Come promesso precedentemente, le domande preparate da Afshin, per essere sottoposte a Wolf, sono arrivate. Ragion per cui, come mi viene richiesto, sono lieto di poter dare a tali domande quella piccola parte di visibilità che sono in grado di fornire.
In principio era il cibo…
- Dialogo tra Afshin Kaveh e Wolf Bukowski -
Afshin Kaveh: Qual è il fil rouge che collega le tue ricerche critiche sull’industria alimentare? Dal racconto Il grano e la malerba (Ortica Editrice 2012) passando per il saggio La danza delle mozzarelle (Edizioni Alegre 2015) conducendoci, oggi, a La merce che ci mangia. Il cibo, il capitalismo e la doppia natura delle cose (Einaudi 2023), quali sono stati, nello scorrere irreversibile del tempo, i punti di contatto, le continuità e quali invece, sempre che vi siano, le divergenze, le svolte e le discontinuità tra queste opere?
Wolf Bukowski: La continuità è certamente quella di aver cercato nel cibo la manifestazione di tendenze generali. Nel racconto Il grano e la malerba si trattava della logica emergenziale, che era già allora matura; ne La danza delle mozzarelle al centro c’era la messa a reddito della vita urbana e delle “tipicità” alimentari. Come è stato possibile, per esempio, che gli amministratori di un’importante città, densa di storia e di vita, abbiano pensato di scrivere fogassa e pesto in lettere luminose sui caruggi? E cosa implica, socialmente, questo? La danza delle mozzarelle voleva essere un po’ un tentativo di spiegarmelo, e in ciò mi pare ben riuscito. Quello che il saggio sconta è invece la mia adesione di allora alle istanze di un certo “attivismo” e alla sua lettura monodimensionale della questione di classe. In quella fase storica tali istanze si riconoscevano in una sopravvalutazione delle manifestazioni sindacali dei cosiddetti “riders”, i ciclofattorini. A quella sopravvalutazione ho partecipato anche io, nonostante tra me e me continuassi a ripetermi: “queste persone certamente dovrebbero poter lavorare in sicurezza e guadagnare decentemente, ma quello della consegna a domicilio dei pasti rimane un lavoro assurdo, un lavoro che non dovrebbe esistere, e questa verità spiacevole andrà detta, prima o poi”. Mi trovavo dunque in contraddizione, e per uscirne avevo bisogno di due cose: la prima era una rottura emotiva con la quasi totalità della “sinistra radicale”, e questa è avvenuta per via della sua “fedeltà alla linea” governativa nel caso Covid; la seconda cosa di cui avevo bisogno era una teoria, qualcosa che mi aiutasse a capire quello che sentivo fortemente, ma in modo un po’ selvatico.
AK: Come hai incontrato la corrente teorica internazionale della “Critica del valore” (Wertkritik) e in che modo ha influito sulla cassetta degli attrezzi da te utilizzata nella composizione de La merce che ci mangia?
WB: Ho incontrato la Wertkritik grazie a Cemento, arma di costruzione di massa (Elèuthera, 2022) di Anselm Jappe. Mi ero trovato a partecipare ad una presentazione di quel volume in un paese dell’Appennino bolognese dove il culto del cemento, e delle Grandi Opere, è particolarmente affermato. Quello delle Grandi Opere e della smisurata espansione edilizia è un mio tema classico, sono le prime cose di cui ho scritto, quindi cercavo in Cemento soprattutto quell’aspetto. Ma non ho potuto fare a meno di essere intrigato dalle parti in cui Jappe accenna ai temi della “Critica del valore”, in particolare nel capitolo “Il lato concreto dell’astratto”. Da lì ho cominciato a leggere altro; e l’influenza di queste letture su La merce che ci mangia è evidente. La più diretta, ma non l’unica, è certamente quella de Le avventure delle merce. Per una critica del valore (Mimesis, 2022), dello stesso autore.
AK: Superficialmente potrebbe sembrare un mero esercizio intellettualistico o peggio spavalderia semantica, ma perché non è affatto scontato iniziare la tua opera domandandoti cosa sia effettivamente una “merce”?
WB: Quella di cosa sia una merce è, a mio parere, un problema aperto. Nella tua recensione del mio testo correttamente dici che il cibo “non è merce laddove è soppresso il lato astratto del lavoro per la sua produzione”. In questo taglio vedo però il rischio di un atteggiamento teoricamente impeccabile, ma poco fecondo. Il cibo è uno dei pochi settori in cui è ancora praticabile – sempre più a fatica, a dire il vero – un’alternativa. In questa alternativa dobbiamo valorizzare gli elementi non mercificati, farli crescere, consolidarli, per abbandonare almeno in parte il mercato. Anche già solo una radicale rilocalizzazione abbasserebbe la temperatura di merce del cibo; l’intelligenza collettiva farebbe il resto. Ho poi ben presente che sul cibo, cioè sull’agricoltura, la teoria sbatte facilmente le corna, come la storia del marxismo dimostra ampiamente.
