista, dal momento che, nel suo famigerato testo, egli non applica il metodo del materialismo storico, il quale metodo si rifiuta «di postulare essenze eterne al fine di definire un gruppo umano e la sua storia». (pag. 135). Ora, questo è esattamente il contrario di ciò che egli attua in "Sulla questione ebraica", allorché si abbandona a delle fantasie che non si basano su alcun fatto o dato concreto. Nel dipingere il suo «vero ebreo» come se fosse un borghese dominante, Marx ignora (volontariamente o meno) il fatto che l'atto di emancipazione degli ebrei, dell'11 marzo 1812 nel Regno di Prussia (con il quale alla fine ottennero la cittadinanza), è precario. Assai spesso l'assimilazione era reale solo a partire da una conversione al luteranesimo. Sono soprattutto, le «rivolte dell'Hep Hep» del 1819 [*6] che dimostrano come permangano l'oppressione e la persecuzione. Il lavoro dei "maskilim" [*7] è ben lungi dall'essere completato. Pertanto, con la storia degli ebrei di Germania, vale a dire con la sua propria storia, Marx è un revisionista. Inoltre, come ci ricorda Misrahi, nella prima metà del 1842 le polemiche e la questione dell'emancipazione avrebbero continuato ad animare la società prussiana, al punto che l'ebraismo si sarebbe ridotto a diventare una semplice religione, una religione di cui ci si poteva sbarazzare con la conversione. Marx sarebbe perciò dipendente dal mondo in cui esso si è sviluppato. In altre parole, il suo antisemitismo sarebbe stato a immagine di quello delle società in cui viveva, in Germania, ma anche in Francia, dove scrisse "Sulla questione ebraica". Il capitolo si conclude tracciando un parallelo con la situazione reale degli ebrei di Francia, dove vennero emancipati dal 1791. Come nel caso degli ebrei di Germania, anche gli ebrei di Francia vengono essenzializzati e ridotti a «un amalgama di falsità provocate dallo schema cristiano dello straniero, dell'esiliato, del viaggiatore improduttivo, maledetto essendo condannato al male, vale a dire, allo sfruttamento del sangue cristiano» (p. 106). Nella penna di Marx, «tutto ciò prende la forma di un gruppo omogeneo che è la borghesia, la quale, di conseguenza, egli la esclude di fatto dal proletariato» [*8] (p. 106). Alla fine di questa seconda parte, Misrahi riassume il ragionamento antisemita di Marx: «Il mito antisemita di Marx si basa essenzialmente su tre affermazioni: 1. L'ebraismo è essenzialmente una religione, ed è essenzialmente una religione del denaro. 2. Gli ebrei sono essenzialmente cosmopoliti e stranieri. 3. Essi formano una classe mercantile e non si costituiscono mai come proletariato, ma sempre come borghesia.» (pag. 108) . Di conseguenza, per poter salvare il marxismo, se bisogna cercare una spiegazione dell'antisemitismo di Marx, essa non va cercata nel marxismo, ma in delle cause esterne, nella società europea del XIX° secolo e nella storia personale di Marx.
