lunedì 31 marzo 2025

Primo Incontro…

«Un giorno del 1950, un mio amico, Robert Carlier, mi disse: "Dovresti leggere il manoscritto di uno scrittore irlandese che scrive in francese. Il suo nome è Samuel Beckett. Sei editori l'hanno già respinto". Era da  due anni che dirigevo le Éditions de Minuit. Qualche settimana dopo, mi accorsi che su una delle nostre scrivanie c'erano tre manoscritti : Molloy, Malone meurt,  L'Innomable, tutti e tre con il nome di quell'autore allora sconosciuto, ma già familiare. È stato in quel momento che ho capito che forse sarei diventato un editor, voglio dire, un vero editor. Fin dalla prima riga - "Mi trovo nella stanza di mia madre.  Ora sono io che ci vivo qui. Non ricordo come ci sono arrivato": rimasi colpito dalla bellezza travolgente di quel testo. Molloy, l'ho letto in poche ore; come non avevo mai prima letto un libro. E questa volta non si trattava di un romanzo che era stato pubblicato da un mio collega, di uno di quei capolavori consacrati, rispetto al quale, come editore, non avrei mai potuto prendere parte: stavolta, si trattava di un manoscritto inedito, e non solo era inedito, ma era stato rifiutato da diversi editori. Non potevo crederci. Il giorno dopo, ho incontrato Suzanne, sua moglie, e le ho detto che mi sarebbe piaciuto pubblicare quei tre libri il prima possibile, facendole notare che tuttavia non avevo molte risorse. Lei si è assunta subito la responsabilità di fare avere i contratti a Samuel Beckett, e il giorno stesso me li ha restituiti firmati. Era il 15 novembre 1950. Poche settimane dopo, Samuel Beckett passò dalla casa editrice. Giorni dopo, Suzanne mi avrebbe detto che quando lui tornò a casa aveva una faccia cupa. Sorpresa, temendo che fosse rimasto deluso dal contratto con il suo primo editore, gli chiese cosa c'era che non andava. Beckett le rispose che, al contrario, ci aveva trovati molto gentili, e che era disperato al pensiero che la pubblicazione di Molloy ci avrebbe portato tutti alla rovina. Il libro venne pubblicato il 15 marzo 1951. Il tipografo, un cattolico alsaziano,  temendo che l'opera sarebbe stata perseguita per offesa al buon costume, prudentemente omise di indicare il proprio nome alla fine del volume.  Giorni dopo, scrissi a Sam per chiedergli una sua foto e una storia che mi aveva raccontato, entrambe da destinare ai giornali. Egli mi rispose con la seguente lettera:

Caro signor Lindon,
ho ricevuto la sua lettera di ieri mattina. La ringrazio di cuore per il suo generoso anticipo. Ho scattato la foto questo pomeriggio. L'avrò dopodomani e gliela manderò non appena l'avrò ritirata.
So che Roger Blin vuole mettere in scena l'opera. Aveva intenzione di richiedere una sovvenzione per questo. Dubito fortemente che la concederanno. Aspettiamo Godot, ma non per domani.
La prima metà della storia, con il titolo "Escape", è già apparsa su Les Temps modernes, ed è a sua disposizione. Potreste aspettare il mio ritorno? È il mio primo lavoro in francese (in prosa). "L'antidolorifico", che Madame Dumesnil ha fatto avere al signor Lambrichs, è forse più adatto. Lascio fare a voi. Sono felice di sapere che non vede l'ora di pubblicare al più presto "L'Innomable". Come le ho detto, è quello il lavoro che per me conta di più, anche se scrivendolo mi sono cacciato in un bel po' di guai. Cerco di uscirne. Ma non ci riesco. Non so se può diventare un libro. Forse è solo tempo perso.
Mi permetta di dirle ancora una volta quanto sono commosso dall'interesse che dimostrate per il mio lavoro e quanto vi ringrazio per l'impegno che avete messo nel diffonderlo. Riceva i miei più sinceri sentimenti di amicizia.
Samuel Beckett

Dal momento che probabilmente Samuel Beckett potrebbe leggere questa mia sofferta testimonianza, non oserò esprimere qui la mia sconfinata ammirazione e l'affetto che nutro nei suoi confronti. Lo metterei a disagio, e lo sarei anche io. Ma vorrei che si sapesse questo, solo questo: che in tutta la mia vita non ho mai incontrato un uomo in cui nobiltà e modestia, lucidità e gentilezza coesistessero in così alto grado. Non avrei mai immaginato che potesse esistere qualcuno così autentico, così grande, così integro.»

- Jérôme Lindon -  in "Samuel Beckett. Cahier de l’Herne"

domenica 30 marzo 2025

Il Critico come Vigile Urbano !!

Il Critico dell'Ordine
- di Juan Benet -

Alcuni insinuano che stia arrivando una nuova era retorica, simile a quella che l'Impero romano visse durante la dinastia antonina. Ed ecco che così, a un periodo dominato dalla libera creazione, ne seguirebbe solitamente un altro, più interessato allo studio e all'analisi dei testi precedenti, di modo che così, per il critico e il ricercatore, arriva il momento  di occupare quella che nella cultura è la posizione di comando, rimasta vacante a causa dell'abdicazione da parte del narratore o del poeta. Nessuno, quel punto, si stupirà dell'entusiasmo e del fervore con cui il nuovo retore assumerà il comando della prima autorità gerarchica, e non tanto per la brama di potere in sé, quanto piuttosto per le possibilità che questo momento offre per poter esercitare un insegnamento, il quale dovrà essere ricevuto con obbedienza e rispetto. Infatti, la funzione primaria del critico dovrebbe essere quella di insegnare, ma gli è che quando la cultura si trova a essere in gran parte nutrita e sostenuta proprio da coloro che ne disdegnano le regole - e sono più dediti a ricreare e a inventare - ecco che allora. piuttosto che insegnare e informare, il lavoro di insegnamento svolto dal critico si trova spesso offuscato dal disagio causato dalla servitù ai testi , come dire, nei confronti di gusti e maniere che non coincidono con i propri. Quanto può essere frequente allora che il critico nostalgico e amareggiato – similmente all'insegnante incaricato di tenere un corso su una materia che non è la sua e che non gli procura alcun piacere, obbligandolo a uno sforzo supplementare che, come se non bastasse, lo pone anche in una situazione difficile di fronte ai suoi studenti - il quale riesce a parlare solo di confusione e decadenza ogni volta che deve confrontarsi con ciò che sa a malapena giudicare. Pertanto, non stupisce che non appena egli arriva al potere, la prima cosa che intende fare sia quella di imporre la disciplina. In ultima analisi, chi sceglie la critica si autodenuncia: egli di solito è un uomo d'ordine che ama le regole, per il quale non esiste nulla di più emozionante della validità universale di un principio, dell'infallibilità di una dottrina, della sacralizzazione di un nome, o dell'eternizzazione di un valore: vale a dire, ama tutto ciò contro cui la cultura (forse l'unica attività umana che mette in discussione tutto e che, in linea di principio, non deve rispettare nulla) ha sempre combattuto. È per questo che l'epoca retorica è così ben distinguibile: essa inizia proprio nel momento in cui il critico comincia a polemizzare. Non appena - non accontentandosi solo di giudicare la nuova opera - comincia a indicare al creatore di quell'opera quale deve essere la condotta da tenere e il percorso da seguire. Insomma, quando diventa un vigile del traffico.

Non gli basta più insegnare, ora deve imporre. E analogamente a quel che fa quell'insegnante che impone la propria gerarchia oltre i limiti dell'aula, anch’egli non si limita solo a imporre i propri criteri nel campo di una materia, ma pretende che l'allievo si conformi al modello che lui stabilisce per ogni cosa: in che modo debba stare seduto e parlare, quali libri dovrà leggere, a quali dogmi deve credere e quali santi è obbligato a venerare. Poiché, altrimenti, ogni cosa finirebbe per diventare confusione... o decadenza. E alla fine, quando l' atmosfera risulta satura di tutta questa obbedienza a modelli e dottrine, ecco che l'epoca retorica si conclude - e non potrebbe essere altrimenti – poiché finisce per essere solamente una tautologia morale: il Critico, a forza di imporre i propri criteri, finisce per parlare solo di sé stesso. La dottrina sorregge e ingloba i modelli, tanto quanto i modelli inglobano la dottrina... e non c'è nulla di meglio che la disobbedienza, escogitata dall'uomo, per poter uscire da questa situazione soffocante. Il termine che viene usato di solito dal critico (sempre sufficientemente istruito per nascondere la propria genealogia di regime) è sempre lo stesso: confusione il più delle volte, decadenza altre. Così, quando mi capita di sentire le ammonizioni con cui un critico travolto dagli eventi si rivolge al suo pubblico per fargli sapere che, nonostante il caos, lui conserva la giusta misura di virtù; quando leggo quelle frasi sulla “confusione che regna nel mondo delle lettere...”, o sul “percorso di rigenerazione della nostra narrativa”, non mi chiedo nemmeno più come sia possibile che le persone che sembrano conoscere il rimedio a questi mali si lamentino così tanto, anziché mettere in pratica la cura o, quantomeno, proporre al pubblico la loro misteriosa medicina. Sono consapevole del fatto che si tratta solo di modi di dire e che, in fondo, servono solo a nascondere l'intima pochezza dell'indole critica. È fin troppo noto che non esistano rimedi di tale genere; che non esistano strade per la rigenerazione dell'arte fornite dalla teoria, e che un ambiente culturale sarà tanto più ricco e fertile quanto più sarà confuso. Ogni volta che li sento parlare di confusione e di decadenza, penso all'espressione di nostalgia e di ammirazione con cui si ricordano di quell'ordine che regnava nelle aule dei seminari in cui molti di loro si sono formati.

- Juan Benet - da "Articoli (1962-1977", Ediciones Libertarias

sabato 29 marzo 2025

La Direttiva Primaria !!

Confesso che mi ha fatto tenerezza; anche per questo mi sono dedicato a leggerlo, mentre lo traducevo, per poi pubblicarlo sul blog. Non sono d'accordo quasi su niente, a partire proprio da quel materialismo storico di cui fa professione, per non parlare dei "nuvolisti" e della colossale stronzata del suo Tecno-Feudalesimo, che tra l'altro confligge, e non poco, col suddetto Storicismo. Ma mentre lo leggevo, mi sono detto più volte, che sì, valeva la pena farlo conoscere questo Varoufakis lettore e critico di fantascienza. Anche perché è assai meglio - sì lo so che ci voleva poco - dell'economista e dello stratega che cospirava per fare uscire la Grecia dall'Euro! Confesso che mi è sempre stato simpatico Varoufakis, pur non condividendone niente, fino a quella sua "rivoluzione politica" che non riesco bene a capire che cosa mai possa essere, dal momento che quel suo «trasferire la proprietà delle reti tecnologiche all'oligarchia ai comuni» somiglia più a un Frankenstein politico-giuridico che a una “rivoluzione”. Ma non importa, penso che le sue intenzioni siano buone, per quanto non capisca una sega, men che meno di Keynes, e di che cosa egli volesse dire. Ma tant'è... E allora meglio leggersi e gustarsi la sua fascinazione mentre ci racconta i begli episodi di Star Trek, per i quali ha … “goduto”. Non so se qualcuno lo assumerà mai come critico di fantascienza - che ne ha tutta la stoffa! - (anche per impedirgli di scrivere un seguito a quel brutto "romanzo" distopico che ha appena scritto) ma eppure continuo a pensare che in lui ci sia del buono. Magari mi sbaglio. Ma che importa? Leggetelo!!