AK: Di fronte ad uno dei tuoi tanti esempi dei braccianti stagionali, operai migranti impegnati nell’olivicoltura, affermi di non riuscire più a venire a capo della problematicità della questione (che se ti va puoi qui approfondire ulteriormente) con gli strumenti tradizionali dell’analisi di classe. Leggo: «quegli strumenti non mi bastavano più, perché il problema si trova ben alle spalle della classe, ed è nell’implacabile sistema della merce: è la merce che fa della classe ciò che vuole; è la merce a plasmare il mondo che la classe abita, e non viceversa». Puoi argomentare questo punto molto interessante e che, in un modo o nell’altro, si riallaccia alla precedente domanda sulle possibili discontinuità delle tue opere? E in che modo la lettura del breve testo di Robert Kurz intitolato Il duplice Marx, ha influito su questa conclusione?
WB: La drammatica situazione bracciantile è dovuta alla compressione dei salari agricoli; ma la compressione dei salari agricoli risponde a un’esigenza dell’intera società capitalistica, e non solo degli imprenditori agricoli. L’esigenza è quella che per il cibo sia spesa solo una piccola parte del reddito disponibile, perché il resto deve essere destinato ad altre merci, merci con maggiore valore aggiunto e con un più alto potenziale di “crescita”. Poi c’è dell’altro. Se quei braccianti fossero inquadrati più adeguatamente e con migliori buste paga, la meccanizzazione del loro lavoro prenderebbe uno slancio ancor più rapido, e dunque alla stagione di raccolta successiva quel lavoro per cui si è lottato, semplicemente, non esisterebbe più: sarebbe fatto solo da macchine. Sono stato alla Fiera dell’agricoltura di Verona pochi mesi fa e tutto puntava nella direzione di una meccanizzazione più spinta, con la scusa ufficiale della “mancanza di manodopera”. (Detto incidentalmente, risulta con ciò chiaro che il tema delle “grandi dimissioni” è stato perfettamente metabolizzato dal capitalismo). Dunque, se si hanno presente questi problemi, guardare alla questione salariale dei braccianti solo come una questione di assenza di “lotta di classe” è totalmente miope. Questa nuova consapevolezza apre problemi, più che fornire soluzioni. Il Marx esoterico, per usare le categorie dell’articolo di Kurz che citi, non offre nessuna delle consolazioni, o speranze, di quello essoterico. Ma la speranza vana non è una buona compagnia, né una buona consigliera.
AK: Citando l’esempio di mele prodotte in sovrabbondanza e quindi invendute o vendute sottocosto, o l’esempio di produttori di mele indebitati per incrementare il raccolto di mele o, dall’altra, produttori al tracollo per l’eccesso di mele che ne fanno precipitare il prezzo, come mai scrivi che «nulla di tutto ciò è di per sé motivo di crisi del capitalismo»? Neghi forse la “crisi” in generale o proprio il “collasso della modernizzazione” di cui parlava Robert Kurz? Non pensi che anche i fenomeni più immediatamente ed empiricamente visibili come l’eccedenza e sovrabbondanza di merci invendute e la loro svalutazione sia comunque un motivo di “crisi strutturale” del modo di produzione capitalistico dovuto ai limiti intrinseci del suo contraddittorio funzionamento logico?
WB: Devo risponderti su un piano duplice. C’è una causa prossima, o forse è meglio dire polemica, in quella mia formulazione. La polemica è contro un certo anticapitalismo speranzoso che in ogni crisi vede l’inizio della fine, restandone poi immancabilmente deluso. Solo negli ultimi anni il capitalismo doveva finire col picco del petrolio, poi per Lehman Brothers, poi col Covid, poi con le “grandi dimissioni” o per via delle istanze climatiche. Invece da ognuna di queste crisi il capitalismo è uscito rafforzato. Questo il piano immediato, polemico. Sul piano invece, se mi consenti, escatologico, temo che il capitalismo abbia talmente preso in ostaggio la vita sul pianeta da non lasciare intravedere un esito positivo a fronte di una sua crisi reale. Perché infatti è “più facile pensare alla fine del mondo che alla fine del capitalismo”? La risposta è semplice e terribile: perché la fine del capitalismo, la sua sola fine possibile, è la fine del mondo; esse non possono essere dunque pensate separatamente. Ciò non significa, nel tempo che ci resta, che non sia necessario costruirci tutte le possibili defezioni dal capitalismo che sappiamo immaginare. In fondo l’apocalisse – è di questo che parliamo – è già sempre innescata, più che mai nell’era atomica. Il tempo in cui essa ancora non accade – il tempo del trattenimento, del katechon – è il tempo della nostra vita, ed è il tempo della “politica” in un senso alto, nel senso del vivere insieme in maniera cosciente. E in maniera cosciente prodursi il cibo – per tornare al filo conduttore della nostra conversazione.
