domenica 30 giugno 2024

«Fuori il caos imperversa!»

Nei primi anni del Novecento, gli stessi in cui il governo degli Stati Uniti lanciava una campagna di assimilazione dei nativi sopravvissuti ai massacri del secolo precedente, si impose al mondo Jim Thorpe, appartenente alla nazione indiana Sac e Fox e ancora oggi ricordato come uno dei più grandi atleti americani di tutti i tempi. Campione della squadra di football della scuola indiana di Carlisle, che trascinò a clamorosi successi sui college dell’élite, Thorpe vinse due ori alle Olimpiadi del 1912 – poi revocati perché accusato di professionismo. Giocò ai massimi livelli nel football e nel baseball, concludendo la sua carriera proprio mentre la crisi del ’29 sconvolgeva l’America. Varcata la soglia della povertà, si prestò a svolgere numerosi lavori, fino a diventare sindacalista dei nativi assunti come comparse sui set di Hollywood. La sua storia incrociò la Storia in più punti. Ebbe carteggi con presidenti americani, Marilyn Monroe come vicina di casa, il pugile Jack Dempsey per amico, la poetessa Marianne Moore come insegnante. Burt Lancaster fu la star chiamata a interpretare un film su di lui. Tommaso Giagni ricostruisce la vita di un personaggio irripetibile, unendo il rigore della ricerca storica all’utilizzo di una lingua trascinante, in una biografia che getta una nuova luce su Thorpe ma anche sull’America della prima metà del Novecento, tra razzismo, eugenetica e intrattenimento di massa.

(dal risvolto di copertina di: TOMMASO GIAGNI, Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe. MINIMUM FAX, pp. 210, €16)

Dopo il fulmine la luce di Jim Thorpe
di ORAZIO LABBATE

Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe di Tommaso Giagni è una rapida e appassionante biografia sportiva dal forte carattere narrativo. Possiede uno stile sciolto, puntuale e fresco, inventa un’intima voce fuoricampo analoga a quella di film come Magnolia e L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford. Il libro non si limita a raccontare l’incredibile e sofferta esistenza del «più grande atleta del mondo», ma vi penetra con un piglio analitico, quasi malinconicamente amicale.

Nativo americano dell’Oklahoma, erculeo, dalla mascella pronunciata, Jim Thorpe (1887- 1953) trionfò nel 1912 ai Giochi di Stoccolma nel pentathlon e nel decathlon. Vantava molteplici nomi. La madre gli diede il nome di Jacobus Franciscus, ebbe anche quello in lingua Sauk «Luce dopo il fulmine», Wa-tha-sko-huk. A nove anni fu segnato dalla morte del fratellino Charles, si legò visceralmente ai cani, che nella sua vita furono gli unici esseri per cui davvero versò lacrime. Atleta eclettico e di successo della Carlisle Indian Industrial School che nell’estate del 1912 ribolliva per il suo ritorno dalle Olimpiadi. Orfano dal 1904, era un’anima elettrica Thorpe che praticava più sport con immenso talento, vincendo prestigiose medaglie e battendo a West Point, alla guida di una squadra di soli nativi, gli allievi dell’esercito. Nonostante le sue glorie, era uno spirito solitario, sovrumano, pan-nativo, isolato da piccolo (soffrì il mondo della metropoli newyorkese al ritorno dai Giochi), da anziano esortava le figlie a fare affidamento sulla famiglia, famiglia che lui aveva smembrato fuggendo nei boschi rispondendo a un bisogno profondo, mentre, a suo dire, «fuori il caos imperversa».

C’è anche una scintillante parentesi hollywoodiana nella vita di Thorpe: lavorò con figure avvolte nel mito come Henry Fonda, Buster Keaton, Frank Capra, John Wayne. Altre vite incredibili di scrittrici e poeti si intrecciano alla sua, quelle di Marianne Moore ed Ezra Pound, dando alla sua una sorta di simbolica benedizione. Un’esistenza, la sua, marchiata dal fenomeno della colonizzazione. Afferrare un’ombra, attraverso l’intensità cronachistica della lingua e l’oscillante struttura cronologica, ci fa vivere dal di dentro — complice l’ottima riscrittura finzionale di Giagni — la vita di uno sportivo dalla caratura di un superuomo, di un malinconico gladiatore. Si tratta, pertanto, di una biografia emozionante, dalle chiare incursioni romanzesche condite di uno stile rigorosamente minimalista che mai sfugge all’esattezza descrittiva. Riporta alla memoria, con risoluta tensione, il dramma umano e sociale dei prometeici atleti americani condannati, quasi tutti, al supplizio finale. Per tal ragione ricorda le due pellicole di culto Foxcatcher (2014) e The Iron Claw (2023), in cui le umili origini degli sportivi di successo si scontrano con il sistema. È il sistema che ha il potere di esaltarli ma anche, tristemente, di venderli, di abbandonarli ai loro demoni passati e presenti, dopo che si sono nutriti con voracità dello splendore e della passione degli inizi.

- Orazio Labbate - Pubblicato su La Lettura del 10/12/2023 -

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