Escalation Protezionista
- Dazi punitivi e offensiva anti-esportazione: gli Stati Uniti, la Cina e l'Unione Europea verso una guerra commerciale -
di Tomasz Konicz
Ci risiamo: a metà maggio, il governo degli Stati Uniti ha preannunciato in che cosa consisterà il prossimo round delle controversie di politica commerciale con la Cina, che per certi versi ha già portato a considerevoli aumenti delle sanzioni punitive. I dazi all'importazione sulle auto elettriche cinesi sono stati aumentati dal 25% al 100%, chiudendo di fatto il mercato statunitense a tutti i produttori che già soffrono una concorrenza spietata nella Repubblica Popolare. Inoltre, ci saranno dei dazi ancora più elevati riguardanti l'importazione di celle solari, semiconduttori, strumentazioni sanitarie e gru portuali cinesi. Il governo degli Stati Uniti non è solo preoccupato di ridurre i surplus commerciali della Cina, ma sembra piuttosto voler continuare a perseguire la sua strategia del cosiddetto Nearshoring, che mira a sganciarsi dalla Cina e a stabilire catene di produzione e approvvigionamento regionali. Da parte sua, in risposta alle tendenze della crisi economica interna, la nuova strategia economica cinese punta sempre più a un modello economico "verde" orientato all'esportazione, e si scontra già con le barriere protezionistiche, nella loro forma di Nearshoring da parte degli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda l'industria automobilistica. Secondo le stime occidentali, le case automobilistiche cinesi, che nel 2023 hanno prodotto circa 30 milioni di auto, hanno una capacità produttiva annua di 40 milioni, con i suoi circa 25 milioni di veicoli venduti in Cina lo scorso anno. A questa sottoutilizzazione bisogna porre rimedio, per quanto possibile, con le esportazioni, cosa a cui il governo degli Stati Uniti sta ora ponendo un freno. Secondo il Kiel Institute for the World Economy, in un suo studio pubblicato di recente, per quanto riguarda la sua industria delle esportazioni La Cina ha investito miliardi in sussidi: nel 2022, la sola casa automobilistica leader BYD ha ricevuto aiuti per un importo pari a 2,1 miliardi di euro. Secondo le loro dichiarazioni, i funzionari cinesi hanno affermato che a portare il governo degli Stati Uniti a prendere queste misure protezionistiche durante la campagna elettorale, sono state delle "considerazioni interne". Il Ministero del Commercio di Pechino ha dichiarato di riservarsi il diritto di adottare "misure risolute" per difendere i propri "diritti e interessi". Ma anche l'UE appare preoccupata per questo sviluppo. Bisogna «essere preparati alle conseguenze di questa guerra commerciale», ha avvertito, poco dopo l'annuncio dei nuovi dazi punitivi statunitensi, Dirk Jandura, presidente dell'Associazione federale del commercio all'ingrosso, del commercio estero e dei servizi (BGA). Nel caso che la Repubblica Popolare non fosse più in grado di «vendere sufficientemente le proprie eccedenze di produzione sul mercato americano» – come è avvenuto finora nel contesto del ciclo del deficit del Pacifico – allora il mercato dell'UE e i «produttori con sede qui» subirebbero una maggiore pressione da parte dell'industria delle esportazioni cinesi.
Allarme per una "spirale" protezionistica
Tuttavia, da "convinto liberista", il presidente della BGA si è espresso contro le «tariffe punitive dell'UE» e si è detto favorevole a misure temporanee come le quote. In maniera analoga si è espresso anche l'amministratore delegato di BMW, Oliver Zipse, sostenendo la stessa tesi e mettendo in guardia a proposito di una "spirale" protezionista: «I dazi portano a nuove tariffe». Nella sua reazione, Ola Källenius, CEO di Mercedes, si è spinto addirittura oltre: bisognerebbe andare nella direzione opposta e «prendere le tariffe che abbiamo, e abbassarle». In realtà, gli Stati dell'Unione Europea sono divisi sulla questione delle misure protezionistiche contro la Cina. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz - in linea con l'industria automobilistica e di esportazione locale - ha ricordato i numerosi produttori di veicoli europei che hanno successo in Cina e che possono vendere "moltissimi veicoli". Inoltre, il 50% dei veicoli importati dalla Cina sono prodotti da costruttori occidentali, il che significa che anche i costruttori tedeschi sono colpiti dalle tariffe punitive statunitensi. Invece, la Francia e la Commissione UE sono favorevoli a creare barriere commerciali più elevate, il che è dovuto non da ultimo a interessi economici divergenti. I produttori di autoveicoli francesi non svolgono praticamente alcun ruolo in Cina, motivo per cui il Presidente Emmanuel Macron sta spingendo per l'imposizione di tariffe punitive, dato che le eventuali contromisure cinesi avranno probabilmente solo un impatto minore sull'economia francese. La Cina ha minacciato di imporre tariffe punitive anche sui prodotti alcolici francesi. Le minacce di Pechino rivolte alla Germania, invece, prevedono tariffe del 25% sui veicoli con motori di grandi dimensioni, come quelli prodotti con profitto da BMW e Mercedes. I tedeschi temono inoltre che la Cina possa tagliare le forniture di materie prime industriali essenziali come le terre rare, il cobalto o la grafite.