La causa dell'antisemitismo di Marx, «è Marx stesso»
La terza e ultima parte consente a Misrahi di proseguire nella sua purificazione del marxismo, riducendo l'antisemitismo di Marx a «una tappa puramente negativa del suo pensiero », a una «crisi [...], a una breve rottura contraddittoria nei confronti dell'insieme della dottrina marxista, e del progetto generale di Marx» (p. 136). Il primo capitolo di questa parte del libro, descrive accuratamente il contesto storico nel quale l'antisemitismo - sebbene non permanente e non diffuso - rimane un elemento importante della società tedesca, dall'Aufklärung (l'Illuminismo tedesco) all'idealismo. In altre parole, a esser presa di mira, è gran parte della filosofia tedesca del XVIII° e del XIX° secolo (non tutta, poiché filosofi come Gotthold Lessing, amico di Moses Mendelssohn, o Christian Wilhelm Dohm o Johann Georg Hamann sono tutti filosemiti ed essi hanno avuto un ruolo di primo piano nell'emancipazione degli ebrei). Sebbene non sia inevitabile, l'antisemitismo è comunque presente tra i filosofi che la storiografia tradizionale eleva al rango di grandi pensatori; come Kant, Fichte o Hegel. Questa analisi, ha il merito di dimostrare che l'antisemitismo ha avuto il suo posto nelle università tedesche, e che la sua influenza è andata ben oltre il Reno, in modo da poter così irrigare il pensiero di molti pensatori del socialismo francese del XIX° secolo, quali Alphonse Toussenel o Pierre-Joseph Proudhon. Quindi, gli eredi dell'Illuminismo erano immersi in una cultura antisemita, e Marx non faceva eccezione. Ragion per cui la metafisica tedesca non viene risparmiata, visto che, nella penna di Ernst-Moritz Arndt o di Julius Friedrich Stahl essa è soprattutto cristiana; il che significa l'esclusione di un Universale che possa integrare l'ebraismo. Di conseguenza, lo studio di Misrahi mostra il modo in cui l'«antisemitismo cristiano», tradizionalmente teologico, sta entrando nella filosofia. Inoltre, facendo del cristianesimo la religione germanica, questi autori possono spudoratamente, e senza alcuna vergogna, affermare che gli ebrei non sono in grado di integrarsi nella società cristiana tedesca, a causa del fatto che essi non riconoscono né Cristo né il cristianesimo, che sono entrambi alla base dello Stato (p. 170). Secondo Misrahi, Marx nuota sulla scia di questi autori (p. 174).
Neppure la Francia viene risparmiata. L'autore propone uno dei rari studi sull'antisemitismo, diffuso tra i socialisti Charles Fourier, Toussenel e Proudhon. Non si tratta di liquidare il socialismo e le politiche reazionarie di estrema destra, quanto piuttosto di evidenziare la pervasività dell'«antisemitismo cristiano» (p. 176) in seno al primo socialismo francese. Più precisamente, a partire da questi socialisti antisemiti, Misrahi cerca di dimostrare che si tratta di un «antisemitismo teologico» e che, «non più di quanto Marx sia antisemita perché egli è marxista (egli è antimarxista in "Sulla questione ebraica")», nemmeno Fourier è un antisemita, poiché egli è un socialista: «il suo antisemitismo ha delle basi culturali cristiane, e delle basi psicologiche patologiche.» (pag. 186). Pertanto, è comprensibile che se c'è un antisemitismo a sinistra, esso si fonda su un «cristianesimo arcaico» attualizzato secondo una logica economica (p. 186). Anche in Proudhon, l'antisemitismo ha un'origine cristiana, visto che riprende il mito dell'ebreo in quanto usuraio e predatore (p. 199). Una simile logica, consente soprattutto di poter nuovamente escludere gli ebrei dal proletariato, poiché essi non sono cristiani. (p. 190). Tuttavia, al fine di esonerare il socialismo francese da ogni antisemitismo intrinseco (questo punto verrà discusso più avanti), Misrahi presenta il pensiero di due socialisti cristiani non antisemiti: Constantin Pecqueur ed Étienne Cabet. Qui, Misrahi avanza una tesi singolarmente interessante, basandosi sui concetti di libero arbitrio e responsabilità: «bisogna concludere che l'antisemitismo (o il suo rifiuto) appare come il risultato di una scelta della quale il pensatore va ritenuto responsabile» (p. 204). In altre parole, l'antisemitismo non è né una fatalità né una determinazione dovuta al contesto storico-sociale: la sua presenza in un pensiero, per quanto possa essere elaborato, è comunque il risultato di una scelta, e gli unici responsabili ne sono i suoi autori. Ad