I funerali hanno molto da raccontare sulla società e la politica di un Paese. Una riflessione sulla propaganda relativa alla gestione del decesso e al rito funebre come tale nell'ex Unione Sovietica può offrire oggi strumenti utili per meglio comprendere i fenomeni che stanno scuotendo la Russia contemporanea, dove un allarmante culto della morte per la patria ha preso piede in parallelo alla rivalutazione putiniana del passato medievale riletto in chiave filo-staliniana. Sono state scelte esequie che hanno lasciato segni significativi nella vita della nazione (quelle di Lenin, Majakovskij, Stalin, Achmatova, Gagarin e altri fino a Gorbacëv e Prigožin). L'analisi si basa sulla componente visuale degli eventi e su testimonianze scritte, e valuta la relazione tra popolazione e governo sia di fronte alla strumentalizzazione di spettacoli funebri organizzati per coinvolgere la cittadinanza e stabilizzare il potere sia, viceversa, per sfidarlo e metterlo in difficoltà nel caso di assemblee spontanee per l'omaggio a una figura non allineata.
(dal risvolto di copertina di: GIAN PIERO PIRETTO, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto storia. RAFFAELLO CORTINA, Pagine 232, €19)
Mosca in lacrime per l’ubriacone
- di Massimo Zamboni -
«Noi condanniamo l’atto assurdo e ingiustificato di Majakovskij. È una morte stupida e vile. Noi non possiamo fare a meno di protestare decisamente contro la sua dipartita».
Noi. La riprovazione ufficiale si arroga il diritto di esprimersi a nome dell’intero popolo sovietico, pronunciandosi in quella prima persona plurale. Il colpo di pistola che mette fine alla vita del poeta è letto come un atto di ribellione estrema, un’accusa di fallimento di un intero sistema. Occorre ribaltarne i termini, mettendo in atto a giustificazione la sua burrascosa vita sentimentale, quei «meschini sentimenti personali» derivanti dal vecchio mondo. Ma a dispetto delle parole d’ordine nessuno potrebbe persuadere a un ripudio le centocinquantamila persone che spontaneamente andranno a recare l’ultimo omaggio alla salma nella camera ardente al Circolo degli Scrittori, assieme all’impressionante moltitudine che seguirà il feretro. Una manifestazione di sgomento popolare che mescola la devozione alla curiosità, e si assomma come significato agli arredi funebri in pura sostanza futurista (la corona composta da martelli, viti, bulloni, «ghirlanda di ferro per un poeta di ferro») e al dovere da parte delle autorità di riportare a una dimensione controllata un evento così imbarazzante. Quell’irreparabile fuga di Vladimir Majakovskij dal byt, dall’estenuante marcire quotidiano, non può essere tollerata nella società dell’uomo nuovo. Si impone un recupero pubblico, condensato in future tonnellate di bronzo e marmo, di ovazioni postume. La più celebre, quella di Stalin: «Majakovskij è stato e resta il migliore e più talentuoso poeta della nostra epoca sovietica». In una terra dove si può morire per una poesia — per dirla con Nadežda Jakovlevna Mandel’štam, moglie di Osip Mandel’štam — non è bene lasciare alle masse i loro cantori.
Questa è una delle tante discrasie messe in mostra da Gian Piero Piretto nel suo L’ultimo spettacolo (Raffaello Cortina Editore). La determinazione di una gestione pubblica della cerimonia funebre, l’innesto di una liturgia rigorosissima, la convenienza politica, l’appassionata partecipazione popolare, spontanea e assieme indotta, costruiscono un unicum che forse soltanto in quel Paese si è saputo esprimere in dimensioni impensabili altrove. Le grandi morti che si susseguono dagli anni della rivoluzione a oggi solcano la società sovietica e russa, imponendosi come spettacoli necessari. I funerali sovietici che hanno fatto storia, per riprendere il sottotitolo del libro, sono sempre eventi pubblici. Il testo di Piretto spazia in più campi, anche spiazzanti tra loro: come assimilare nelle stesse pagine Vladimir Lenin e Evgenij Prigožin, Sergej Esenin e Iosif Stalin, Jurij Gagarin e Boris Pasternak, Anna Achmatova, Michail Gorbaciov e molti altri, fino a quella lapide che riporta a dimensione naturale l’immagine di un capomafia, con tanto di abito che si suppone elegante e una Mercedes a coronamento dello status raggiunto? È la grandiosità della cerimonia organizzata a porsi come denominatore. Per meglio afferrare l’entità del fenomeno, basterebbe scorrere i vari link YouTube che