Come consiglio di lettura critica, si riprende qui un post di @Pierre Madelin, il quale prosegue la sua lettura/ricerca, svolta nell'ambito delle correnti postcoloniali e decoloniali, con l'idea che forse un giorno scriverà un breve libro sull'argomento (il quale, come avrete capito, sarà senz’altro critico!). Il piatto forte di oggi è l'eccellente libretto di Jean-François Bayart, di cui vengono riportati alcuni estratti.:
«Gli studi postcoloniali si occupano, non tanto delle pratiche, che verranno poi documentate tramite il lavoro sul campo, o negli archivi, quanto piuttosto dei discorsi e delle rappresentazioni a partire dai quali dissertano, se non addirittura estrapolano, in modo sovente abusivo. Di conseguenza, essi finiscono per rimanere intrappolati nel disastroso concetto di “identità” reificando così una condizione postcoloniale alla quale conferiscono uno status quasi ontologico, secondo una sorta di calvinismo tropicale o diasporico: la colonia, la schiavitù, è la predestinazione dell'indigeno (e del suo padrone).»
«L'origine di questo spostamento deriva da due errori di metodo: da un lato, la de-storicizzazione del fatto coloniale, che viene sostantivato; dall'altro, la de-storicizzazione delle continuità o delle discontinuità, o più precisamente delle sequenza, della concatenazione del momento coloniale con il momento postcoloniale. Quando si tratta di analizzare il fatto coloniale, gli studi postcoloniali lo sovra-specificano rispetto ad altre forme di imperialismo, semplificando allo stesso tempo la sua singolarità in modo da impedire qualsiasi comprensione della sua storicità. È ormai dimostrato che gli imperi coloniali erano, in parte, imperi come tutti gli altri, e vanno quindi letti anche alla luce delle tematiche classiche che li hanno decifrati.»
«Si arriva così al secondo errore metodologico compiuto dagli studi postcoloniali. Essi postulano una riproduzione meccanica, univoca e sovra-determinante della situazione coloniale. Una presentazione a-storica della situazione coloniale implica la presenza di un'eredità a-storica di quest'ultima. Attraverso il mezzo della “storia reale”, non ci viene detto nulla sulle condizioni di trasmissione di questa eredità, né sulla sociologia dei suoi legatari universali, né sui cambiamenti che interessano le “situazioni d'uso” di qualsiasi pratica o discorso che sia stato formalmente riprodotto. Sulla dimensione morfologica di alcune caratteristiche permanenti che a volte devono più alla geografia che alla dominazione coloniale, sull'evaporazione di parte dell'eredità all'interno degli stessi processi di rinnovamento, sull'eterogeneità di questa eredità, nella misura in cui il coloniale è stato storicamente diverso e contingente, sulla sua “ambiguità” (Georges Balandier) che è pari solo a quella della situazione coloniale stessa. Tutto questo, curiosamente, è avvenuto a partire dalle penne di storici e saggisti che avevano posto al centro delle loro preoccupazioni la pluralità degli spazi temporali e l'ambivalenza dei fenomeni sociali. La deriva degli studi postcoloniali rispetto alle loro ambizioni iniziali ricorda la scuola latinoamericana della dipendenza, che all'inizio guardava alla storicità delle società della periferia, per poi finire per semplificarla, riducendola in maniera caricaturale alla storicità del centro imperialista.»
(da: Jean-François Bayart, "Les études postcoloniales. Un carnaval académique". KARTHALA Editions. 2010)
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