Star Trek, serie comunista?
di Yanis Varoufakis

Il 9 febbraio 1967, poche ore dopo che l'aeronautica americana aveva raso al suolo il porto di Haiphong e diverse basi aeree vietnamite, la NBC mandò in onda un episodio di Star Trek, portatore di un concetto che si scontrava brutalmente con tutto ciò che era appena accaduto in Vietnam: la Direttiva Primaria, un divieto generale, per i capitani delle loro navi stellari, di utilizzare una tecnologia superiore (militare o di altro tipo) per interferire con qualsiasi comunità, persone o specie senzienti, anche se la non interferenza avrebbe costato loro la vita. Trasformando un'ideologia così tanto radicalmente antimperialista nella regola cardinale dell'immaginaria Federazione Unita dei Pianeti – che il pubblico americano vedeva come una logica prosecuzione degli Stati Uniti – non sarebbe certo stata una sorpresa, se il presidente Lyndon B. Johnson o il Pentagono avessero chiesto l'immediata cancellazione di Star Trek. Per fortuna non l'hanno fatto. E così, nel corso dei 939 episodi (in 12 serie diverse) che da allora sarebbero seguite, "Guideline One" [La Direttiva Primaria] avrebbe permesso, e permise a sceneggiatori e registi, di esplorare quali sarebbero state le sue ripercussioni politiche e filosofiche, ivi compresi quei conflitti etici che poi avrebbero portato alle sue frequenti violazioni, ma mai, tuttavia, alla sua abrogazione. Questo permetteva anche un'altra deduzione: tale Federazione non sarebbe mai arrivata a maturare sufficientemente da adottare la Direttiva Primaria anti-imperialista, se prima non veniva stabilita sulla Terra una versione umanista di comunismo!

Il comunismo libertario di Star Trek contro il collettivismo autoritario
Appare chiaro che Star Trek ritragga una società comunista, pur senza mai nominarla in quanto tale. In un episodio del 1988, la USS Enterprise incontra una nave terrestre ormai arrugginita, con camere criogeniche dentro le quali trova dei plutocrati umani che hanno pagato del fortune per poter essere congelati, e lanciati nello spazio, nella speranza che gli alieni li avrebbero curati dalle loro malattie mortali del ventesimo secolo. Dopo che l'equipaggio dell'Enterprise li ha scongelati e guariti, uno di loro, Ralph Offenhouse, un uomo d'affari, chiede di contattare i suoi banchieri e il suo studio legale sulla Terra. Il capitano Jean-Luc Picard non ha altra scelta se non quella di rivelare come, nei trecento anni trascorsi, molte cose siano cambiate.

- Picard: «Le persone non sono più ossessionate dall'accaparramento di cose. Abbiamo eliminato la fame, la povertà e il bisogno di possesso. Siamo usciti dalla nostra infanzia.»
- Offenhouse: «Voi non capite.Non è mai stata una questione di possesso. Si tratta di potere.»
- Picard: «Potere, per cosa?»
- Offenhouse: «Per controllare la propria vita, il proprio destino».
- Picard: «Tale tipo di controllo è un'illusione.»
- Offenhouse: «Davvero? E allora perché io sarei qui?»

L'allusione, che fa Offenhouse, alla propensione all'accumulazione, che sostiene la volontà di potenza, indica il motivo per cui la Prima Direttiva è incompatibile con lo spirito del capitalismo: fina che l'accumulazione, la quale alimenta l'espansione dei mercati, sarà la forza trainante, e l'ideologia della nostra società, l'imperialismo sarà inevitabile. Per sfuggire a tutto questo, l'umanità dovrà prima eliminare la scarsità di beni materiali; un'eliminazione questa, che, nella Federazione Unita dei Pianeti, è stata raggiunta grazie all'invenzione e alla diffusione dei replicatori: macchine che convertono l'abbondante energia verde in qualsiasi forma di materia desiderata, dal cibo, ai gadget, alle astronavi. Questa non è esattamente proprio un'idea nuova. Già nel 350 a.C., Aristotele aveva predetto che ... «se ogni strumento potesse svolgere il suo lavoro per sé stesso, obbedendo o anticipando la volontà degli altri, come facevano le statue di Dedalo o i tripodi di Efesto che - dice il poeta - "per loro propria volontà erano entrati nell'assemblea degli Dei"; e se, allo stesso modo, la spola tessesse e il plettro suonasse la lira senza mani che li guidino, i padroni non avrebbero bisogno di servi, né i padroni di schiavi.» Karl Marx, che era egli stesso un appassionato aristotelico, basava la propria visione di una società comunista liberatrice – nella quale sia lo Stato che il mercato languiscono – su delle macchine simili ai replicatori di Star Trek, che in tal modo ci liberino dal lavoro non creativo e schiacciante dell'anima. In uno dei suoi primi scritti, immagina cosa sarebbe successo in seguito all'invenzione di tali macchine: «Nella società comunista, dove nessuno è confinato in una sola sfera di attività, ma può dedicarsi a qualsiasi campo desideri, la società regola la produzione totale, e così posso la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza per questo diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.» [L'ideologia tedesca, 1845]. Così, quando incontriamo il padre del capitano Benjamin Sisko, che nel XXIV secolo gestisce un ristorante creolo a New Orleans solo perché ama l'espressione di gratitudine sui volti degli avventori che amano il suo cibo – gratis, ovviamente, perché il denaro è ormai diventato obsoleto - quelle che sentiamo riecheggiare sono le parole di Marx. Esse trovano eco anche nella risposta data da Picard a Offenhouse che, dopo aver appreso che sarebbe stato rimandato su una Terra essenzialmente comunista, chiede preoccupato: «Che ne sarà di me? Non c'è più traccia dei miei soldi. Il mio ufficio non c'è più. Cosa farò? Come vivrò? Quale sfida dovrò affrontare?» - «La sfida, signor Offenhouse», risponde Picard in tono incoraggiante, «è migliorare sé stesso, arricchirsi. Buon divertimento!»: senza dubbio, Marx avrebbe applaudito vigorosamente. “Gioia” non è certo una parola che faccia naturalmente rima con comunismo, almeno non con quello sovietico. Ma nella versione del comunismo di Star Trek il piacere è un elemento centrale, in quanto rifiuta l'idea che per sfuggire alla logica dell'accumulazione sia necessario che gli individui si sottomettano a una comunità. Questo, gli sceneggiatori di Star Trek lo illustrano in maniera brillante, contrapponendo alla Federazione – composta da individui creativi che scelgono liberamente i propri progetti e i loro partner – i "Borg", un collettivo distopico di cyborg interconnessi in un ordine sociale simile a un alveare, il quale si espande assimilando ogni specie che incontra. Evitando critiche semplicistiche al collettivismo, Star Trek si limita a rifiutarlo, pur senza ignorarne il fascino. Quando la capitana Kathryn Janeway salva un drone Borg ("Sette di Nove") dal Collettivo, assistiamo al suo traumatico ritorno all'umanità. Dopo essere stata svincolato dal Collettivo, soffre di sintomi di astinenza debilitanti, dal momento che gli manca disperatamente quella voce collettiva nella sua mente; un promemoria di quanto possa essere pericolosamente seducente, per chi è solo, l'autoritarismo. Ma anche di quanto sia necessario pagare il prezzo dell'individualità, anche a rischio della solitudine; la quale può essere combattuta solo grazie all'amicizia e al lavoro creativo.

La teoria materialista storica del cambiamento in Star Trek
Per avere un'utilità pratica, qualsiasi manifesto deve poter offrire una teoria del cambiamento, e non solo la visione di uno splendido futuro. Star Trek non si sottrae a questa responsabilità. Pur rispettando la Direttiva Primaria, la Federazione osserva da vicino quale sia l'evoluzione delle specie primitive in tutta la galassia, alla ricerca di indizi che richiamano la storia umana stessa. Inoltre, offre una teoria coerente dell'evoluzione sociale basata su dei solidi principi storici materialistici. Si consideri, ad esempio, l'episodio in cui la USS Voyager rimane bloccata nel campo gravitazionale di uno strano pianeta, in cui il tempo sulla superficie passa assai più velocemente di come avvenga sulla nave orbitante. Ben presto la capitana Janeway e i suoi ufficiali si rendono conto che per ogni loro minuto, gli umanoidi primitivi del pianeta sperimentano 58 albe. Ragion per cui, l'equipaggio assiste, in movimento accelerato, all'evoluzione di quella società. Ciò che vedono è una riproduzione di quella che è stata la storia umana, di come le innovazioni tecnologiche si scontrino con le superstizioni e con le obsolete relazioni sociali di sfruttamento, generando rivoluzioni, progresso, ma anche guerre e disastri ambientali. A volte, sembra quasi che le specie osservate - come l'umanità - possano autodistruggersi. Ma in quello che è un lieto fine, riescono anche a superare il proprio imperialismo e le proprie voglie di accumulazione, mettendo le nuove tecnologie al servizio del bene comune; tra le quali anche la liberazione della Voyager, e pertanto il suo viaggio di ritorno a casa. Un'altra strategia narrativa - per mostrare in che modo un comunismo lussuoso e liberatorio possa essere emerso nel XXI secolo - è stata quella di utilizzare il viaggio nel tempo in modo da tornare così al nostro prossimo futuro. E il XXI secolo si è dimostrato piuttosto brutale. Negli episodi andati in onda nel 1995, scopriamo le rivolte di Bell, quelle che, nel settembre 2024, hanno posto fine a un sistema di apartheid a San Francisco, dove i poveri, i malati e gli emarginati della città erano stati confinati in un ghetto. Questa ribellione, insieme a una devastante terza guerra mondiale, avrebbe però messo l'umanità sulla strada dell'eliminazione di ogni nazionalismo, del capitalismo e, infine, anche dell'espansionismo. Forse gli spunti più interessanti emergono allorché gli sceneggiatori ci portano ai confini della Federazione, laddove i loro esploratori incontrano – e spesso combattono – civiltà che si trovano in dei primitivi stadi di sviluppo, o dove sono state create tirannie tecnologicamente avanzate. Lì, al confine, le specie aliene ci offrono occasioni di introspezione, come i "Bajoriani", appena usciti dalla brutale occupazione dei "Cardassiani", una specie suprematista che governava Bajor avendola ridotta a una colonia penale, con campi di concentramento e impulsi genocidi. In un episodio che potrebbe essere facilmente adattato al palcoscenico sotto forma di un atto unico, vediamo un combattente per la libertà bajoriano identificare un ex mostro che svolgeva il suo lavoro di aguzzino nel campo di concentramento cardassiano, adoprarsi instancabilmente per portarlo davanti a un tribunale per i crimini di guerra della Federazione-Bajor. Con un colpo di scena emotivamente devastante, la sceneggiatura offre una catarsi inaspettata, ricordandoci che la buona fantascienza non riguarda tanto il futuro, ma quanto sia piuttosto uno strumento straordinario per poter rivisitare il nostro passato. Non riesco a pensare a un altro programma televisivo che, in quaranta minuti, possa educare così bene i giovani sugli orrori dell'Olocausto. In orbita attorno a Bajor, c'è una stazione spaziale gestita dalla Federazione (DS9), dove diverse specie si mescolano per commerciare; un punto d'incontro tra la federazione comunista, il post-denaro e il post-lavoro salariato, e altre civiltà per le quali l'accumulazione e il profitto sono ancora centrali. Su questa stazione spaziale c'è un bar malfamato gestito da Quark, un "ferengi", che tratta i suoi lavoratori come bestiame senza alcun valore di mercato. Finché suo fratello, che lavora anche lui nel bar, si stanca della situazione e invita i suoi colleghi a formare un sindacato e a scioperare per i diritti fondamentali. Quando il suo capo-fratello cerca di corromperlo, lui prende un tablet e legge lentamente dallo schermo qualcosa che ha scaricato: «Lavoratori di tutto il mondo, unitevi! Non avete nulla da perdere se non le vostre catene!» Per Quark, come per tutti i ferengi, il neoliberismo è più di un'ideologia, e meno di una religione secolare: è una cultura, un modo di essere. Svolgendo con il massimo umorismo la loro critica al neoliberismo, gli scrittori di Star Trek dipingono i Ferengi come umanoidi incapaci di differenziarsi dall'Homo Economicus. A giudicare dal lavoro degli scrittori nel compilare tutte le 285 Regole di Acquisizione Ferengi – il loro libro sacro – devono essersi divertiti parecchio. Ecco un esempio:

"Il profitto è la sua propria stessa ricompensa" (41)
"Nutri la tua avidità, ma non fino al punto di soffocarla" (43)
"Espandi o muori" (45)
"Lo sfruttamento diviso per il tempo è uguale al profitto" (54)
"Trattate i debitori come una famiglia... e sfruttarli" (111)
"Un ricco può comprare tutto tranne una coscienza" (261)
"La guerra fa bene agli affari" (34)
"La pace anche fa bene agli affari" (35)

Per bilanciare il brutalismo neoliberista dei Fereng ,con degli scorci di un'altra forma di tirannia (la versione burocratico-centralista), Star Trek ci trasporta su un pianeta non federato, e lo fa insieme al medico della USS Voyager, rapito e costretto a lavorare in un ospedale dove scopre con orrore che le cure mediche vengono distribuite rigorosamente in base a quello che è un "indice di valore sociale" del paziente: un numero che viene calcolato da un computer controllato centralmente, la cui programmazione rispecchia la valutazione burocratica del "merito" di ogni cittadino. Esternalità ambientali negative, compaiono anche ai confini, la dove termina la giurisdizione della Federazione. Due scienziati alieni, derisi come eccentrici, dimostrano che i veicoli spaziali federali e non federali a velocità di curvatura (cioè al di sopra della velocità della luce) danneggiano gravemente il tessuto del continuum spazio-temporale. Quando il capitano Picard conferma la validità delle loro scoperte, cerca di convincere la Flotta Stellare a ridurre i danni, rallentando o addirittura immobilizzando le navi. Facendo eco alle attuali argomentazioni contro la legislazione sulle emissioni zero («Se il Sud del mondo continua a bruciare carbone, perché l'Occidente dovrebbe sostenerne i costi?»), vediamo che il governo della Federazione appare riluttante ad agire unilateralmente, senza misure equivalenti da parte di altre civiltà.

L'intelligenza artificiale e il significato di essere umani
Alla maniera hegeliana, Star Trek mette in discussione la nostra umanità, e lo fa posizionando ufficiali alieni sulle navi federali, costringendo gli esseri umani a vedere sé stessi attraverso esseri che hanno delle filosofie radicalmente diverse (come i Vulcaniani - Spock, Tuvok e T'Pol - la cui capacità di reprimere le emozioni è raffinata). Tuttavia, lo scontro più rilevante per la nostra epoca si verifica allorché il tenente comandante Data viene introdotto sul ponte della USS Enterprise. Data è un androide super-intelligente incapace di provare sentimenti, ma animato da un intenso desiderio di comprendere gli esseri umani. Nella sua ricerca dell'umanità, Data studia non solo il nostro comportamento, ma anche l'arte, la musica, il teatro e la letteratura. Pertanto diventa, non solo un membro prezioso dell'equipaggio, ma anche, nell'era dei modelli linguistici e dei chatbot come GPT, una figura drammatica volta ad alimentare il nostro dibattito sull'intelligenza artificiale. Ben presto sorge la domanda: i "Data" hanno dei diritti? Quando un laboratorio federale gli chiede di sottoporsi a uno smontaggio in modo da replicarlo (e così dotare di un Data ogni nave), lui rifiuta. Dopo aver sentito che i suoi ricordi sarebbero stati conservati in upload, Data ribatte con un argomento che ricorda il rifiuto del materialismo volgare di Noam Chomsky : «C'è una qualità ineffabile nei ricordi, che non sopravviverà alla tua procedura», dice al capo del laboratorio. Quando lo scienziato sostiene che Data deve obbedire, Picard chiede che sia un tribunale a decidere se l'androide ha il diritto di rifiutare, offrendosi di essere lui il suo avvocato. Nella sentenza, il giudice definisce quello che è il nocciolo della questione: i dati sono proprietà o hanno una loro autonomia (o "anima", come afferma drammaticamente). L'avvocato del laboratorio sostiene invece che Data è solo una macchina con un software sofisticato, che simula la senzienza. Riguardo al rifiuto di "costui" a collaborare, egli chiede al giudice: «Permettereste al computer della sua nave di rifiutare un reset?» Picard si rende conto di trovarsi di fronte a un muro. Durante una pausa, dopo aver parlato con il barista della nave (interpretato da Whoopi Goldberg), Picard ha un'intuizione. Decide di concentrarsi sul piano della Flotta Stellare di replicare Data in modo da creare un "esercito” di Data. «Quando creeremo migliaia di Data», chiede alla corte, «ci sarà un punto a partire dal quale diventeranno una razza? E da quel momento in poi noi saremo giudicati per come trattiamo quella razza? Ora ditemi: cos'è un Data? O meglio, chi è Data?» «Una macchina», risponde il suo avversario. E Picard fa il suo appello finale:

  «Vostro Onore, questo tribunale è un crogiolo in cui si bruciano le cose irrilevanti per poter estrarre la pura verità. Prima o poi, questo o un altro laboratorio replicherà il tenente comandante Data. La decisione di oggi determinerà il modo in cui vediamo quella che è la nostra stessa creatura. Rivelerà chi siamo. Ridefinirà i limiti della libertà, estendendola per alcuni e limitandola brutalmente per altri. Siete pronti a condannare lui, e tutti coloro che verranno dopo di lui, alla servitù?» Poi, infine, fissa uno sguardo penetrante sul giudice e conclude: «La Flotta Stellare è stata fondata per scoprire nuove forme di vita». E indicando Data: «Beh, lì ce n'è uno. Che sta aspettando». Il processo si conclude con il verdetto che sostiene non ci sia alcun ragionevole dubbio sulla non senzienza del Comandante Data, concedendogli il diritto di rifiutare lo smontaggio. Ma Star Trek non aderisce al pan-psichismo: riconosce che un'I.A. in grado di superare il test di Turing (come Chat-GPT) non equivale ad essere senziente. La Federazione Unita dei Pianeti non è un'utopia. Il nemico interno – la xenofobia – rimane latente, pronto a infangare l'umanesimo della Federazione, e persino a revocare la Direttiva Primaria. Quando l'equipaggio della USS Enterprise ritorna da una missione contro il letale Xindi, c'è una folla umana che vuole linciare il medico denobulano della nave, in un chiaro crimine d'odio contro un alieno. Poco dopo, sulla Luna, una cellula terroristica suprematista umana minaccia di tenere in ostaggio l'umanità fino a che tutti gli alieni non lasceranno la Terra. E non sono solo gli estremisti e gli specisti a minacciare la Federazione: gli stessi servizi segreti, come la Sezione 31, mettono in serio rischio comunismo libertario della Federazione. Eppure, come una sfida piena di speranza, i valori comunisti umanisti della Federazione persistono. La domanda è: a parte l'intrattenimento, i quasi 1.000 episodi di Star Trek offrono qualcosa alla sinistra morente di oggi, nella sua lotta per rimanere rilevante di fronte all'IA, alla xenofobia di massa, alla nuova guerra fredda e all'emergenza climatica? La risposta è sì. Per l'attuale sinistra, la lezione principale è quella di evitare tanto la tecnofobia conservatrice quanto l'errore dei tecno-ottimisti liberali, i quali si concentrano sulla tecnologia senza capire che tutto viene ridotto ai diritti di proprietà e alle lotte politiche che li circondano.

   Nel 1930, nel bel mezzo della Grande Depressione, John Maynard Keynes osò sognare che, entro la fine del XX secolo, il progresso tecnologico avrebbe sradicato la scarsità, la povertà e lo sfruttamento. In "Prospettive economiche per i nostri nipoti", egli immaginò un mondo in cui il "problema economico" dell'umanità sarebbe stato risolto: «Per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti,come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza». Keynes fallì, non a causa della mancanza di tecnologia, ma perché i diritti di proprietà sulle macchine erano concentrati nelle mani di una piccola minoranza. C'è da meravigliarsi che né la scienza né l'interesse composto siano riusciti a liberarci dalla scarsità, dalla povertà o dalla guerra? Oppure che, invece del keynesiano "benessere comune", l'umanità si sia avvicinata all'episodio d "Cloud Minders" ["I signori della nuvola"], dove le élite vivono in un paradiso sospeso tra le nuvole mentre gli altri lavorano come trogloditi nelle miniere sotterranee? (Nota di  Varoufakis: "quell'episodio mi ha ispirato, in 'Tecno-feudalesimo', a chiamare l'élite della Silicon Valley col nome di "cloudalisti"). Star Trek non ripete gli errori di Keynes o dei tecno-feticisti. Il capitale, il cloud e l'intelligenza artificiale sono le condizioni necessarie ma insufficienti per la nostra liberazione. Per renderli sufficienti, si renderà necessaria una rivoluzione politica che trasferisca la proprietà delle reti tecnologiche dall'oligarchia ai Comuni. E, come Star Trek dimostra con forza, la nostra liberazione dipende anche dal non cadere nella trappola del collettivismo autoritario. La sinistra morente di oggi farebbe bene a trarre ispirazione dall'abbraccio coraggioso con cui Star Trek abbracciava un comunismo umanista e antiautoritario.

- di Yanis Varoufakis - Pubblicato su "Outras Palavras" il 29/3/2025 -

giovedì 27 marzo 2025

Dentro... il Processo!

