Il numero di febbraio e marzo 2024 di Le Monde Libertaire ha avuto la buona idea di pubblicare un'intervista a Emilienne Morin realizzata il 12 febbraio 1977 da Pedro Costa Muste e Luis Artime (fotografo), inviati speciali della rivista spagnola Interviú.
Tre anni fa, su "La biblioteca fantasma" si è parlato della morte di Buenaventura Durruti, e di tutta la mitografia che intorno a questa morte si è sviluppata. Giorni fa ho ricevuto un'e-mail da chi posso già considerare un amico. Si tratta di Luis Artime, l'autore dell'impressionante fotografia di Colette Durruti con la quale apro questo post, che ringrazio pubblicamente per la sua generosità e per avermi permesso di riprodurla. In un certo qual modo, per certi versi, questa mail avvalora alcuni dei punti esposti in precedenza, e li integra con altre informazioni. Il pdf che Luis mi ha gentilmente inviato, proviene dalla rivista Interviu, ed è stato pubblicato nel 1977. La storia ha inizio nell'estate del '77, sull'ormai defunta rivista "Posible".
Nel mese di giugno, il mio collega Pedro Costa è riuscito a intervistare Antonio Bonilla Albaladejo. Nella scena della morte di Durruti, questo individuo ha un ruolo da protagonista. Scopriremo che, a dispetto di quanto si legge nella documentazione ufficiale del Gotha anarchico, che lo descrive come un eroico combattente per la libertà, riteniamo, in base ad alcune indicazioni, che egli era uno che si muoveva in quell'ecosistema brumoso comune assai spesso frequentato dall'anarchia e dalla delinquenza.
Ma questa è solo mera aneddotica. Sta di fatto che questo personaggio, dopo l'esilio in vari Paesi - Repubblica Dominicana in primis -, nel 1974 torna a Saragozza, dove lavora come tassista; una volta localizzato a Barcellona, egli accetta di farsi intervistare sull'argomento in questione. Nella sua testimonianza, che ho visto riprodotta su alcuni siti web, si legge in sintesi che, a partire dall'ottobre/novembre 1936 - in quanto membro della colonna Durruti e veterano delle collettivizzazioni in Aragona - si trovava in uno dei battaglioni coinvolti nella presa/difesa dell'edificio del Clínico, nella Città Universitaria di Madrid. Il suo superiore gerarchico - vedendo che, di fronte alle truppe del Tercio che portavano assalti furiosi e incessanti nel settore, forze così diverse da quelle che difendevano debolmente i villaggi dell'Aragona, il "veteranismo" di questi agguerriti anarchici si stava rivelando palesemente inefficiente, di fronte alle forze del Tercio che compiono furiosi assalti incessanti nel settore - lo mandò allora a cercare Durruti per tentare di ricucire la situazione intorno alla sua leadership, cercando di arginare le sempre più frequenti diserzioni dai combattimenti. Con due compagni sale in macchina e raggiunge la villa di Calle Miguel Angel (dove oggi si trova l'omonimo hotel) e chiede di vedere il leader anarchico. La cosa non è affatto semplice per lui, ma alla fine Durruti ordinerà di portare la Packard e vi salirà insieme a Julio Graves e al sergente Manzanas.