AK: A proposito di questa tua ultima conclusione: la logica capitalistica di ribaltamento tra astratto e concreto, che non bada al contenuto qualitativo e materiale di una cosa ma al suo essere, in quanto merce, portatrice della capacità di poter realizzare valore in denaro e più denaro in mercati anonimi, come si realizza e svolge per il cibo? E per l’agricoltura? Puoi fare qualche esempio?
WB: Questo è uno dei più intriganti paradossi del cibo. Esso è indispensabile e il suo contenuto concreto è insopprimibile, perché dobbiamo mangiare tutti i giorni, possibilmente più volte al giorno; eppure il capitalismo impone che il cibo sia merce, con tutti i suoi attributi e astrazioni di merce. Questo crea contraddizioni a non finire, che il capitalismo risolve (cioè aggrava) con la sua solita logica accrescitiva. Un esempio straordinario è quello della cosiddetta carne sintetica. Si parte dal dire una grande e incontestabile verità: gli allevamenti industriali sono una sciagura ambientale e etica, e sono del tutto insostenibili. Ma una volta che, finalmente (!), questa verità si è affermata nella società, come si dovrà agire? Una risposta cosciente potrebbe essere: chiudere gli allevamenti industriali, nutrirsi con cibi proteici vegetali, riducendo così direttamente il nostro impatto ambientale e la produzione di morte animale. Invece, all’insostenibilità degli allevamenti industriali il capitalismo cosa oppone? Gli allevamenti di insetti, ovvero un rischio ambientale imponderabile (cosa potrebbe succedere se si aprisse un varco di pochi centimetri in un allevamento di cavallette?), nonché una fabbrica di morte ancora più efficace, solo resa emotivamente meno gravosa perché gli insetti non ci assomigliano come ci assomigliano i mammiferi. Oppure, ancora, vi oppone la trovata della carne sintetica: un passo a occhi bendati dentro il pieno controllo tecnologico capitalistico, fino a far sì che il cibo sia merce non solo socialmente, ma che diventi merce geneticamente e ontologicamente, di modo che non sia possibile fare un passo indietro. E tutto questo perché? Perché l’astratto della valorizzazione capitalistica si impone sul concreto del nutrimento.
AK: Arriviamo, in conclusione, al fatidico “che fare?”. Come pensare e costruire questo “vivere insieme in maniera cosciente” di cui hai precedentemente parlato e come si trasformerebbe di conseguenza anche la produzione di cibo? Quali sono le realtà e gli esempi pratici a cui si potrebbe guardare o che immagini? Giusto per azzardare due esempi: la storia e la cassetta degli attrezzi del consiliarismo o del municipalismo democratico potrebbe essere d’ispirazione e feconda?
WB: La questione di fondo è che i nostri desideri sono stati sequestrati dal capitalismo. Bisognerebbe capire se essi esistono ancora, da qualche parte in noi, al di là della forma che il capitalismo ha loro imposto; e se sì in quali situazioni possano fuggirne. Negli ultimi decenni si è spesso scambiato per alternativa al capitalismo quella che era solo la pretesa di ottenere merci ed esperienze mercificate più a buon mercato. Il Paese di Bengodi che si sognava finiva così per assomigliare straordinariamente al parco giochi edificato dal capitalismo, e il “radicalismo” e l’“antagonismo” consistevano nel pretendere un prezzo del biglietto più basso, o persino un carnet di ingressi omaggio. Invece la secessione dal capitalismo, se mai si darà, dovrà giocoforza assomigliare alla dismissione di una dipendenza gravosissima. Sarà poco divertente, insomma, e sarà richiesta una determinazione che spaventerà non poche persone. Ciò premesso, che forme potrà assumere? Non lo so. Questo è il tempo dei problemi, del riconoscimento dei problemi, e non il tempo delle soluzioni.
- Afshin Kaveh e Wolf Bukowski - Pubblicato il 9/6/202 su "L'Anatra di Vaucanson" -
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