esempio, l'utopismo socialista, in sé non ha nulla di antisemita poiché - malgrado le esplosioni di odio di Charles Fourier - Étienne Cabet è riuscito a sviluppare un pensiero, esso stesso utopico, in cui troviamo diverse pagine filosemite (p. 211). E l'autore conclude il suo capitolo ricordando che «l'emancipazione degli ebrei, lungi dall'essere - com'era per Marx - la soppressione degli ebrei, essa è piuttosto - con Cabet - l'emancipazione politica e sociale di tutta l'umanità e, insieme a essa, degli ebrei.» (p. 216). Se quindi, in ultima analisi, l'antisemitismo è il risultato di una scelta personale, allora a Misrahi non resta che analizzarlo per quello che è: una postura specifica del suo autore, influenzata ma non determinata dal contesto in cui si evolve. Ed ecco che così, nell'ultimo capitolo del libro, si tratta di dimostrare che l'origine dell'antisemitismo di Marx «è Marx stesso» (p. 219). Per fare questo, Misrahi studia due fonti proprie del filosofo: il rapporto con il padre e quello con Moses Hess, il primo comunista hegeliano ebreo. Innanzitutto, la relazione con il padre, con questo padre ebreo emancipato, convertitosi poi al luteranesimo: è da questa colpa che, nel suo testo del 1844, il giovane Marx vorrebbe epurarsi. In altre parole, il suo odio per l'ebreo non sarebbe «nient'altro che la giustificazione derivate dall'aver interiorizzato e assunto l'esempio dato dal suo modello - il padre di Marx - il quale, nel bel mezzo dei pogrom antisemiti, si convertì al protestantesimo.» (p. 228). Questa colpa sarebbe tanto più grande, proprio in quanto Marx aveva davanti a sé, nello specchio, la figura di Moses Hess, che allora incarnava invece la sintesi dell'essere comunista e dell'essere ebreo. Oltre a quanto detto sul padre, l'antisemitismo di Marx è pertanto una «giustificazione forzata dell'antigiudaismo, e della conversione del padre al protestantesimo [...], reso necessario agli occhi di Marx a causa della presenza attiva di Moses Hess, suo ispiratore e anti-modello.» (pag. 231). In "Sulla questione ebraica", sarebbe quindi a Hess, piuttosto che a Bauer, che Marx starebbe rispondendo. Perciò sarebbe per purificarsi da questa duplice colpa - frutto della conversione del padre - che Marx ha dovuto vivere questa "crisi" antisemita. Infine, c'è un ultimo elemento che dev'essere aggiunto a questa sovradeterminazione causale: si deve tener conto di chi sono i lettori della rivista in cui il testo del 1844 è stato pubblicato. Secondo Misrahi, si trattava di un «pubblico socialista antisemita» che avrebbe dettato qual era il trattamento da riservare agli ebrei, un pubblico dal quale Marx cercò di farsi amare, per mezzo di quello che in seguito sarebbe stato chiamato "odio di sé".
L'ebraismo: dal popolo-classe all'impensato («Cosa ricordare, finita la lettura?»)
Misrahi invita i suoi lettori a confrontarsi con un problema importante, che affronterò qui: quale visione ha, la sinistra, degli ebrei? Quale posto assegna loro, nelle sue lotte sociali? L'antisemitismo è presente in maniera strutturale, o circostanziale? Tutte domande, queste, che a loro volta ne pongono un'altra: esiste un antisemitismo "DI" sinistra, o piuttosto si tratta di un antisemitismo"A" sinistra? Per mezzo dell'esempio di Marx – il quale va oltre il semplice status di esempio, tanto esso è illuminante e ammonitore – Misrahi mostra come, riducendo l'ebraismo a una religione associata in sé al denaro e al capitalismo, si possa andare a finire in degli eccessi antisemiti, come ci mostra la sua lettura di "Sulla questione ebraica". L'interesse tuttora attuale di quel testo consiste nel mettere in luce un aspetto del pensiero di sinistra che rimane l'espressione di qualcosa di impensato: il futuro degli ebrei in quanto minoranza, e il futuro del trattamento ambiguo dell'ebraismo. Infatti - secondo Marx, così come viene letto da Misrahi - l'emancipazione degli ebrei non può bastare a cancellare quelle che sono le particolarità proprie dell'ebraismo. In altre parole, la minoranza ebraica poteva essere integrata solo a condizione che l'ebraismo stesso fosse stato soppresso. Questo è ben lontano dalle richieste dei "maskilim" i quali, già con Moses Mendelssohn, chiedevano il diritto all'uguaglianza mescolato al diritto alla differenza. [*9] È quest'ultima cosa, ciò viene negato dal pensiero di Marx del 1844. A questa lettura - sul versante degli studi