Kafka, la verità e la necessità della legge
- di Natalino Irti -

«Davanti alla legge c’è un guardiano. A questo guardiano si presenta un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può consentire l’ingresso. L’uomo riflette e poi chiede se allora potrà entrare più tardi. “È ‘possibile’, dice il guardiano ‘non ora, però». Questo è l’inizio del racconto Davanti alla legge, che Kafka inserì in un capitolo de il Processo come tema di dialogo fra il protagonista Josef K. e un sacerdote. Racconto, o piuttosto parabola, che reca nel romanzo una tonalità di religioso mistero. Il guardiano avverte il campagnolo che egli non è l’ultimo dei custodi, e perciò non è scansabile o eludibile, poiché vi sono, di sala in sala, «altri guardiani, uno più potente dell’altro». Allora il piccolo e smarrito visitatore siede di fianco alla porta su uno sgabello, offertogli dal guardiano, per anni ed anni. Dapprima maledice la sorte a voce alta, e poi, fattosi vecchio e stanco, si riduce a brontolare fra sé e sé. La vista gli si indebolisce, e non sa se il buio d’intorno si addensi più fitto. «Ma ora scorge nell’oscurità un chiarore che erompe inestinguibile dalla porta della legge». È alla fine della vita, e sulle labbra gli viene una sola domanda mai posta al guardiano, che lo reputa insaziabile nel suo desiderio di sapere: «tutti vogliono giungere alla legge, come mai in questi anni nessuno oltre a me ha chiesto il permesso di entrare?». E il guardiano gli urla: «Nessun altro poteva ottenere il permesso di entrare qui, perché questo ingresso era destinato solo a te. Ora vado e lo chiudo».

   Tutto è controverso nella critica kafkiana: il carattere ebraico della parabola, l’ansia di sapere del campagnolo, il divieto del guardiano, la lunga attesa dinanzi alla porta. Vi domina il rapporto diretto tra il campagnolo e la Legge: la quale non si dà a tutti, come cosa fruibile da qualsiasi uomo, ma è accessibile soltanto dall’individuo che sappia attendere la propria ora. E questa può non giungere mai. Tra il singolo e la Legge c’è il guardiano, sistema organizzato di controlli e divieti. Che è il “tribunale” del romanzo, e l’apparato burocratico dei “funzionari”, oscuri e servili. Il campagnolo – nota Giuliano Baioni, uno fra gli interpreti più sottili della parabola – non può avere “conoscenza”, ma solo “esperienza” della Legge, arcana misura della vita, non raggiungibile dall’individuo. La collocazione della parabola in un decisivo e splendido capitolo del romanzo obbedisce a una rigorosa logica narrativa e alla intelaiatura metaforica dell’opera kafkiana. Ne il Processo la Legge non è conosciuta da Josef: essa è la norma, che si rivela soltanto nel suo concreto e crudele attuarsi (l’arresto e l’esecuzione capitale dell’incolpevole Josef); non si discopre come criterio di condotta e di giudizio, ma sta, remota e inaccessibile, in inviolabile oscurità. Qui, al pari di altri innumerevoli luoghi, si esprime il tragico profetismo di Kafka, la capacità di scorgere il destino della nostra epoca, dove la legge, ormai disciolta da fonti religiose e metafisiche, e custodita da guardiani superbi di capacità interpretante, è lontana e remota dagli umili campagnoli. Inserita nella trama del romanzo, la parabola si fa più ardua e complessa, sollevando l’interrogativo, se sia “ingannato” il campagnolo o il guardiano, o se sia da ammirare più la libertà dell’uno o la servile dedizione dell’altro. Il guardiano, appunto come custode, è indissolubilmente vincolato alla Legge e al suo apparato di protezione; il campagnolo può andarsene libero, sciolto da qualsiasi rapporto di dipendenza: «chi è libero è superiore a chi è legato». Il guardiano ha tratti di semplicità e di superbia: ascolta, sì, ma consapevole e fiero del suo potere, sicché Kafka può, con magia di parola, enunciare la massima: «La giusta comprensione di una cosa e l’incomprensione della cosa stessa non si escludono». Mentre le parole del sacerdote dialogante esaltano il servizio reso dal guardiano alla Legge, e la dignità che perciò ne deriva e protegge, Josef rifiuta di prender per vero tutto quello che dice il custode: «No – replica il sacerdote – non bisogna prendere tutto per vero, bisogna solo prenderlo per necessario». È un pensiero di estrema profondità, che tocca la ragione stessa dell’obbedienza alla Legge, di cui non si controlla verità o falsità, ma si avverte la costrittiva necessità. Risuona, resa più dolorosa, la massima romana; “pro veritate accipitur”: la sentenza, quale che ne sia il contenuto, è, essa stessa, verità vincolante, necessità a cui il convivere non può sottrarsi. La pagina di Kafka appartiene intera al nostro tempo.

Natalino Irti - Pubblicato su Domenica del 9/6/2024 -

mercoledì 26 marzo 2025

La forza del muscoli algoritmici, e noi…

Da qualche tempo abbiamo appreso che esiste un problema chiamato “capitalismo della sorveglianza”, cioè il business del controllo, dell’estrazione e della vendita dei dati degli utenti che è esploso con l’ascesa dei giganti tecnologici Google, Apple, Facebook e Amazon. E se il capitalismo della sorveglianza non fosse un capitalismo disonesto o una svolta sbagliata presa da alcune aziende deviate? E se il sistema funzionasse esattamente come previsto e l’unica speranza di ripristinare un web libero fosse quella di combattere direttamente il sistema stesso? Doctorow sostiene che l’unica possibilità che abbiamo è distruggere i monopoli che attualmente costituiscono il web commerciale così come lo conosciamo, per tornare a un web più aperto e libero, in cui la raccolta predatoria dei dati non sia un principio fondante.

(dal risvolto di copertina di: CORY DOCTOROW, "Come distruggere il capitalismo della sorveglianza". MIMESIS, Pagine 156, €16)

Una legge non batte da sola i muscoli dell’algoritmo
- di Federica Colonna -

«Non c’è sorveglianza statale di massa senza sorveglianza commerciale di massa». Lo scrive Cory Doctorow, ricercatore al Mit Media Lab, autore di fantascienza, attivista per i diritti digitali, co-fondatore del gruppo britannico Open Rights e consulente speciale della Electronic Frontier Foundation, organizzazione internazionale per la tutela della privacy e delle libertà online. In "Come distruggere il capitalismo della sorveglianza" spiega perché le azioni intraprese finora a livello globale per limitare il controllo degli utenti online non siano mai state davvero efficaci. La raccolta predatoria di dati non è una deriva di alcune aziende deviate, al contrario: è alla base del web per come lo conosciamo oggi. Il sistema, scrive l’autore, funziona esattamente nel modo in cui è stato programmato per funzionare e a garantirne l’efficacia e la continuità è la posizione di monopolio di giganti tecnologici come Google, Amazon, Meta il cui modello di business si fonda sulla raccolta delle informazioni di chi naviga. In altri termini: il capitalismo della sorveglianza — il modello economico che configura l’esperienza umana digitale come materia prima — non è un errore ma il principio fondante della Rete contemporanea. Se questa è la chiave, non è possibile riformare internet: l’unica via è radicale e consiste nello smembrare il monopolio per disegnare un web aperto, libero, diverso a partire dalle fondamenta. La tesi di Doctorow è radicata nella nostra vita quotidiana. Tutti noi facciamo esperienza del tracciamento basato su quella che nel dialogo tra l’autore e Taylor Owen del Center for International Governance Innovation viene definita «la forza dei muscoli algoritmici». Ogni giorno, infatti, trascorriamo una porzione del nostro tempo su social il cui interesse aziendale è intrattenerci il più a lungo nel flusso di informazioni per aumentare la possibilità di sottoporci almeno un annuncio che ci interessi davvero. Gli smartphone, «oggetti rettangolari di distrazione di massa che teniamo nelle tasche», con il loro ronzio perenne sono lì a richiamare la nostra attenzione quando ci distraiamo per tornare a immergerci nella valanga di contenuti online. Solo così, spiega l’autore, Instagram o TikTok riusciranno a carpire le informazioni necessarie per riuscire a «proporre a una cheerleader proprio l’uniforme da cheerleader che cercava». «Essere in grado di indirizzare gli annunci — spiega Doctorow — non rende però le piattaforme capaci di controllo mentale», come una certa corrente di pensiero sostiene. Semplicemente la capacità di vendere frigoriferi a chi ha appena comprato casa e scarpe da corsa, al runner mostra l’efficacia del meccanismo predatorio alla base del web commerciale. «Le piattaforme non hanno il potere di rendere tuo zio un razzista», ha dichiarato Doctorow alla «Columbia Journalism Review», ma di certo possono proporgli il barbecue adatto per le sue indimenticabili domeniche in famiglia. Attenzione, però. Che Facebook e Amazon non abbiano nascosti poteri psicologici — non esistono prove scientifiche per dimostrarlo, scrive l’autore — non significa che non esercitino un potere incisivo sulle nostre libertà. «L’arma che hanno non è la macchina dell’influenza, è il monopolio», spiega Doctorow. Non solo un pugno di aziende costringe gli utenti a comprare le App nei loro App store, domina i risultati di ricerca e mercifica le nostre relazioni tenendole ostaggio di spazi circoscritti, «i giardini recintati dei social». Proprio grazie ai profitti che la loro posizione di mercato garantisce, esercitano pressione politica per orientare la regolamentazione in ambito tecnologico che le riguarda. Siamo di fronte a un enigma normativo, scrive l’autore. Se non dalla legge, da dove passa infatti la possibilità di rifondare la Rete sulla base di nuovi principi? Ostacolare le acquisizioni che limitano la concorrenza non basta. Il capitalismo della sorveglianza è ovunque, pervasivo, e non è riformabile. Smembrarlo, per Doctorow, è l’unica scelta possibile. Da prendere ora.

- Federica Colonna - Pubblicato su La Lettura del 9/6/2024 -

martedì 25 marzo 2025

Omero babilonese ??!!!