Ulteriori dazi punitivi sulle auto cinesi
Scholz, sembra aver già perso questa lotta di potere nell'UE, laddove anche la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è favorevole a maggiori barriere commerciali. Mercoledì, dopo le elezioni europee, la Commissione europea ha annunciato che ci saranno ulteriori dazi punitivi sulle auto cinesi, che si aggiungono all'aliquota tariffaria del 10% già applicabile. Anche la leadership tedesca è divisa su questo tema. Oltre al ministro federale dell'economia, Robert Habeck - che vuole proteggere le «condizioni di concorrenza eque» dell'UE contro le «proposte di dumping provenienti dall'esterno», anche l'Istituto dell'economia tedesca di Colonia (IW), favorevole ai consumatori, ha chiesto misure punitive moderate contro il capitalismo di Stato cinese, il cui livello di dazi potrebbe essere basato sul «livello delle sovvenzioni cinesi che distorcono la concorrenza», in linea con i principi dell'Organizzazione mondiale del commercio. Questa controversia politica ed economica sulle misure protezionistiche, è il risultato del dilemma economico in cui non si trova solo il modello economico tedesco, basato sulle esportazioni, dopo l'esaurimento della globalizzazione neoliberista guidata dal mercato finanziario. Da tutto questo, non esiste alcuna via d'uscita generalmente vantaggiosa. O l'UE rinuncia alle tariffe e si impegna in una «gara di sussidi senza fondo e alla fine non finanziabile» con il capitalismo di Stato cinese, come ha detto l'IW, oppure l'UE introduce delle tariffe «per ripristinare condizioni di parità». Il libero scambio porta pertanto al dissesto finanziario e, in ultima analisi, proprio a quella deindustrializzazione che gli Stati Uniti, sempre più protezionisti, stanno cercando di contrastare.
I dazi portano ai dazi
Tuttavia, se l'UE introdurrà effettivamente le tariffe annunciate, c'è la possibilità di una vera e propria guerra commerciale globale; in altre parole, un'escalation protezionistica che non colpirebbe solo l'industria tedesca delle esportazioni nel medio termine. I dazi generano dazi, dal momento che tutte le principali aree economiche sono desiderose di proteggere la propria base industriale, il che potrebbe portare al collasso definitivo della globalizzazione. La protezione dei mercati nazionali finisce per rovinare il commercio estero. Questa riedizione imminente del protezionismo degli anni Trenta, in grado di aggravare la crisi, è stata alimentata in maniera determinante dalla recente fase di inflazione. Ciò ha costretto le banche centrali ad adottare una politica monetaria restrittiva, che ha privato del suo carburante monetario l'ampia bolla di liquidità che si era creata da tempo. Poiché i mercati finanziari non sono più in grado di fornire al mercato industriale una domanda finanziata dal credito attraverso la creazione di bolle - soprattutto in Cina dopo lo scoppio della bolla immobiliare - ecco che si scatenano i disastrosi riflessi protezionistici, i quali rischiano di avere le consuete conseguenze nazionaliste o addirittura fasciste.
In ultima analisi, il protezionismo del XXI secolo, incentrato principalmente sulle industrie high-tech e "verdi", ostacola l'obiettivo postulato politicamente di una rapida trasformazione ecologica dell'economia tardo-capitalista. Al fine di costruire la propria "eco-industria" a lungo termine, anche in presenza di una manifesta crisi climatica, i prodotti più economici della concorrenza vengono resi più costosi tramite le tariffe. Il protezionismo del governo statunitense alimenta l'inflazione; così denunciava la FAZ in un commento di metà maggio. In realtà, i dazi sono un aumento delle tasse sulle importazioni che devono essere pagate dai consumatori statunitensi. Così, il governo degli Stati Uniti non solo ha reso le auto elettriche cinesi più costose, ma anche le celle solari sono state tassate al 50%. Ora, anche le batterie agli ioni di litio sono soggette a una tariffa del 25%. Tutto ciò rallenta l'uso di massa di queste tecnologie: ragion per cui, anche nella crisi climatica manifesta, mantenere il processo di riciclaggio ha la priorità sull'ordinaria protezione del clima.
- Tomasz Konicz - Pubblicato su JUNGLE.WORLD del 12/6/2024 -
Nessun commento:
Posta un commento