contemporanei sul testo di Marx - si potrebbe contrapporre quella di Daniel Bensaïd [*10], secondo il quale Marx invece cerca di introdurre nel dibattito la possibilità di un'emancipazione che vada oltre i diritti politici. Questa emancipazione includerebbe anche questioni religiose e sociali: il nostro autore vede perciò nell'ipotesi marxiana - quella del superamento dell'ebraismo visto come una "particolarità" - dei marcatori antisemiti (la riduzione al denaro e alla religione) che non possono più essere ignorati. A me sembra che Bensaïd rimanga dalla parte della negazione, nel senso che egli non affronta l'impensato. Un tale studio dimostra perciò come la critica di Misrahi rimanga attuale, poiché essa propone proprio questo impensato, proprio della sinistra, che si manifesta nell'adesione, anche involontaria, a un immaginario antiebraico, se non addirittura antisemita. Inoltre, laddove lo studio di Misrahi eccelle è nella trattazione delle contraddizioni di Marx, secondo cui l'«Ebreo» incarna una figura ambivalente: da un lato, è il prodotto di un'alienazione storica, quella dell'ebreo riguardo la religione, che arriva a nuocere alla sua assimilazione nelle società moderne; dall'altro, serve invece come il punto di partenza per una critica del capitalismo. Qui, Misrahi sottolinea quello che è un paradosso cruciale: nel tentativo di abolire ogni specificità, a favore dell'universalismo del proletariato, Marx riproduce una violenza, quantomeno simbolica, nei confronti delle minoranze che non gli sembrerebbero in grado di conformarsi a essa. Per Marx, se l'ebraismo ha resistito, è stato perché non può essere assimilato. Tuttavia, se non è assimilabile, allora deve pertanto essere abolito. Facendo eco all'analisi di Hannah Arendt sull'antisemitismo [*11], Misrahi si interroga sul ruolo dell'ebraismo in quanto specchio delle fratture europee. Ma contrariamente ad Arendt, egli non fa dell'ebreo un semplice capro espiatorio che sarebbe in parte responsabile delle persecuzioni che egli subisce: mostra il modo in cui Marx, malgrado sé stesso, inscriva l'identità ebraica al cuore di un dilemma politico e sociale, quello del trattamento della minoranza, vale a dire, considerandola, nella sua irriducibilità, insieme a tutto ciò che questo potrebbe implicare: integrarla in quanto tale, o sopprimerla perché è tale.
Un contributo critico da emendare
Misrahi non si accontenta di interpretare Marx. In un'epoca in cui le identità frammentate sfidano ancora le promesse universaliste della sinistra, mette in discussione la rilevanza dell'analisi marxiana (ma non marxista [*12]) . Ma la sua analisi ha alcuni limiti. "L'antisemitismo di Marx dopo il 1844". Appare, una prima trappola: Misrahi dà prova di una certa indulgenza nei confronti di Marx, nella misura in cui la sua interpretazione, pur mettendo in luce le intenzioni emancipatrici e pericolose del filosofo, riduce le sue formulazioni problematiche, persino antisemite, a un momento di crisi temporanea, e questo al fine di evitare al marxismo ogni sospetto di antisemitismo. Tuttavia, così facendo, Misrahi dimentica di ricordare come, su questo punto, Marx non abbia mai ritrattato. In nessun suo testo successivo Marx è mai tornato sulla sua trattazione della "questione ebraica", né al molteplice riemergere, nel suo pensiero, dell'antisemitismo cristiano. Ci si può pertanto porre delle domande riguardo la contingenza della spiegazione psicologica. Ciò solleva così anche un'altra questione: il fatto di non menzionare, nei testi successivi, "ebreo" o "ebraismo", è sufficiente a scagionare il suo autore e il suo pensiero da ogni e qualsiasi antisemitismo, allorché questo si è manifestato – secondo Misrahi – in un testo che, peraltro, viene consacrato all'affermazione della sua teoria dello Stato? Il materialismo storico, che è stato forgiato da quei giovani socialisti hegeliani, non soffrirebbe piuttosto di un silenzioso antisemitismo? Questo avrebbe pertanto potuto giustificare l'espressione «antisemitismo di sinistra», vale a dire, di un antisemitismo che sarebbe inerente a un certo pensiero di sinistra. Tuttavia, ciò non avviene e, mentre Misrahi respinge che nel pensiero di sinistra ci sia un antisemitismo strutturale, continua a mantenere la particella "di", suggerendo che comunque, nella teoria politica della sinistra ci sia qualcosa che è antisemita, almeno potenzialmente.