Questa precisazione eliminerebbe quindi la versione secondo cui nell'auto ci sarebbero stati altri due o tre miliziani, come spesso è stato sostenuto. Per evitare le strade più battute, percorrono qualche metro sopra la Packard e alla fine si ritrovano in via Reina Victoria. Lì, mentre controllano di non essere seguiti, si accorgono che l'auto di Durruti si è fermata proprio davanti a un gruppo di giovani che, presumibilmente, hanno abbandonato la loro posizione durante il combattimento. A questo punto Bonilla è categorico nell'affermare che dall'auto scendono due persone, una delle quali è proprio Buenaventura. Si trovano a circa cinquanta metri dalla scena quando vedono uno dei due accasciarsi; in quel momento Bonilla non sa quale fosse, e vedono Graves voltarsi in fretta e furia, dopo aver fatto salire il ferito in auto, e ripartire a tutta velocità in direzione opposta. Sul momento Bonilla non li segue. È andato al comando e ha raccontato ai suoi capi quello che era successo. Questi lo rimandano al comando anarchico per scoprire perché Durruti non è arrivato al fronte. Quando è arrivato sul posto, Bonilla ha incontrato Manzanas davanti alla porta e ha avuto un alterco con lui nel corso del quale, secondo la sua testimonianza, sono stati sul punto di estrarre le armi. Manzanas gli avrebbe detto che Durruti era dovuto andare a una riunione del Comitato. Data l'evidente falsità di questa affermazione, Bonilla cominciò a sospettare il peggio e si diresse nuovamente verso il Clínico. Quando il giorno dopo arrivò la notizia della morte di Durruti, la difesa di quella enclave diventò impossibile per i battaglioni anarchici, che dovettero essere sostituiti da altre unità, mentre i resti della Colonna ritornarono in Aragona e a Barcellona.
Bonilla si dichiara convinto che la morte del leader non sia riconducibile alle cause riportate nella versione ufficiale e, inizialmente, afferma che il colpo è partito in prossimità dell'auto, per errore o per dolo. Più tardi, nella conversazione, i suoi sospetti su Manzanas si fanno sempre più netti. A questo proposito è significativa la descrizione dettagliata in cui approfondisce la personalità del sergente. Per esempio, dice che egli si dichiarava anarchico in modo molto insistente, malgrado fosse più o meno noto che egli era o era stato membro del Partito Comunista. D'altronde, non si era mai fidato dei sottufficiali che si erano arresi, uscendo dalla caserma di Las Atarazanas tramite una porta laterale, dopo aver partecipato attivamente alla difesa prima della sua resa. Peraltro, ha anche sottolineato l'impossibilità di ipotizzare uno sparo involontario, imputabile al fucile mitragliatore “Naranjero” che Manzanas maneggiava usualmente. A suo avviso, un esperto di armi e un rinomato tiratore come lui avrebbe mantenuto l'arma in un perfetto stato di funzionamento, soprattutto sapendo che l'otturatore di questo modello era soggetto a inceppamenti accidentali, a causa di una molla di rinculo di scarsa qualità, e dell'assenza di una sicura. A dimostrazione di tutte queste sue affermazioni, raccontò l'aneddoto, che lui stesso aveva vissuto, di un'esibizione di tiro da parte di Manzanas, quando aveva sparato all'orologio di una casa in Aragona, argomentando che non avrebbe tollerato alcun condizionamento del suo tempo, allorché Buenaventura lo aveva rimproverato per essere arrivato in ritardo a quella riunione. Al termine di questo colloquio, Bonilla era quasi assolutamente certo della colpevolezza del sergente Manzanas. Da quel momento in poi, cominciammo ad avere la sensazione che ci fosse la possibilità di progredire in questa appassionante indagine e, dopo aver letto tutto ciò che era stato scritto su Durruti e sulla sua tragica fine, incominciammo a pensare di intraprendere nuove strade di indagine, ricercando testimonianze inedite. Io collaboravo regolarmente con la CNT, disegnandone i manifesti, e avevo diversi amici tra i vecchi militanti. Pertanto, le testimonianze storiche di prima mano erano piuttosto frequenti. È stato in questo modo che abbiamo scoperto i particolari riguardo la vedova di Durruti e, dall'altra parte, siamo riusciti a convincere Antonio Asensio, direttore di Zeta, a mandarci a Quimper.