«Non erano ancora trascorsi due o tre giorni, allorché mi rivolsi al poeta Omero - visto che entrambi non avevamo niente da fare - e, tra le altre cose, gli chiesi da dove veniva, essendo questo ancor oggi l'argomento più indagato tra noi. Lui dichiarò di essere consapevole del fatto che alcuni tra noi pensavano che fosse di Chio, altri di Smirne e molti di Colofone. Disse però di essere babilonese, e che tra si suoi concittadini non veniva chiamato Omero, ma Tigrane; e che solo in seguito, essendo divenuto ostaggio dei Greci, aveva cambiato nome [*Nota: in greco, la parola "homeros" può significare "ostaggio"]. Inoltre, gli chiesi anche a proposito di alcuni versetti spuri, se fossero stati scritti da lui. Egli dichiarò che erano tutti suoi. Fu a quel punto che mi resi allora conto della grande follia dei grammatici seguaci di Zenodoto e di Aristarco [**Nota: [qui, Luciano prende in giro due filologi alessandrini: Zenodoto di Efeso (ca. 333-260 a.C.), primo redattore di Omero, e Aristarco di Samotracia (ca. 216-144 a.C.), il quale aveva escluso dal testo omerico alcuni versetti che non venivano considerati autentici da entrambi]. Inoltre, volevo sapere se era vero che avesse scritto l'Odissea, prima dell'Iliade, come molti dicono. Lui lo negò. Invece, del fatto che non era cieco - cosa di cui si diceva di lui - l'avevo capito subito, dal momento che l'avevo visto coi miei occhi, in modo tale che non ho avuto alcun bisogno di fare delle domande in proposito. L'ho fatto spesso altre volte, di fargli delle domande, ogni qual volta mi capitava di vederlo che non faceva nulla. Mi avvicinavo, lo interrogavo e lui rispondeva volentieri a tutto, soprattutto dopo il processo,  dal momento che era stato assolto. Si trattava di una calunnia contro di lui, fatta da Tersite, per averlo ridicolizzato nel suo poema, da cui Omero venne assolto, avendo Ulisse come suo avvocato»

(da: "Biografia Literária: Luciano de Samósata", di Jacynto Lins Brandao (Editor) - "Das narrativas verdades: segundo livro", UFMG Press, 2015, p. 168-169)

Nella favola di Luciano di Samosata, relativa al suo incontro con Omero – la quale si svolge nel suo romanzo "Storia vera", parodia satirica e ironica dei testi fantastici del passato e delle varie credenze – l'aspetto più interessante risiede nell'origine "straniera" che egli attribuisce al poeta. L'incontro si svolge sulla "Isola dei Beati", dove sono presenti, tra gli altri, anche Pitagora, Ulisse, Socrate. Questo voler diluire la solennità delle origini è molto interessante: Luciano salva nell'aldilà colui che è senz'altro il poeta originario per eccellenza, vale a dire, Omero, il quale funge da esempio e da depositario di saggezza per tanti autori dei più svariati generi; e nel farlo sottolinea però che egli non era un greco, ma un barbaro: solo dopo essere diventato «ostaggio dei Greci», ossia "schiavo di guerra", egli cambia nome ... e così via (tutto il movimento di Luciano consiste già in sorta di una parodia tuffandosi negli inferi alla ricerca di rivelazioni e scoperte, come la catabasi del Canto XI dell'Odissea, o il Canto VI dell'Eneide di Virgilio). L'ironica ricostruzione, che Luciano fa delle origini di Omero, ha forse qualcosa a che fare con quello che, di Omero, era stato il suo primo traduttore in latino, Livio Andronico. Nato intorno al 284 a.C., in quella città che oggi è Taranto, Andronico fu fatto prigioniero quando i Romani invasero la città nel 272; da lì viene portato come schiavo a Roma, e inizia a lavorare per la famiglia Livia, facendo da maestro per i figli del suo padrone: fu in questa "condizione pedagogica" che egli rese conto della mancanza di materiale adeguato per poter svolgere l'esercizio della professione: pertanto, a causa di questa insufficienza,  intorno al 240 a.C., decise di tradurre in latino l'Odissea di Omero.

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 24 marzo 2025

De-Frontierizzare il Mondo !!

Brutalismo, la fase suprema del neoliberismo
- di Amador Fernández-Savater -

«Ciò che è significativo non è ciò che mette fine e consacra, ma ciò che dà inizio, che annuncia e prefigura.»
Achille Mbembe
 

In che epoca viviamo? Come descriviamo il nostro tempo? Per il pensiero critico, c'è qualcosa di decisivo in gioco, in questa questione dei nomi. Nei nomi dell'epoca. È la mappa dei nomi, quella che guida le strategie, che indica i movimenti dell'avversario, e rivela le possibili resistenze. Che cos'è che stiamo affrontando oggi? E se non sappiamo come si chiama, come potremo fare a combatterla? Il pensatore camerunese Achille Mbembe, per farlo,  propone il termine "brutalismo". Proveniente dall'universo dell'architettura, dove esso definisce uno stile di costruzione massiccio, industriale e altamente inquinante, il termine brutalismo - in quanto immagine del mondo contemporaneo - dà il nome a quello che appare come un processo di guerra totale contro la materia. La diagnosi di Mbembe non è semplicemente politica o economica, culturale o allo stesso tempo antropologica, ma è piuttosto una diagnosi riferita alla civiltà, ed è pertanto cosmica, cosmopolitica. Designa la relazione dominante con l'esistente. È una relazione di forzatura e di estrazione, di sfruttamento intensivo e di depredazione. Il mondo è diventato una gigantesca miniera a cielo aperto, e la funzione dei poteri contemporanei - dice Mbembe - è quella di «rendere possibile l'estrazione». Del Brutalismo, esiste una versione di destra e una versione progressista, ma entrambe, con un'intensità e con delle modalità diverse, gestiscono la medesima impresa di perforazione. Perforazione dei corpi e dai territori, svolta attraverso il linguaggio e il simbolico. Un nuovo imperialismo? Sì serto, però questo, stavolta, non istituisce più - o costruisce - una civiltà dei valori, una nuova idea del Bene, o una cultura superiore, ma piuttosto ciò che fa, è fratturare e spaccare i corpi – individuali, collettivi, terrestri – per estrarre da essi ogni tipo e genere di energia, fino all'esaurimento, minacciando così la «combustione del mondo». Mbembe identifica, a livello planetario, quali sono le tendenze che influenzano l'umanità nel suo complesso. Ma nel farlo, tuttavia, pensa a partire da un luogo particolare: l'Africa, la sua storia, le sue ferite e le sue resistenze. Il mondo intero oggi sta vivendo un «divenire nero», in cui la distinzione tra l'essere umano, la cosa e la merce tende a scomparire. Lo schiavo nero prefigura una tendenza globale. Siamo tutti in pericolo.

Economia libidica brutalista
Che tipo di essere umano, di soggettività e di desideri, vuole produrre il brutalismo contemporaneo? Da un lato, coltiva il folle progetto di sradicare l'inconscio; «quell'immensa riserva notturna con cui la psicoanalisi ha cercato di riconciliarci». Il corpo umano non è un mero corpo biologico, neuro-chimico, ma è anche «materia sognata» (Leòn Rozitchner) che anela, che fantastica, che utopizza. L'inconscio è una buccia di banana sul pavimento di ogni piano di controllo, inclusi quelli che ciascuno esercita su sé stesso. Qualsiasi cosi, lo devia, lo distorce, lo complica. Bisogna estirpare una simile dimensione ingovernabile, catturare nelle reti dei dati tutte le forze e le potenzialità umane, mappare interamente la materia fino a che la mappa non sostituirà il territorio. Il brutalismo punta alla digitalizzazione integrale del mondo, dissolvendo così l'inconscio (quello che ci rende unici e irripetibili) nell'algoritmo, nel numero, nel dominio del quantitativo. Abolire il mistero che noi siamo, e sbiancare la notte. Tuttavia, con questo, l'unica cosa che ottiene è lasciare la strada aperta agli impulsi più oscuri e distruttivi. Perché? La razionalizzazione generale – la digitalizzazione, l'algoritmizzazione, la protocollizzazione – blocca tutte le energie affettive e amorose, blocca quella potenza dell'Eros che per Freud è l'unico contrappeso possibile rispetto a Thanatos. Il progetto della sradicazione dell'inconscio provoca una de-sensibilizzazione generale. L'indifferenza al dolore degli altri, il gusto di ferire e uccidere, per vedere soffrire. La crudeltà e il sadismo sono i  tratti chiave dei poteri contemporanei. In un capitolo particolarmente agghiacciante, Mbembe parla del "virilismo" contemporaneo. L'economia libidica del brutalismo non passa più attraverso la repressione o il contenimento delle pulsioni, ma attraverso la mancanza di freni, la disinibizione, la de-sublimazione e l'assenza di limiti. Dire tutto, fare tutto, mostrare tutto e goderne. Il virilismo configura una zona frenetica - dice Mbembe - dove non c'è alcuna traccia dei vecchi sensi di colpa, o di pudore o di inibizione. Una figura, forse esprime tutto ciò, meglio di ogni altra: il trionfo dell'immagine del padre incestuoso sulle pagine pornografiche. Tornando indietro: se l'assassinio del padre dispotico, per mano dei suoi figli, aveva significato per Freud il passaggio alla civiltà, al limite e alla legge, ecco che oggi il fantasma di quel padre violento ripopola i desideri più oscuri. Ieri, il principio di realtà (il mandato paterno) ci aveva costretto a rinunciare, o a rimandare il piacere, a sostituirlo con una compensazione sublimatrice. Oggi, esige da noi tutto il contrario: non posporre, non rimandare o non sostituire più nulla, ma accedere direttamente al godimento, letteralmente e senza alcuna mediazione. Consumare (oggetti, corpi, esperienze, relazioni). Dalla repressione, alla pressione. Dalla de-sessualizzazione all'iper-sessualizzazione. Dal padre della proibizione al padre dell'abuso. La colpa oggi consiste nel non aver goduto abbastanza. Colonizzare ha sempre presupposto brutalizzare. La piantagione e la colonia, secondo Mbembe, sono delle prefigurazioni del brutalismo. Senza contenimenti, e senza mediazione simbolica, in esse si può e si deve assolutamente godere degli altri, trasformati in quello che è un mero «harem di oggetti» (Franz Fanon). Possiamo comprendere tutto ciò, dal punto di vista libidico, come una chiave di lettura dell'ascesa della nuova destra? Si presentano come i difensori di una "libertà" che corrisponde solo al diritto - dei forti - di godere dei deboli, come se essi fossero degli oggetti usa e getta. Sullo sfondo - come un effetto derivato dal virilismo - la paura della castrazione, il panico genitale e l'orrore del femminile si diffondono ovunque. Il brutalismo arriva perfino ad aspirare a sbarazzarsi completamente delle donne. Onanismo generalizzato, sessualità senza contatto, tecno-sessualità, con il cervello che sostituisce il fallo, in quanto organo privilegiato. Pertanto, il virilismo  sarebbe così solo l'ultima parola del patriarcato.