Piretto opportunamente dissemina nel libro, come tasselli di una mappatura: dai funerali di Pasternak, inquadrati dalle telecamere irritate dell’Apparato, a quelli di Piotr Kropotkin, a Gagarin per quanto riguarda gli intellettuali e gli eroi. Molto più note universalmente le esequie dei grandi condottieri, da Lenin a Stalin a Sergej Kirov. Propaganda, imbroglio, verità, verosimiglianza? La sacralità che percorre quei riti, e che i mausolei posteriori cercano in qualche modo di arginare in strutture architettoniche di eguale portata; la perfezione dei movimenti; le scenografie imperiali: sembra di assistere a una costruzione teatrale, più che a cronache di fatti. E quegli sguardi più attoniti, più spaventati dei partecipanti: «Di dove viene quest’uomo/ di ogni uomo più umano», in tanti sembrano chiedersi di Lenin, esprimendosi attraverso le parole del poema di Majakovskij. L’onnipresenza di Stalin, tiranno shakespeariano sempre in mostra nei funerali di Stato, ripreso, fotografato, esibito, colto in primo piano dalle telecamere nel portare sulle spalle la bara dell’assassinato Kirov tra le ali della folla. Anche da cerimonie come queste, sapientemente edificate, passa la creazione del suo mito. Fino alla sua improvvisa scomparsa, cui Piretto dedica un lungo ed esauriente capitolo intitolato Dio è morto! Fiumi di lacrime! dove si colgono l’incredulità e lo smarrimento di un intero impero per lo spegnersi inammissibile di quella guida dalle caratteristiche quasi divine. E cosa accade nella nuova Russia post sovietica? Nessun onore di Stato per il funerale di Gorbaciov, profilo tenuto volutamente basso per scoraggiare la partecipazione pubblica, l’attuazione di sistemi di controllo e un freddo telegramma dal Cremlino. La Russia di Vladimir Putin non consente orazioni che possano suggerire una comparazione tra le epoche. Piretto racconta la vera idolatria della morte messa in atto invece per le sepolture dei componenti della compagine Wagner, dove il processo di minimizzazione del valore della vita umana persegue logiche di negazione dei decessi, per non appesantire un bilancio di guerra elevatissimo. Gli uccisi valgono come rotelle di un ingranaggio superiore, nulla di più. È una morte giusta, affrontata in nome della Patria.
Differente il caso del loro leader Evgenij Prigožin, su cui si chiude il libro. La sua morte accidentale non si può evitare. A lui spetta un non-funerale, insiste Piretto, un depistaggio informativo che obbliga i suoi sostenitori a rimbalzare da un cimitero all’altro per intercettare una cerimonia che non è voluta. Smentite, conferme, le parole taglienti di Putin che nel telegramma di condoglianze lo chiama «uomo dal destino difficile», arrivato a ottenere «i risultati desiderati». Un cinico macigno tombale verso l’ex eroe della Russia, responsabile di un intollerabile fallito tradimento. Fino all’annuncio postumo da parte del suo ufficio stampa, che soltanto a inumazione avvenuta potrà rivelare il luogo della sepoltura. Tutto questo è gestione del potere. Tornando all’umano, come non concludere con la scomparsa del popolarissimo cantautore Vladimir Vysockij? Quasi una ennesima beffa, avvenuta proprio durante i giochi olimpici di Mosca del 1980. Nonostante il silenzio ufficiale, in una città tirata a lucido per le telecamere internazionali la notizia corre, centinaia di migliaia di persone disertano le competizioni per invadere la piazza del teatro Taganka dove è allestita la camera ardente. La voce del cantante rimbalza nelle strade dalle centinaia di magnetofoni che riportano in vita le sue canzoni, si mescola al pianto, al nome urlato. Ancora una volta, come Esenin, come Majakovskij — tutti poeti «dissipati» dalla loro generazione, seguendo l’azzeccata definizione di Roman Jakobson — un ubriacone scomposto, intossicato e ingestibile ha saputo incarnare in sé il vero cuore del popolo sovietico. «Io non amo la certezza piena/ è meglio se i freni non rispondono»: un’altra mente generosa è scomparsa, in accordo con «l’amara tradizione della poesia russa» evocata dalle parole del regista teatrale Jurij Ljubimov a lui contemporaneo: quella di non saper proteggere in vita i suoi figli migliori. Tutti tanto amati e pianti da mettere in affanno una autorità statale che avrebbe voluto essere incoercibile.
- Massimo Zamboni - Pubblicato su La Lettura del 10/12/2023 -
Nessun commento:
Posta un commento