"Un antisemitismo specifico alla sinistra”?
In effetti, l'espressione «antisemitismo di sinistra», usata dall'autore, nel libro non trova alcuna giustificazione, dal momento che le sue cause rimangono eterogenee rispetto alla sinistra, vale a dire riguardano l'antisemitismo cristiano. Nello studio di Misrahi, non c'è nulla che suggerisca un antisemitismo specifico alla sinistra. Se esso corrisponde ai temi economici e anticapitalistici, come sottolinea anche Patrick Cabanel [*13], non va dimenticato che i pregiudizi veicolati da tale antisemitismo non sono una novità: essi attingono in gran parte all'immaginario cristiano antiebraico, attualizzato nel contesto della rivoluzione industriale; essi sono i pregiudizi promossi dai monarchici cattolici in quell'epoca. A ciò si aggiunga il fatto che ogni volta che Misrahi parla di «antisemitismo DI sinistra», a essere messe sul banco degli imputati sono delle persone (Marx, Toussenel, o nuovamente Proudhon) e non dei concetti forgiati dalla sinistra, come potrebbe essere invece nel caso del concetto di «popolo-classe», attraverso l'assimilazione dell'ebraismo alla borghesia, e che avrebbe, nelle sue caratteristiche intrinseche, qualcosa di innegabilmente antisemita. Pertanto, non c'è niente che permetta che si possa fare di questo antisemitismo una caratteristica della sinistra.
Un antisemitismo, a sinistra
Quindi, al termine della lettura di questo libro, si viene piuttosto invitati a guardare verso un antisemitismo a sinistra: non basta essere di sinistra per essere immunizzati dall'odio per l'altro, e in particolare per l'ebreo. La presenza a sinistra, di un antisemitismo, è stata studiata soprattutto dallo storico Michel Dreyfus [*14]. Per quest'ultimo, si tratta di mettere sotto il riflettore il fatto che anche la sinistra, nonostante gli ideali che essa promuove, è permeabile, magari temporaneamente, al clima antisemita europeo. Alla fine, dopo tutto, è questo ciò che fa anche Misrahi, osando pensare ciò che era rimasto impensato, e che si può riassumere in questi termini: l'antisemitismo è apolitico e ha mille facce. Lo si può trovare tanto a destra (il che è ovvio, soprattutto dopo il 1945) quanto a sinistra. In tal modo, Michel Dreyfus mostra il processo di creazione e di diffusione dell'antisemitismo, che, sebbene sia nato a destra, e soprattutto all'estrema destra, può trovare i suoi portavoce anche a sinistra. Più precisamente, egli distingue tre diverse fasi: la prima, dal 1830 al 1881, durante la quale alcuni socialisti, come Marx, associano gli ebrei al capitalismo e alla borghesia. La seconda fase, iniziata negli anni '80 dell'Ottocento, si adatta poi all'ascesa dei nazionalismi, e vede una parte della sinistra adottare dei pregiudizi antisemiti basati su delle teorie razziali. L'ultima fase, la terza, è stata quella segnata dalla svolta dell'affare Dreyfus: la società francese ed europea si trovava talmente divisa che tutti furono portati a prendere posizione a favore o contro Dreyfus. Fu a quel punto che la sinistra decise di rifiutare apertamente l'antisemitismo. Ed è qui che la sinistra innova, esprimendo ciò che fa parte della sua essenza, allorché dimostra che la sua concezione dell'universale non esclude ma, al contrario, fa propria la causa del caso particolare di Alfred Dreyfus a nome dell'umanesimo.