Corpi-Frontiera
Alla fine del suo libro sulle origini del totalitarismo - più di seicento pagine dedicate allo studio delle condizioni storiche e sociali che hanno reso possibili il nazismo e lo stalinismo - Hannah Arendt afferma, sorprendentemente, che l'unica certezza a cui è arrivata è quella che il totalitarismo è nato in un mondo nel quale la popolazione nel suo insieme sarebbe diventato superflua. I campi di concentramento (e più tardi di sterminio) sono stati l'unico posto dove il potere dell'epoca ha trovato una sistemazione per contenere le eccedenze. Come leggerlo oggi, nel momento in cui la nostra epoca si trova a essere attraversata dal comune fenomeno delle masse erranti? La guerra, è sempre stato un possibile espediente per regolare l'eccesso di popolazione indesiderata, e il totalitarismo è sempre stato un regime di guerra permanente. Il brutalismo contemporaneo, pur differente dal nazismo o dello stalinismo - eredita tuttavia la stessa funzione. A fronte della paura di dover condividere, e al panico «del moltiplicarsi degli altri», viene messa in atto la gestione brutale delle migrazioni.
Gli esseri umani in eccedenza, vengono chiamati da Mbembe “corpi-frontiera”. Cosa farne di loro? Isolare e confinare, rinchiudere e deportare, lasciar morire. La biopolitica (che si prende cura della vita al fine di sfruttarla) si intreccia qui con la necropolitica (che produce e si prende cura della popolazione superflua). Il mondo contemporaneo, non conosce solo forme di controllo morbide e seducenti (moda, design, pubblicità), ma anche metodi di guerra. Oggi, ovunque, i controlli, le detenzioni, i confinamenti si inaspriscono. Si tagliano gli spazi, si decide in maniera autoritaria chi può muoversi e chi no. Non solo si promuove la mobilità dei soggetti (dalla casa, dal lavoro, dalla funzione), ma si trattiene, si controlla, si blocca. Gaza, come paradigma di Governo. Mentre i leader europei hanno recentemente celebrato l'ottantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, i campi sono di nuovo funzionanti. Campi di internamento, detenzione, relegazione e segregazione. Per migranti, rifugiati, richiedenti asilo. Campi, insomma, per stranieri. Samos, Chios, Lesbo, Idomeni, Lampedusa, Ventimiglia, Sicilia, Subotica. Le rotte migratorie più letali al mondo sono quelle europee, 10.000 persone hanno perso la vita cercando di entrare in Spagna lo scorso anno. Mbembe spiega come il massacro e la predazione operino anche nella gestione delle complesse circolazioni dei corpi di confine, attraverso il controllo delle linee di collegamento, delle mobilità e degli scambi. La guerra contro i migranti (questa materia in movimento) è anche un affare lucrativo e un fattore economico. Oggi, le pulsioni imperialistiche si coniugano con la nostalgia e la malinconia. Gli ex conquistadores, invecchiati e stanchi, si sentono invasi dalle "razze energiche" così piene di vitalità. Il mondo è diventato piccolo e si trova ora sotto minaccia. È questa la percezione che sfrutta l'estrema destra europea. La patria ormai non deve più espandersi, ma piuttosto va difesa. Così, in "Vox", lo stile affermativo ed entusiasta di un José Antonio diventa pura paura e puro vittimismo.

Utopie della materia
Come resistere al brutalismo? Mbembe non si crogiola in un esercizio di catastrofismo, ma azzarda piuttosto una critica utopica. Che significa questo? Il pensatore camerunese trova ispirazione in Ernst Bloch, il grande pensatore dell'utopia e della speranza nel XX secolo. Cos'è l'utopia per Bloch? Nulla di  tutto quello che di solito pensiamo sia associato a quel termine: speculazioni sul futuro, proiezioni di scenari, modelli perfetti. No, l'utopia è fatta di potenza,di latenza e di possibilità che si trovano già inscritte nel presente. A differenza della critica convenzionale, la critica utopica non solo traccia una cartografia critica dei poteri contemporanei, ma indica anche quali sono le potenzialità della resistenza, del cambiamento, degli altri mondi possibili. Non solo denuncia, giudica o respinge, ma enuncia anche delle nuove possibilità, invitando così l'ascoltatore a farle nascere, a dispiegarle. Mette in evidenza ciò che c'è e ciò che potrebbe esserci, e quest'ultimo non è una possibilità astratta, ma una forza in divenire. Se oggi assistiamo a un «divenire-nero del mondo», non potremmo allora forse lasciarci ispirare proprio dalle resistenze che le culture africane hanno sempre opposto al loro divenire? Qui, il particolare diventa universale e l'utopia, come voleva Walter Benjamin, non è più nel futuro ma nel «salto della tigre nel passato». Queste resistenze passano, per come le ho lette, attraverso un'altra concezione e un'altra relazione con la materia. La materia, secondo le culture africane pre-colonizzazione, era intessuta di relazioni, era differenza, era cambiamento. L'animismo, tutto questo, lo avrebbe espresso a livello spirituale: il mondo è popolato da una moltitudine di esseri viventi, di soggetti attivi, di molteplici divinità, di antenati, di intercessori. O la riparazione o i funerali, sostiene Mbembe. La sfida non è quella di indignarsi o di battersi il petto, ma è quella di rigenerare la materia ferita. Ad esempio, riguardo il dibattito sulla decolonizzazione dei musei, non si tratta semplicemente di "restituire" gli oggetti rubati ai loro luoghi di origine, bensì di comprendere come questi oggetti non fossero "cose" (né strumenti né opere d'arte), ma piuttosto veicoli e canali di energia, di forze vitali e di virtualità  abilitavano la metamorfosi della materia. Ricreare una relazione attiva con la memoria. Se la materia non è un oggetto che dev'essere sfruttato, ma è un ecosistema partecipativo, una riserva di potenzialità, un insieme di soggettività, quali sono allora le forme politiche che potrebbero convenirle? Al di là della democrazia liberale e del nazionalismo vitalista, al di là del suolo e del sangue, Mbembe propone una «democrazia dei viventi» che dovrebbe prendersi cura di tutti gli abitanti della terra, umani e non umani. Un'economia dei "beni comuni", che ci obbligherebbe a rinunciare alle nostre ossessioni di appropriazione esclusiva. Sarebbe una "de-frontierizzazione" del mondo, capace di tutelare il diritto di ciascuno a partire, a muoversi e a essere in transito. Essere straniero, per sé stessi e per gli altri. È la materia stessa, a essere utopica, sosteneva Ernst Bloch. Non è una massa passiva che attende che venga data dall'esterno quella che è la sua forma, ma essa ha in sé un suo movimento, un suo principio attivo, è gravida di futuro. È per questo che il brutalismo le fa la guerra? Ciò che essa esige da noi, è che si sia «come il fuoco nella fornace», che fa maturare, e realizza, potenzialità. Non per forzarla o per violarla, ma per ascoltarla, e prolungare la sua creazione.

- Amador Fernández-Savater - Pubblicato il 9 marzo 2025 - fonte: Autonomies -

domenica 23 marzo 2025

Ebrei eccentrici…

Volf Rubin è un giovane ebreo polacco forte e taciturno, così diverso dai suoi coetanei: non gli piace studiare, ama la natura e gli animali, e si dedica con passione ai lavori agricoli. È proprio l’opposto di suo padre, Reb Hersh, che è minuto e chiacchierone, conosce a menadito la Torà e vive per essere “ebreo tra gli ebrei”. Tornato dal servizio militare, Volf scopre che il padre ha venduto la tenuta di famiglia e per ripicca decide di emigrare negli Stati Uniti. Qui, nella remota e idilliaca campagna americana, Volf reciderà ancora di più il suo legame con l’ebraismo, finendo addirittura per cambiare nome e diventare l’instancabile fattore Willy Rubin. Willy è un romanzo breve che riesce a sintetizzare splendidamente due grandi temi cari a I.J. Singer: quello dell’identità ebraica e quello del conflitto intergenerazionale. La scrittura cristallina e tagliente di uno dei più grandi autori yiddish – qui unita alla vastità del paesaggio americano che ne amplifica il potere – dà forma a personaggi vivi e indimenticabili, epici e cocciuti, disposti a tutto pur di essere sempre e comunque loro stessi.

(dal risvolto di copertina di: "Willy", di Israel Joshua Singer. Traduzione di Enrico Benella. Giuntina editore, 18 €)

Storia di un ebreo eccentrico
- di Elena Loewenthal -

Willy è una piccola grande epopea. È la storia di Volf Rubin, figlio di Reb Hersh, un Mensch, un brav’uomo devoto e inoffensivo. Ma Willy, anzi Villi come recita il titolo in lingua originale, è fatto di una pasta diversa: vuole attraversare il mondo e conoscerlo invece di starsene per tutta la vita nell'angolino che Dio o chi per esso gli ha assegnato. La cantilena sinagogale dello shtetl in cui è nato e cresciuto lo annoia a morte, e così appena può se ne va. Alla scoperta di tutto. Persino dell'America. Questa è grossomodo la trama del romanzo che porta il nome del suo protagonista e la firma del grandissimo Israel Joshua Singer, fratello maggiore del premio Nobel Isaac Bashevise, tuttavia non da meno di lui per capacità inventiva, scrittura tanto inconfondibile quanto sorprendente e talento nel donare ai suoi lettori storie straordinarie. Willy è un romanzo certamente minore nel quadro di una produzione letteraria come quella di Israel Singer, che ha a cuore saghe familiari di largo respiro come "I fratelli Ashkenazi" e "La famiglia Karnowski": tessiture narrative straordinarie, indimenticabili. Eppure anche in queste pagine che raccontano la storia di un ebreo "eccentrico", refrattario a tutte le regole del suo tempo e del suo spazio, si riconosce il grande autore. Discutibili restano, d'altro canto, alcune scelte traduttive, come l’abbondanza di corsivi, laddove il termine in lingua originale - lo yiddish, e saltuariamente anche l'inglese - risultava intraducibile, con inevitabile abbondanza di note a piè di pagina. Tutto ciò nonostante la presenza di un corposo (nove pagine) glossario finale. Il risultato è un testo letterario di indubbia qualità, appesantito da un apparato e una forma grafica non congeniali. La traduzione è spesso, anzi sempre, una sfida che concede tantissime, forse persino troppe libertà. Ma non quella di tirarsi indietro a suon di corsivi e apparati.

- Elena Loewenthal - Pubblicato su Tuttolibri dell'8/6/2024 -

sabato 22 marzo 2025

Dallo Stato Sociale allo Stato di Guerra !!

Dal Welfare al Warfare: keynesismo militare
- di Michael Roberts -

In Europa, il "guerrafondaismo" è arrivato al suo culmine.Tutto è cominciato con gli Stati Uniti che, sotto la presidenza di Trump, hanno deciso che non vale la pena spendere soldi per proteggere militarmente le capitali europee dai potenziali nemici. Trump vuole impedire che gli Stati Uniti paghino la più parte del finanziamento della NATO - la quale fornisce la propria potenza militare - e inoltre vuole mettere fine al conflitto Russia-Ucraina, in modo da poter così concentrare la strategia imperialista degli Stati Uniti sull'emisfero occidentale e sul Pacifico, con l'obiettivo di "contenere" e indebolire l'ascesa economica della Cina. La strategia di Trump ha gettato nel panico le élite dominanti europee, improvvisamente preoccupate che l'Ucraina perda contro le forze russe, e che pertanto tra non molto Putin sarà ai confini della Germania o - come sostengono sia il premier britannico Keir Starmer che un ex capo dell'MI5, sarà «per le strade della Gran Bretagna». Qualunque possa essere la validità di questo presunto pericolo, si è venuta però a creare l'opportunità, per i militari e i servizi segreti europei, di "alzare la posta" e chiedere così la fine di quei cosiddetti "dividendi di pace" che avevano avuto inizio dopo la caduta della temuta Unione Sovietica, e in tal modo avviare ora il processo di riarmo.  Kaja Kallas, alta rappresentante della politica estera dell'UE, ha spiegato il modo in cui vede la politica estera dell'UE: «Se insieme non siamo in grado di esercitare abbastanza pressione su Mosca, allora come possiamo affermare di poter sconfiggere la Cina?» Per riarmare il capitalismo europeo, sono stati offerti diversi argomenti: Bronwen Maddox, direttrice di Chatham House, il "think-tank" per le relazioni internazionali che rappresenta principalmente le opinioni dello stato militare britannico, se n’é venuto fuori con l'affermazione che «la spesa per la "difesa" è il più grande beneficio pubblico per tutti, poiché essa è necessaria per la sopravvivenza della "democrazia" contro le forze autoritarie». Ma c'è un prezzo da pagare per difendere la democrazia: «il Regno Unito potrebbe dover prendere in prestito di più per poter pagare le spese per la difesa di cui ha così urgente bisogno. Nel prossimo anno e oltre, i politici dovranno prepararsi a recuperare denaro per mezzo di tagli ai sussidi di malattia, alle pensioni e all'assistenza sanitaria». E ha continuato: «Se ci sono voluti decenni per accumulare tutta questa spesa, potrebbero volerci decenni anche per invertire la rotta», pertanto la Gran Bretagna deve andare avanti. Presto, Starmer dovrà indicare una data entro la quale il Regno Unito raggiungerà il 2,5% del PIL da destinare alle spese militari; e si ode già un coro che sostiene che questa cifra deve essere ancora più alta. Quindi, alla fine, «i politici dovranno convincere gli elettori a rinunciare ad alcuni dei loro benefici per pagare la difesa». Martin Wolf, il guru economico liberale keynesiano del Financial Times, si è lanciato in un: «la spesa per la difesa dovrà aumentare in maniera sostanziale. Si noti come, negli anni '70 e '80, essa fosse il 5% del PIL del Regno Unito, se non di più. Potrebbe anche non essere necessario che a lungo termie si arrivi a quei livelli: la Russia moderna non è l'Unione Sovietica. Tuttavia, nella fase di preparazione, potrebbe essere necessario che sia così alto, soprattutto se gli Stati Uniti si ritirano».

