In uno dei suoi post Mark Fisher elenca cinque autori che considera fondamentali: Kafka, Atwood, Spinoza, Ballard, Marcus. Una lista necessariamente ridotta all’osso – Fisher stava rispondendo a un «meme bibliografico» – che però rende l’idea della matrice estetica e politica che aveva caratterizzato la sua formazione. Critico culturale radicalmente «popolare», inteso nella miglior accezione del termine, Fisher è stato in grado di scorgere il comune denominatore sociopolitico che sottende voci, discipline e forme artistiche diversissime e di concentrare nella sua analisi letteratura, filosofia, economia e archeologia culturale, tracciando delle linee che convergono verso il nodo cruciale che ha dominato le sue riflessioni: la necessità di smascherare la fallacia di pensiero che da decenni condiziona tragicamente le nostre esistenze: quel «realismo capitalista» che ci induce a credere che, per quanto la situazione possa apparire disperata, non esiste un’alternativa. Nelle interviste, nelle riflessioni e negli scritti sulla letteratura contenuti in questo volume – il quarto e ultimo della raccolta che mette insieme i post del suo leggendario blog k-punk – Fisher analizza le migliori distopie e le peggiori utopie della nostra epoca, allargando poi il campo per mettere in luce la nostra ossessione nostalgica e la nostra incapacità di inventare il futuro, la burocratizzazione managerialista dell’istruzione, la deriva censoria della sinistra, la scomparsa della dialettica di classe dal discorso politico e la privatizzazione della depressione. Gli scritti di Mark Fisher – intelligentissimi, illuminanti, a tratti dolorosi – non smettono di sorprendere, e confermano quanto sia stato e sia ancora necessario il suo pensiero per comprendere il contemporaneo, e per provare a immaginare, quindi anche a cambiare, il tempo che ci attende.
(dal risvolto di copertina di: Mark Fisher, "Non siamo qui per intrattenervi". Minimum Fax, traduzione di Vincenzo Perna, pag.327, €20)
La variante di Fisher
- di Nicola Lagioia -
Perché la gente difende la propria schiavitù con tanta ostinazione? È questa una delle domande su cui Mark Fisher si è meglio interrogato durante la sua vita. Nel 2003, quando Internet accendeva ancora qualche speranza libertaria, nel corso di un Phd all'Università di Warwick Fisher si rese conto che l'accademia era un posto troppo angusto e specialistico per contenere l'urgenza espressiva degli intellettuali che, come lui, sentivano il bisogno di fare il contropelo al proprio tempo. Crollato il mondo disegnata dalla Guerra fredda, l'11 settembre aveva mostrato che la Storia non era finita per niente, e che mentre da una parte i fondamentalismi rialzavano la testa, dall'altra, in occidente, il capitalismo avanzato stava spingendo un numero crescente di persone verso soglie di disagio mai provate (erano gli anni in cui la depressione si rivelava tra le più diffuse patologie invalidanti), oltre a rischiare di distruggere il pianeta (si cominciava a capire che il cambiamento climatico avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche). Così Fisher approfittò di uno degli spazi di libertà che il nuovo mezzo aveva reso possibile e aprì un blog. Lo chiamò k-punk e in esso riversò le sue riflessioni teoriche. Usando come sponda la politica, la tv, il cinema, la musica, la letteratura, Fisher si rivelò in breve tra i più brillanti e problematici interpreti del XXI secolo. Raccolse intorno al proprio spazio una vera comunità di persone turbate dalla piega che stava prendendo la vita in Europa e negli Stati Uniti. Precarietà, ingiustizia sociale, svuotamento di senso della politica, devastazione di ogni spazio pubblico, prevalenza della performance sull'esperienza, degradazione della rivolta nella sua rappresentazione, trasformazione delle scuole in laboratori del consenso. L'umanità era talmente immersa nei sogni-spazzatura degli ultimi trent'anni da non riuscire a svegliarsi?
Nel 2009 Fisher pubblicò Realismo capitalista, il suo testo chiave. Se questo libro contiene la sistematizzazione del suo pensiero, è negli scritti di k-punk che si respira una vitalità (e una felice provvisorietà) in grado di aprire strade nuove. Minimum fax sta pubblicando i contenuti dello storico blog. Nel quarto e ultimo volume, "Non siamo qui per intrattenervi", viene affrontato il rapporto di Fisher con i suoi scrittori di riferimento. Attraverso la lettura di Franz Kafka, Margaret Atwood, Baruch Spinoza, Greil Marcus, ma soprattutto di J.G. Ballard, Fisher mette il dito nella piaga di una contemporaneità sempre più fantasmatica e inquietante. Il pensiero conservatore ha fatto bene il suo mestiere («Non ci sono alternative» e «La società non esiste, esistono solo gli individui» sono le pietre tombali scagliate da Margaret Tatcher contro i vecchi sogni d'emancipazione), ma sono i cosiddetti progressisti ad avere tradito il mandato. «Il blairismo», scrive Fisher, «ha consolidato e superato di gran lunga le conquiste ideologiche del tatcherismo, assicurando la vittoria apparentemente assoluta delle P.R. sul punk, dell'educazione sull'antagonismo, dell'utilitarismo borghese sull'arte proletaria. Utilizza lo scaltro sotterfugio ideologico di ridurre tutto alla strumentalità mentre al tempo stesso dedica ogni risorsa alla produzione di artefatti culturali privi di qualsiasi uso o funzione».
Il "realismo capitalista", è allora soprattutto una malattia della sinistra, persuasa che non esista alternativa all'attuale sistema di produzione e consumo, e che contenerne gli eccessi sia il meglio che si possa fare. In questa dimensione, come scriveva Frederic Jameson, diventa più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Ma quali rischi corre un mondo che percepisce in modo sempre più chiaro la propria vuotezza (la prevalenza del mezzo sul fine, la scomparsa di un futuro desiderabile), e una società in cui la gente è spinta a fare in modo sempre più rapido e usurante «cose in cui non crede realmente»? Cosa succederà quando questa "incredulità" diventerà talmente manifesta da non essere occultabile? Mark Fisher è morto suicida nel 2017. Ha lottato tutta una vita contro la depressione, che lui leggeva come il rifiuto o l'incapacità di adattarsi alla vita per come stava diventando. «Visto che ci sono così tante persone depresse», scriveva, «e io sostengo che la causa di tale depressione sia in gran parte sociale e politica, trasformare questa depressione in rabbia politica rappresenta un progetto politico urgente». Al di là della brillantezza delle idee, della prodigiosa capacità di mettere in relazione mondi distanti, è la scrittura di Fisher a colpire. Così magnetica, personale, dolente. Tanto che, leggendolo, mi è capitato di trovarmi su territori non diversi (sia pure per percorsi diversissimi) d quelli in cui mi fa piombare a volte la musica di Nick Drake. Entrambi parlano di una ferita, fanno di loro stessi - del proprio disagio, del proprio dolore, di una inesausta speranza, nonostante tutto - il termometro di un'epoca.
- Nicola Lagioia - Pubblicato su Robinson del 26/11/2023 -
Nessun commento:
Posta un commento