Émilienne viveva da sola, ma sua figlia Colette abitava nelle vicinanze e praticamente formavano una famiglia. L'anziana donna era un bel personaggio. Negli anni Trenta aveva partecipato alla creazione di Femmes Libres, un'associazione femminista avant la lettre, e aveva una solida formazione intellettuale. Fumatrice accanita nonostante i suoi ottantasei anni, sfoggiava una salute invidiabile in un corpo piccolo e fragile. Sua figlia, evidente erede del fisico del padre, era una splendida donna di quarant'anni, con una certa aria da Sophia Loren. Quando ci si è presentati, si è scoperto che erano curiosamente al corrente degli eventi spagnoli e, in particolare, dell'evoluzione della nuova CNT e dell'interesse che suscitava tra i giovani la figura storica di Durruti. Recentemente Émilienne aveva ricevuto la visita del regista Jaime Camino, che stava raccogliendo informazioni in vista di un progetto cinematografico sull'anarchismo spagnolo. La visita durò due giorni e, il secondo giorno, decidemmo di separare madre e figlia, perché intuimmo che l'anziana donna si sarebbe sentita più a suo agio senza la presenza di Colette, che, in un certo senso, sembrava esercitare una sorta di freno alle sue dichiarazioni. Pedro Costa, che non parlava francese e che era stato sopraffatto dall'attrattiva della figlia, che invece parlava spagnolo, mi affidò il compito di occuparmi dell'“interrogatorio” di Émilienne. Poi, il secondo giorno, la portai a passare il pomeriggio in una crêperie e, tra quelle squisite argomentazioni gastronomiche e la mia esibizione nel versare il sidro, alla maniera asturiana, che stupì molti degli avventori, la vedova di Durruti sembrò rilassarsi un po' e mi raccontò un'altra storia. Sempre la stessa, però con sfumature davvero illuminanti.
Niente che non si sappia oggi, ma a quel tempo eravamo nel 1977, e tutto era nuovo. Quando la guerra era finita, lei tornò alla sua vecchia professione di segretaria e mi è parso di capire che si fosse in qualche modo ritirata dagli ambienti dell'esilio. Per questo si dedicò a sua figlia, che aveva quasi nove anni e alla quale prima non aveva dedicato molto tempo. Ma nella primavera del 1940 i tedeschi stavano avanzando rapidamente e così decise di fare i bagagli e dirigersi verso sud. Dopo l'armistizio, i suoi compagni le consigliarono di imbarcarsi per il Messico. Ma le cose cominciarono a complicarsi e, alla fine, qualcun altro gli soffiò il posto sulla nave in partenza da Marsiglia. Di fronte alla prospettiva di dover vivere in un Paese occupato, Émilienne cominciò a sbarazzarsi di tutto ciò che potesse collegarla al passato recente. Documenti, archivi, lettere e, soprattutto, la misera eredità del marito. Una giacca di pelle, un cinturone con una Colt 45, un berretto e un binocolo. Era tutto racchiuso nella misera valigia che il dottor Santamaría le aveva consegnato all'epoca. Tutto, tranne la pistola, finì tra le fiamme di un rogo. Seguendo un itinerario mentale del tutto simile a quello di Bonilla, man mano che parlavamo, la figura di Manzanas si delineava sempre più, fino alla sua dichiarazione finale, cauta ma inequivocabile, di essere convinta della colpevolezza del sergente.
Credo che si trovasse nel bel mezzo di una specie di lotta tra la sua fedeltà alla disciplina dell'organizzazione e la sua intuizione più profonda. Mi disse che, senza la minima ombra di dubbio, la giacca che il medico le aveva consegnato aveva un foro d'entrata con una bruciatura. Credo che, sebbene non lo riconoscesse, fosse stato il medico a instillare in lei il primo sospetto. Non bisogna dimenticare che, insieme al prete Acerete, Santamaría era uno degli amici più sinceri e fedeli di Durruti. Entrambi non erano anarchici.
E questo è tutto. Forse, quando abbiamo individuato l'indirizzo di Manzanas a Cuernavaca, si sarebbe potuto prendere una suite. Ma stavolta Asensió non ha ritenuto interessante l'avventura. Un vero peccato.
Bremaneur – 3/11/2013 -
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