Come fare a pagare per tutto questo? «Se la spesa per la difesa deve essere permanentemente più alta, le tasse devono aumentare, a meno che il governo non riesca a trovare da fare tagli sufficienti alla spesa, il che è dubbio». Ma non preoccupatevi, la spesa per carri armati, truppe e missili è in realtà vantaggiosa per un'economia, dice Martin Wolf. «Il Regno Unito può anche realisticamente aspettarsi dei ritorni economici sui suoi investimenti nella difesa. Storicamente, le guerre sono state la madre dell'innovazione». Cita poi i meravigliosi esempi delle conquiste che Israele e Ucraina hanno ottenuto grazie alle loro guerre: «L'"economia di avvio" di Israele è iniziata a partire dal suo esercito. E ora gli ucraini hanno rivoluzionato la guerra dei droni». Non menziona il costo umano dell'innovazione causata dalla guerra. Wolf poi continua: «Il punto cruciale, tuttavia, è che la necessità di spendere molto di più per la difesa, dovrebbe essere visto come qualcosa di più di una semplice necessità, e anche più di un semplice costo, sebbene entrambe le cose siano vere. Se fatta nel modo giusto, è anche un'opportunità economica». Quindi la guerra sarebbe la via d'uscita dalla stagnazione economica! Wolf urla che la Gran Bretagna deve andare avanti: «Se gli Stati Uniti non sono più un sostenitore e un difensore della democrazia liberale, l'unica forza potenzialmente abbastanza forte da colmare il divario, è l'Europa. Se gli europei vogliono avere successo in questo difficile compito, devono iniziare a mettere in sicurezza la loro casa. La loro capacità di farlo dipenderà a sua volta dalle risorse, dal tempo, dalla volontà e dalla coesione ..... Indubbiamente, l'Europa può aumentare sostanzialmente la sua spesa per la difesa». Wolf ha sostenuto che dobbiamo difendere i decantati "valori europei" della libertà personale e della democrazia liberale. «Farlo sarà economicamente costoso e persino pericoloso, ma necessario... perché "l'Europa ha "quinte colonne" un po' dappertutto». Ha concluso dicendo che «se l'Europa non si mobilita rapidamente per la propria difesa, la democrazia liberale potrebbe naufragare del tutto. Oggi sembra tutto un po' come negli anni '30. Questa volta, ahimè, però gli Stati Uniti sembrano trovarsi dalla parte sbagliata». "Conservatore progressista", l'editorialista del Financial Time Janan Ganesh lo ha detto senza mezzi termini: «Per costruire uno stato di guerra, l'Europa deve tagliare il suo stato sociale. Senza tagli alla spesa sociale, non c'è modo di difendere il continente». Ha chiarito che le conquiste che i lavoratori hanno fatto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale - ma che poi sono state gradualmente ridotte negli ultimi 40 anni - ora devono essere completamente eliminate. «La missione ,ora, è quella di difendere la vita dell'Europa. In che modo si può finanziare un continente meglio armato, se non attraverso uno stato sociale più piccolo?» L'età dell'oro dello stato sociale del dopoguerra non è più possibile. «Chiunque abbia meno di 80 anni e abbia trascorso la propria vita in Europa, può essere scusato per aver considerato l'esistenza di un gigantesco stato sociale come se fosse quello il modo naturale di vita. In verità, esso è stato il prodotto di strane circostanze storiche, che hanno prevalso nella seconda metà del XX secolo, e che ora non esistono più». Sì, esatto, le conquiste per i lavoratori nell'età dell'oro erano l'eccezione alla norma nel capitalismo ("strane circostanze storiche"). Ma ora «le passività pensionistiche e sanitarie, sarebbero state comunque abbastanza difficili da mantenere nei confronti della popolazione attiva, anche prima dell'attuale shock della difesa..... I governi dovranno essere più avari con i vecchi. Oppure, se ciò è impensabile dato il loro peso elettorale, la lama dovrà cadere sulle aree di spesa più produttive ... In ogni caso, lo stato sociale così come lo abbiamo conosciuto deve arretrare un bel po': non abbastanza da non chiamarlo più con quel nome, ma abbastanza da far male». Ganesh, un vero conservatore, vede il riarmo come un'opportunità per il capitale di fare tutte le necessarie riduzioni del welfare e dei servizi pubblici. «I tagli alla spesa, sono più facili da vendere per mezzo della difesa, piuttosto che a partire da una nozione generalizzata di efficienza. Tuttavia, non è questo lo scopo della difesa, e i politici devono insistere su questo punto. Lo scopo è la sopravvivenza».

Quindi il cosiddetto "capitalismo liberale", ora  ha bisogno di sopravvivere, e questo significa tagliare gli standard di vita dei più poveri, e spendere soldi per andare in guerra. Dallo Stato sociale allo Stato di guerra. Il primo ministro polacco Donald Tusk, ha fatto un altro salto di qualità in quella che è la guerra guerrafondaia. Ha detto che la Polonia «deve raggiungere quelle che sono le possibilità più moderne anche in relazione alle armi nucleari, e alle moderne armi non convenzionali». Possiamo presumere che "non convenzionale" significasse armi chimiche? Tusk: «Lo dico con piena responsabilità, non basta acquistare armi convenzionali, quelle più tradizionali». Così, quasi ovunque in Europa, la richiesta è quella di aumentare la spesa per la "difesa" e per il riarmo. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha proposto un piano per riarmare l'Europa che mira a mobilitare fino a 800 miliardi di euro per finanziare un massiccio aumento della spesa per la difesa. «Siamo in un'epoca di riarmo, e l'Europa è pronta ad aumentare massicciamente la sua spesa per la difesa, sia per rispondere all'urgenza a breve termine di agire e sostenere l'Ucraina, ma anche per affrontare la necessità a lungo termine di assumersi maggiori responsabilità per la nostra sicurezza europea», ha affermato. In base a una "clausola di salvaguardia di emergenza", la Commissione europea chiederà un aumento della spesa per gli armamenti, anche se questo viola le regole fiscali esistenti. A tutto ciò si aggiungeranno i fondi COVID non utilizzati (90 miliardi di euro) e ci saranno ulteriori prestiti grazie a un “nuovo strumento” che fornirà 150 miliardi di euro di prestiti agli Stati membri per finanziare investimenti congiunti nel settore della difesa, in capacità paneuropee, tra cui la difesa aerea e missilistica, i sistemi di artiglieria, i missili e le munizioni, i droni e i sistemi anti-drone. Von der Leyen ha affermato che se i paesi dell'UE riuscissero ad aumentare in media la spesa per la difesa dell'1,5% del PIL, nei prossimi quattro anni potrebbero essere liberati 650 miliardi di euro. Ma non ci sarebbero però dei finanziamenti supplementari per gli investimenti, per i progetti infrastrutturali o per i servizi pubblici, dato che  l'Europa deve dedicare le proprie risorse alla preparazione della guerra. Allo stesso tempo, come ha scritto il FT, il governo britannico «sta compiendo una rapida transizione dal verde al grigio delle corazzate, ponendo la difesa al centro di quello che sarà il suo approccio alla tecnologia e alla produzione». Starmer ha annunciato un aumento della spesa per la difesa al 2,5% del PIL entro il 2027, con l'ambizione di raggiungere il 3% entro il 2030. Il ministro delle finanze britannico Rachel Reeves - che in questi ultimi tempi ha costantemente tagliato la spesa per i crediti per i figli, i pagamenti invernali per gli anziani e i sussidi di invalidità - ha annunciato che il mandato del nuovo National Wealth Fund del governo laburista sarebbe stato modificato in modo da consentirgli di investire nella difesa. I produttori di armi britannici sono in difficoltà.  «Se si lascia da parte l'etica relativa alla produzione di armi, che scoraggia alcuni investitori, la difesa intesa come strategia industriale presenta molti aspetti positivi», ha detto un amministratore delegato. In Germania, il cancelliere eletto del nuovo governo di coalizione, Friedrich Merz, ha fatto approvare dal parlamento tedesco una legge per porre fine al cosiddetto "freno fiscale", il quale rendeva illegale, per i governi tedeschi, prendere in prestito oltre un limite rigoroso, oppure aumentare il debito per pagare la spesa pubblica. Ma ora la spesa militare in deficit ha la priorità su ogni altra cosa, diventa così l'unico bilancio senza limiti. L'obiettivo di spesa per la difesa, farà impallidire il deficit di spesa disponibile per il controllo del clima e per quelle infrastrutture delle quali c'è un disperato bisogno. La spesa pubblica annuale dovuta al nuovo pacchetto fiscale tedesco, sarà maggiore del boom di spesa occorso con il Piano Marshall del dopoguerra, e con la riunificazione tedesca nei primi anni '90. Questo mi porta agli argomenti economici a favore della spesa militare. La spesa militare potrebbe far ripartire un'economia bloccata a causa di una depressione, come quella di gran parte dell'Europa dalla fine della Grande Recessione nel 2009? Alcuni keynesiani pensano di sì. Il produttore tedesco di armi Rheinmetall sostiene che la fabbrica inattiva di Osnabrück della Volkswagen potrebbe essere un candidato privilegiato per la conversione alla produzione militare. L'economista keynesiano Matthew Klein, coautore con Michael Pettis di Trade Wars are Class Wars, ha accolto questa notizia: «La Germania sta già costruendo carri armati. Li incoraggio a costruire molti altri carri armati». La teoria del "keynesismo militare" ha una sua storia. Una variante è stata quella relativa al concetto di "economia degli armamenti permanenti", il quale venne sposato da alcuni marxisti al fine di spiegare perché le principali economie non fossero entrate in una depressione dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale; mentre invece erano entrate in un lungo boom, con solo delle lievi recessioni, che poi è durato fino alla crisi internazionale del 1974-75. Questa "età dell'oro" poteva essere spiegata solo a partire da una spesa militare permanente, attuata al fine di mantenere la domanda aggregata, e sostenere la piena occupazione. Ma le prove di questa teoria del boom del dopoguerra non ci sono. La spesa militare del governo britannico, scese da oltre il 12% del PIL nel 1952, fino a circa il 7% nel 1960 per poi diminuire negli anni '60 e raggiungere circa il 5% entro la fine del decennio. Eppure, allora  l'economia britannica è andata meglio che in qualsiasi altro momento. In tutti i paesi capitalisti avanzati, alla fine degli anni '60 rispetto ai primi anni '50, la spesa per la difesa era solo una frazione, sostanzialmente inferiore, della produzione totale: dal 10,2% del PIL, nel 1952-53 al culmine della guerra di Corea; a solo il 6,5% nel 1967. Eppure la crescita economica, più o meno negli anni '60 e nei primi anni '70, è stata sostenuta. Il boom del dopoguerra, non è stato il risultato di una spesa pubblica per gli armamenti fatta in stile keynesiano, ma si spiega con l'alto tasso di redditività del dopoguerra, rispetto al capitale investito dalle principali economie. Semmai, è stato il contrario. Poiché le principali economie stavano crescendo in modo relativamente veloce, e la redditività era elevata, i governi potevano permettersi di sostenere le spese militari, viste in quanto parte del loro obiettivo geopolitico della "guerra fredda", fatte per indebolire e schiacciare l'Unione Sovietica, l'allora principale nemico dell'imperialismo.