E al giorno d'oggi?
In tal modo, l'opera di Michel Dreyfus arricchisce la critica di Misrahi a Marx, fornendo un contesto storico dettagliato delle manifestazioni e delle espressioni dell'antisemitismo nel contesto della sinistra francese. Getta luce sulle contraddizioni contingenti tra gli ideali di sinistra e i pregiudizi antisemiti che possono averli contaminati, offrendo una prospettiva storica essenziale al fine di comprendere le sfide contemporanee legate all'antisemitismo nei movimenti di sinistra. Inoltre, come filosofo, Misrahi ci aiuta a percepire l'antisemitismo di una parte della sinistra come qualcosa di impensato. Quella stessa sinistra che, oggi, maschera il proprio antisemitismo dietro una prospettiva antisionista di tipo de-coloniale, e che spesso ha taciuto sulla questione della lotta contro l'antisemitismo [*15], seppellendola sotto la questione della «strumentalizzazione dell'antisemitismo». Dal 7 ottobre, il suo silenzio è diventato assordante. Alla fine della mia lettura di Misrahi, tuttavia le domande rimangono senza risposta, mostrando così il suo bisogno di un'attualizzazione filosofica: come spiegare oggi questo silenzio di una parte della sinistra radicale sulla lotta contro l'antisemitismo, della quale, da diversi anni, se ne fa carico la destra, se non addirittura – non senza crudele ironia – l'estrema destra? L'antisemitismo, travestito da antisionismo, continua ancora a essere solo una contingenza, allo stesso modo in cui lo era l'antisemitismo di Toussenel o di Marx? A tal proposito, la questione che ci si apre davanti è quella di sapere quali fattori esplicativi, è probabile che riceva una simile espressione di antisemitismo a sinistra. Questa messa in discussione, permetterebbe senza dubbio di determinare meglio le relazioni che devono essere stabilite tra la prospettiva de-coloniale e l'antisemitismo; sia nel senso di una correlazione che chiuda la strada a una simile prospettiva, sia, al contrario, nel senso di una de-correlazione che la renda così udibile.
- di Rivka DLB - Pubbilcato nel marzo 2025 su https://www.dai-la-revue.fr/ -
NOTE:
1 - Theodor W. Adorno, Minima moralia. Riflessioni sulla vita mutilata.
2 - Robert Misrahi, Marx et la question juive, Paris, Gallimard, 1972.
3 - "Zur Judenfrage", in tedesco. Testo scritto nel 1843 e pubblicato nel 1844 nella rivista Deutsch-Französische Jahrbücher. Il testo di Bruno Bauer si intitolava Die Judenfrage (La questione ebraica), pubblicato nel 1843.
4 - Il concetto di "Classe-Popolo" venne sviluppato da Otto Bauer, e poi da Abraham Léon. Quest'ultimo spiega, con l'aiuto di questo concetto, come, da un punto di vista materialistico e storico, l'ebraismo si sia mantenuto nonostante la dispersione e la persecuzione. Cfr.: "La concezione materialistica della questione ebraica", 1940-1944. Alla questione ebraica, Abraham Léon dà la seguente risposta: porre fine alla classe-popolo per mezzo del socialismo che «deve dare agli ebrei - così come vuole per tutti i popoli - la possibilità di assimilarsi, e la possibilità di avere una particolare vita nazionale particolare. […] Il socialismo, per quel che riguarda la sfera nazionale, può portare solo la più ampia democrazia. Esso deve dare agli ebrei, in tutti i paesi in cui vivono, l'opportunità di vivere una vita nazionale; deve anche fornire loro la possibilità di concentrarsi su uno o più territori, senza però naturalmente danneggiare gli interessi degli indigeni. Solo la più ampia democrazia proletaria può rendere possibile la soluzione del problema ebraico con il minimo di sofferenza.»
5 - Misrahi usa l'espressione antisemitismo cristiano, anziché antigiudaismo cristiano. Per coerenza con le citazioni del suo libro, si userà la prima espressione, anche se la seconda dovesse essere appropriata.
6 - Queste rivolte furono pogrom che ebbero luogo contro gli ebrei tedeschi, a partire dal 2 agosto 1819 a Würzburg. Si diffusero fino alla Danimarca, alla Polonia, alla Lettonia e al Regno di Boemia. Il significato dell'espressione "hep hep" rimane aperto al dibattito: è stato visto come il grido di battaglia dei crociati quando attaccarono gli ebrei, ed è derivato dall'espressione "Hierosolyma est perdita" ("Gerusalemme è perduta"); oppure dalla contrazione di "Hebräer". I fratelli Grimm, nel loro dizionario della lingua tedesca (iniziato nel 1838), spiegano che questo sarebbe un modo di chiamare le capre che veniva applicato agli ebrei a causa delle loro barbe.
7 - Fortemente influenzata dall'Illuminismo (francese e tedesco), l'Haskalah (letteralmente saggezza, erudizione o educazione) corrisponde all'Illuminismo ebraico tedesco. I suoi membri sono chiamati "maskilim" (singolare maskil, che significa studioso o uomo illuminato). La loro lotta era principalmente finalizzata a riformare l'educazione tradizionale degli ebrei e la parità di diritti. Moses Mendelssohn è considerato uno dei fondatori di questo movimento, insieme a Hartwig Wessely e David Friedländler.
8 - Questa esclusione degli ebrei dal proletariato venne in parte ripresa da Abraham Léon, il quale sviluppò anche un pensiero antisionista – e non antisemita – nel contesto di un dibattito che opponeva l'internazionalismo e il sionismo.
9 - Su richiesta di Moses Mendelssohn, Christian Wilhelm von Dohm scrisse "Über die bürgerliche Verbesserung der Juden" (Sulla riforma politica degli ebrei), pubblicato nel 1791. Si trattava di una difesa degli ebrei dell'Alsazia, e costituiva un appello all'emancipazione di tutti gli ebrei. Il saggio fu ben accolto da molti filosofi dell'Illuminismo su entrambe le sponde del Reno.
10 - Daniel Bensaïd, "Sur la question juive", Paris, La Fabrique, 2006.
11 - Hannah Arendt, "Sur l'antisémitisme", Paris, Calmann-Lévy, (Nuova edizione), 2005.
12 - L'aggettivo "marxiano" descrive tutto ciò che è specifico di Marx, mentre "marxista" si riferisce al marxismo, una corrente di pensiero che nasce da Marx, ma non è identica a lui.
13 - Nota di Patrick Cabanel nell'enciclopedia "L'histoire juive de France", a cura di Sylvie-Anne Goldberg, pubblicata da Albin Michel nel 2023. In questa nota, egli difende l'espressione di un "antisemitismo di sinistra", riprendendo più o meno le argomentazioni di Misrahi.
14 - Michel Dreyfus, "L'antisémitisme à gauche. Histoire d'un paradoxe, de 1830 à nos jours", Paris, La Découverte, rééd. 2011.
15 - La questione del silenzio intorno all'antisemitismo a sinistra, è stata oggetto di un articolo sulla rivista Vacarme, con il titolo « Le non-sujet de l’antisémitisme à gauche ». Inoltre, in "Peuple juif ou problème juif ?" (Paris, Maspero, 1981), Maxime Rodinson nostra come il conflitto in medio oriente abbia a favorito l'emergere nel mondo arabo di una giudeo-fobia in coloro che sostengono la causa palestinese.