E soprattutto, il keynesismo militare è contrario agli interessi dei lavoratori e dell'umanità. Siamo favorevoli alla produzione di armi per uccidere le persone al fine di creare posti di lavoro? Questo argomento, spesso promosso da alcuni leader sindacali, antepone il denaro alla vita. Keynes una volta disse: «Il governo dovrebbe pagare le persone per scavare buche nel terreno per poi riempirle». La gente rispondeva. «È stupido, perché non pagare invece le persone per costruire strade e scuole?» Keynes rispondeva dicendo: «Bene, allora pagateli per costruire scuole. Il punto è che non importa quello che fanno, purché il governo crei posti di lavoro». Keynes si sbagliava. Importa, e come. Il keynesismo sostiene lo scavo di buche, e il loro riempimento, per creare posti di lavoro. Il keynesismo militare sostiene lo scavo di tombe, e il loro riempimento di corpi, per creare posti di lavoro. Se non importa come vengono creati i posti di lavoro, allora perché non aumentare drasticamente la produzione di tabacco, e promuovere la dipendenza a partire dalla creazione di posti di lavoro? Oggi, la maggior parte delle persone si opporrebbe a questo, vendendolo come direttamente dannoso per la salute delle persone. Anche la produzione di armi (convenzionali e non convenzionali) è direttamente dannosa. E ci sono molti altri prodotti e servizi socialmente utili che potrebbero invece fornire posti di lavoro e salari ai lavoratori (come scuole e case). Recentemente, il ministro della Difesa del governo britannico, John Healey, ha insistito sul fatto che l'aumento del budget per gli armamenti «farebbe della nostra industria della difesa, il motore della crescita economica di questo paese». Grandi notizie! Sfortunatamente per Healey, l'associazione di categoria dell'industria degli armamenti del Regno Unito (ADS) stima che il Regno Unito abbia circa 55.000 posti di lavoro nel settore dell'esportazione di armi, e altri 115.000 persone impiegate nel Ministero della Difesa. Anche includendo quest'ultimi, si tratta comunque solo dello 0,5% della forza lavoro del Regno Unito (per i dettagli, si veda il briefing Arms to Renewables di CAAT). Anche negli Stati Uniti, il rapporto è più o meno lo stesso. C'è una questione teorica, che troviamo spesso in discussione nell'economia politica marxista. Si tratta di stabilire se in un'economia capitalista la produzione di armi produca valore. La risposta è sì, per i produttori di armi. Gli appaltatori di armi consegnano beni (armi) che sono stati pagati dal governo. Il lavoro che li produce, pertanto, è produttivo di valore e di plusvalore. Ma a livello di tutta l'economia, la produzione di armi è improduttiva di qualsiasi valore futuro, allo stesso modo in cui lo sono i "beni di lusso" ai fini del solo consumo capitalistico. La produzione di armi e di beni di lusso non rientra nel processo di produzione successivo, né come mezzi di produzione né come mezzi di sussistenza per la classe operaia. Pur essendo produttiva di plusvalore per i capitalisti delle armi, la produzione di armi non è riproduttiva e perciò minaccia la riproduzione del Capitale. Quindi, se in un'economia, l'aumento della produzione complessiva di plusvalore rallenta, e la redditività del capitale produttivo inizia a diminuire, ecco che allora ridurre il plusvalore disponibile per gli investimenti produttivi, al fine di investire invece in spese militari, può danneggiare la "salute" del processo di accumulazione capitalista. Il risultato dipende dall'effetto sulla redditività del capitale. Generalmente, il settore militare ha una composizione organica del capitale che è superiore alla media di un'economia, in quanto incorpora tecnologie che sono all'avanguardia. Quindi il settore degli armamenti tenderebbe a spingere verso il basso il tasso medio di profitto. D'altra parte, se le tasse raccolte dallo Stato (o i tagli alla spesa civile) per pagare la produzione di armi sono elevate, allora la ricchezza che altrimenti potrebbe andare al lavoro può essere distribuita al capitale, e quindi può aumentare il plusvalore disponibile. Le spese militari possono avere un effetto leggermente positivo sui tassi di profitto dei paesi esportatori di armi, ma non di quelli che importano armi. In quest'ultimi, la spesa per l'esercito costituisce una deduzione dai profitti disponibili per gli investimenti produttivi. Nello schema generale delle cose, la spesa per gli armamenti non può essere decisiva per la salute dell'economia capitalista. Viceversa, una guerra totale può aiutare il capitalismo a uscire dalla depressione e dal crollo. Un argomento chiave dell'economia marxista (almeno nella mia versione) è quello secondo cui le economie capitaliste possono riprendersi in maniera duratura solo se la redditività media dei settori produttivi dell'economia aumenta in modo significativo. E questo richiede una sufficiente distruzione del valore del “capitale morto” (accumulazione passata) che non è più redditizio impiegare. Nell'economia statunitense, la Grande Depressione degli anni '30 è durata così a lungo perché la redditività non si è ripresa per tutto il decennio. Nel 1938, il tasso di profitto delle imprese statunitensi era ancora inferiore alla metà di quello del 1929. La redditività riprese solo quando l'economia di guerra fu avviata, a partire dal 1940.

Perciò, non è stato il "keynesismo militare" ad aver portato l'economia degli Stati Uniti fuori dalla Grande Depressione, come alcuni keynesiani amano pensare. La ripresa economica, degli Stati Uniti, dalla Grande Depressione non è iniziata fino allo scoppio della guerra mondiale. Gli investimenti sono decollati solo a partire dal 1941 (Pearl Harbor), raggiungendo, come quota del PIL, un livello più che doppio rispetto a quello del 1940. Perché? Beh, non è stato il risultato di una ripresa degli investimenti del settore privato. Quello che è successo, è stato un massiccio aumento degli investimenti e della spesa pubblica. Nel 1940, gli investimenti del settore privato erano ancora al di sotto del livello del 1929, e in realtà durante la guerra diminuirono ulteriormente. Il settore statale si è fatto carico di quasi tutti gli investimenti, dal momento che le risorse (valore) erano state dirottate verso la produzione di armi, e verso altre misure di sicurezza in un'economia di guerra completa. Ma l'aumento degli investimenti e dei consumi pubblici non è forse una forma di stimolo keynesiano, ma solo a un livello più alto? Ebbene, no. La differenza si rivela nel continuo crollo dei consumi. L'economia di guerra veniva pagata limitando le opportunità, che avevano i lavoratori, di spendere i loro redditi, provenienti dai loro lavori, in tempo di guerra. Ci fu un risparmio forzato attraverso l'acquisto di titoli di guerra, il razionamento e l'aumento della tassazione per pagare la guerra. L'investimento pubblico significava la direzione e la pianificazione della produzione per decreto governativo. L'economia di guerra non stimolava il settore privato, ma sostituiva il “libero mercato” e l'investimento capitalistico per il profitto. I consumi non hanno ripristinato la crescita economica come si aspettavano i keynesiani (e coloro che vedono la causa della crisi nel sottoconsumo), ma sono stati investiti principalmente in armi di distruzione di massa. La guerra pose definitivamente fine alla depressione. L'industria americana fu rivitalizzata dalla guerra, e molti settori erano orientati alla produzione di difesa (ad esempio, aerospaziale ed elettronica), o completamente dipendenti da essa (energia atomica).  I rapidi cambiamenti scientifici e tecnologici della guerra hanno continuato e rafforzato le tendenze iniziate durante la Grande Depressione. Poiché la guerra danneggiò gravemente tutte le principali economie del mondo, ad eccezione degli Stati Uniti, dopo il 1945 il capitalismo americano conquistò l'egemonia economica e politica. Guiglelmo Carchedi  lo ha spiegato: «Perché la guerra ha provocato un simile salto di redditività nel periodo 1940-45? Il denominatore del tasso non solo non è aumentato, ma è diminuito perché il deprezzamento fisico dei mezzi di produzione è stato maggiore dei nuovi investimenti. Allo stesso tempo, la disoccupazione è praticamente scomparsa. La diminuzione della disoccupazione ha reso possibile l'aumento dei salari. Tuttavia i salari più alti non hanno intaccato la redditività. Infatti, la conversione delle industrie civili in industrie militari ha ridotto l'offerta di beni civili. L'aumento dei salari e la limitata produzione di beni di consumo hanno comportato una forte compressione del potere d'acquisto del lavoro per evitare l'inflazione. Ciò fu ottenuto istituendo la prima imposta generale sul reddito, scoraggiando la spesa dei consumatori (il credito al consumo era vietato) e stimolando il risparmio dei consumatori, principalmente attraverso investimenti in obbligazioni di guerra. Di conseguenza, i lavoratori sono stati costretti a rinviare la spesa di una parte considerevole dei salari. Allo stesso tempo il tasso di sfruttamento del lavoro aumentò. Essenzialmente, lo sforzo bellico è consistito in una massiccia produzione di mezzi di distruzione finanziata dal lavoro.»  Lasciamo che sia Keynes a riassumere la cosa: «A quanto pare, è politicamente impossibile, per una democrazia capitalistica, organizzare la spesa secondo una scala necessaria a fare i grandi esperimenti che dimostrerebbero la mia tesi; tranne che in condizioni di guerra», da The New Republic (citato da P. Renshaw, Journal of Contemporary History 1999 vol. 34 (3) p. 377-364).

- Michael Roberts - Pubblicato il 22/3/2025 - su Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist -