Sulla rivoluzione - Aprile 1972
(Invariance, n. 2, II serie)
I vari gruppuscoli che hanno fatto la loro comparsa, a partire dal 1945, si sono sempre rifiutati di riconoscere la morte del vecchio movimento operaio. Avrebbero dovuto proclamare la loro stessa autonegazione. Ciò tuttavia non ha impedito loro di evocarla, interpretarla, teorizzarla nella solita rubrica: crisi del movimento operaio, concepita per lo più come una crisi di direzione rivoluzionaria. Molto raramente ciò ha comportato una ricerca delle cause di questa morte in seno alla classe stessa. Giacché era prima di tutto necessario rifiutare la consueta affermazione: il proletariato è integrato, ha abbandonato la propria missione — come già aveva fatto Trotzky nel suo articolo del 1939 l'URSS in guerra —. Alcuni hanno interpretato questo fenomeno spiegandoci che il capitalismo era cambiato trasformandosi in capitalismo di Stato, in capitalismo burocratico; ma che tutto sommato il proletariato restava identico a se stesso, portava avanti la missione di sempre. Di qui il plagio del Manifesto del partito comunista perpetrato da Socialisme ou barbarie. E qui non si tratta di tuonare contro la produzione di un manifesto, anche se questo non ha fatto che copiare quello del 1848, in nome della sacralità dei testi classici; ma di mettere in evidenza i limiti stessi di una simile proposta. Occorre notare — in una tale prospettiva — che l'Internazionale Situazionista, comparsa alcuni anni dopo, portò avanti un’operazione del genere — d’altra parte, Potere Operaio e Lotta Continua non fecero che rispolverare e proporre una sorta di neo-leninismo.
Non mancarono uomini, come Proudhommeaux, che compresero l’importanza della disfatta proletaria nel 1945 e ne dedussero l’inanità della missione del proletariato arrivando, attraverso una regressione, a un rigetto della teoria di Marx. Costoro affermarono — come fu successivamente teorizzato in mille modi — che, dal momento che il proletario tende a scomparire nelle zone altamente industrializzate, sono gli emarginati che potranno portare a termine l’antico progetto proletario; oppure, saranno i contadini in rivolta nelle zone non ancora asfissiate dal capitale a rilanciare la dinamica rivoluzionaria.
Anche Bordiga ebbe a riconoscere, ampiamente, la disfatta del proletariato e lo sviluppo orgiastico del capitale dopo il 1945. Nell’articolo II marxismo dei cacagli, del 1952, egli poteva perciò scrivere: « Più volte abbiamo detto che il Manifesto è una apologia della borghesia. E abbiamo aggiunto che oggi, dopo la seconda guerra mondiale, e dopo il ringhiottimento della rivoluzione russa, ne va scritta una seconda apologia ». Lo sviluppo del capitale su scala mondiale, avrebbe fatto crescere il proletariato — pensava Bordiga — e la crisi che sarebbe derivata dal suo boom straordinario avrebbe rilanciato il proletariato delle vecchie metropoli, e in modo particolare il proletariato tedesco. Dal momento che questo paese veniva considerato come il centro della futura rivoluzione.
Diverse recessioni come pure i contraccolpi delle rivoluzioni anticoloniali neri arrivarono in alcun modo a rilanciare l’agitazione rivoluzionaria nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti. La passività del proletariato pareva anche divenire un’esperienza acquisita all’inizio degli anni ’60. La teoria e la pratica di gruppi quali l’Sds in Germania, di simili raggruppamenti negli Stati Uniti, degli Zengakuren in Giappone ecc. avevano l’obiettivo di risvegliare la forza rivoluzionaria del proletariato attraverso il ricorso ad azioni cosiddette esemplari. Essi avevano percepito — soprattutto alcuni elementi dell’Sds — l’importanza della disfatta e pensavano che il movimento operaio era stato riportato indietro di cento anni. Avevano in qualche modo intuito un nuovo cominciamento, l’inizio di una nuova epoca... E’ perciò che scomparvero nel corso della fase insurrezionale che culminò a Parigi e a Città del Messico nel 1968, o meglio, si dispersero successivamente. Si è criticato lo scioglimento dell’SDS nel 1970, mentre questo fatto non era che la prova conclusiva della validità di tutta la sua azione precedente. Con l’emergere della nuova fase rivoluzionaria, essi dovevano scomparire. Stessa sorte toccò al movimento maoista francese il quale, paradossalmente — se si eccettuano alcuni gruppi isolati —, espresse meglio di ogni altro il movimento spontaneo nato dalla crisi di maggio. La vita catastrofica delle organizzazioni maoiste è la prova migliore per suffragare le nostre ipotesi. Tali organizzazioni si limitano a « parcheggiare », sulle scosse rivoluzionarie di maggio e del dopo maggio, un’ideologia presa a prestito e mascherata dalla rivoluzione culturale cinese; ma il contenuto doveva ogni volta rivelarsi più forte del suo contenitore fino a farlo esplodere. La volontà di essere a contatto colla massa che si rivolta li indusse sempre più a cambiare terreno — via via che le lotte si dislocavano da uno strato sociale all’altro — e a gonfiarsi di rivendicazioni rispetto alle quali, all’inizio, si erano opposti o che avevano ignorato del tutto: lotta contro i sindacati riconosciuti come organizzazioni fondamentali della conservazione del giogo capitalistico, lotta per la liberazione della donna, per la liberazione sessuale e così via. In altri termini, di fronte ad esigenze totali la loro fraseologia politica finì per cadere e sbriciolarsi: dovettero riconoscere che la rivoluzione non è un semplice problema politico, ma il problema di un rovesciamento totale del modo di produrre, di vivere; che la presa del potere resta soltanto un momento della rivoluzione e ricondurre tutto a questo portava solo e semplicemente a misconoscere tutte le dimensioni della rivolta umana, tutte le dimensioni della rivoluzione.
Dopo la scossa di maggio preceduta dall’ampio movimento che si venne a sviluppare in due aree con momenti storici differenti — la Cina e l’Occidente — e che fu seguita da grandi lotte in Italia, dai primi scioperi selvaggi in Germania, gli scioperi di Kiruna, i moti polacchi della fine del 1970, la grande rivolta di Ceylon nel 1971, il proletariato resta sempre inquadrato dai gruppuscoli, rimasugli del vecchio movimento operaio — sia che essi raccolgano centinaia di migliaia di elementi, come il Pcf, o soltanto alcune centinaia, Essi non fanno che organizzare il passato, che deve perdurare come freno a tutto il movimento di lotta reale; ma questo non impedisce affatto ad alcuni di loro — Pcf o Ps in Francia, per esempio, — di modulare il proprio programma in funzione dell’onda rivoluzionaria che anch’essi sentono montare.
Allora, tutti quelli che hanno agito per scuotere il proletariato dal suo letargo e che in questi ultimi anni hanno portato avanti manifestazioni, hanno lottato ecc., sono dunque stati il trastullo di illusioni, hanno fatto una semplice baraonda per poi seppellire meglio la rivoluzione? Diciamo fin d’ora che essi hanno, di fatto, sepolto un passato, hanno liquidato le illusioni di un mondo ormai scomparso.
Il proletariato ha effettivamente subito una grave disfatta nel ’45 ma non si può certo superarla col proporre un’azione che, se era compatibile con i compiti del proletariato nel corso di un determinato periodo, non ha tuttavia alcun rapporto con la situazione attuale. La disfatta del 1945 ha significato, per il proletariato, l’impossibilità di sostituire o di rimpiazzare il capitale nell’area slava come nelle altre aree che si sollevarono dopo il 1945 e di impedire che esso realizzasse il suo dominio reale su scala sociale, prima in Occidente e poi sull’intero pianeta — nella stessa misura in cui è sempre la forma superiore a dare un ordine a tutte le altre. Come abbiamo detto, il capitale non è potuto arrivare a questo risultato se non realizzando il dominio dell’essere immediato del proletariato, il lavoro produttivo.
Questa constatazione comporta una rottura assoluta con tutta quella che fu la pratica e la teoria del movimento operaio prima del ’45; e dato che, dal 1923 al 1945, si è avuta una semplice ripetizione di ciò che si ebbe tra il 1917 e il 1923, possiamo anche modificare la nostra proposta dicendo che è necessario rompere con la pratica e la teoria del movimento operaio che arriva fino al 1923.
Una proposta del genere, tuttavia, non postula la necessità di costruire un nuovo movimento attraverso un montaggio ili pezzi sparsi a partire dagli esordi delle diverse correnti del vecchio movimento proletario. Non si tratta, in nessun modo, di redigere un nuovo manifesto, un nuovo programma e così via, o di ritornare a Marx, limitandosi a copiarne gli atteggiamenti con la pretesa di essere, con questo, « più rivoluzionari ». I ritorni a qualcosa si risolvono sovente in fughe di fronte a qualcosa, fughe dalla realtà contemporanea, in realtà, si tratta di riuscire a pensare la caducità di alcune parti dell’opera di Marx: che sono appunto caduche in quanto ormai realizzate.
Fondamentalmente, l’opera di Marx distingue tre grandi periodi della storia umana, con tutte le discontinuità che essi comportano: il passaggio dal feudalesimo al modo di produzione capitalistico, lo sviluppo di questo modo di produzione e il passaggio al comunismo. Quest’opera concerne anche altri momenti della storia della specie umana: le forme precapitalistiche; tuttavia, ciò che Marx ha descritto in maniera esaustiva è il periodo di sottomissione formale al capitale. Nel Manifesto, ne La guerra civile in Francia, nei 4 libri del Capitale, nella Critica al programma di Gotha, si trova il riformismo rivoluzionario di Marx che tiene conto delle possibilità che aveva la società del suo tempo. Questo non gli ha tuttavia impedito di descrivere anche il comunismo realizzato in tutta la sua pienezza (cfr. le note all’opera di James Mill, come pure alcune pagine dei Grundrisse) e di esporre gli elementi essenziali del passaggio al dominio reale del capitale, le caratteristiche fondamentali di questo periodo. Ma, in proposito, Marx non ha potuto fare opera di sintesi — non è infatti un caso se II Capitale non venne portato a termine; a maggiore ragione non ha descritto il passaggio rivoluzionario al comunismo, una volta che il modo di produzione capitalistico fosse pervenuto al suo dominio reale — e questo in modo dettagliato, come per il passaggio sulla base del dominio i formale.
Molti risponderanno che è falso, che Marx ha dato tutte le indicazioni necessarie, giacché in ogni caso, anche in periodo di dominio reale, ci saranno le classi e, perciò, ci saranno i partiti: ergo, la classe rivoluzionaria in particolare dovrà costituirsi in partito e via dicendo.
Non neghiamo che ci siano invarianti, e tuttavia:
1) è necessario situare il campo di invarianza; la qual cosa comporta una delimitazione spazio-temporale; in tal modo, l’invariante-classe non occupa un campo così vasto come quello dell’invariante-popolazione o produzione — invarianti che Marx definiva verständige Abstraktion nella sua introduzione del 1857;
2) lo sviluppo, il divenire, si compie a partire dal particolare e non a partire dal generale; è necessario quindi studiare le determinazioni nuove.
A una maggiore profondità — e proprio a causa di questo dominio reale ben definito — si impone il ripensamento della teoria di Marx in ciò che essa ha di essenziale e il ritrovamento di alcuni punti fondamentali che sono stati o-messi, obliterati, o trascurati per calcolo in quanto non compresi. Ciò non postula un’ermeneutica, ma piuttosto uno sforzo sempre rinnovato per arrivare a esprimere concretamente ed esplicitamente cosa intendiamo per comunismo come teoria per la quale l’opera di Marx resta l’elemento pertinente.
Questa teoria spiega il costituirsi dell’umanità in comunità comuniste il cui insieme dà forma al comunismo primitivo, la loro dissoluzione sotto l’azione del valore di scambio e della sua autonomizzazione, possibile soltanto ad un certo livello di sviluppo delle forze produttive. Movimento che distrugge le comunità e genera, simultaneamente, gli individui e le classi. E il trionfo, tuttavia, non era per niente fatale: anzi,
esso venne a più riprese ostacolato mentre le vecchie comunità riprendevano, anche se provvisoriamente, il sopravvento Tuttavia, nell’area occidentale, questo movimento trionfa col modo di produzione antico, ma viene riassorbito col modo di produzione feudale; sarà soltanto in margine alla società feudale che potrà riacquistare vitalità e dare i natali al modo di produzione capitalistico. Il quale non poté dominare il processo di produzione se non a partire dal momento in cui gli uomini vennero separati dai propri mezzi di produzione. E’ proprio questa separazione quella che Marx ha definito come il primo concetto del capitale. Il quale realizzerà allora, quello che non è stato capace di fare il denaro: costituirsi cioè in comunità materiale assumendo tutta la materialità degli uomini — antropomorfismo del capitale —, mentre gli uomini venivano reificati, capitalizzati. Ciò si realizza con la formazione del capitale fittizio che sfocia in in una comunità fittizia nella quale l’uomo viene messo totalmente in movimento dal meccanismo del capitale, essere sensibile-soprasensibile.
L’uomo viene allora svuotato di tutto: la sua creatività è stata pompata, aspirata; ma viene anche espulso dall’antico processo di produzione. Tende a divenire marginale, polluzione del capitale, il quale si è autonomizzato e supera i suoi limiti (una sorta di sovra-fusione del capitale), anche se non può fare a meno degli uomini (la polluzione necessaria). Sono essi il limite del capitale. Sarà l’oppressione sempre più impietosa, esercitata sia direttamente sia indirettamente in seguito alla distruzione della natura, a condurre i proletari della classe universale a rivoltarsi contro il capitale. Per fare questo essi non possono più mutuare forme dal passato, o dalle basi umane che sarebbero state conservate in questa società, dal momento che tutto è stato distrutto. Ma devono creare realmente il movimento della loro liberazione. Non possono più attingere agli antichi schemi; il partito potrà essere solo il partito Gemeinwesen il quale non potrà funzionare, nel momento in cui sorgerà, facendo appello al principio del centralismo o del suo contrario: il federalismo. E’ molto probabile che il sollevarsi della classe universale creerà, di colpo, gli organismi compatibili con la possibilità comunista della nostra società. Vale a dire, essi daranno forma a comunità le quali si muove-ranno già dentro una pratica totalmente differente da quella della nostra società. Non è possibile prevedere i dettagli di questo fenomeno, ma li si può già vedere come la sola possibilità di lotta contro la comunità del capitale: come tendenza all’unificazione di diverse attività prima separate, alla formazione di un’altra unita tra industria e agricoltura, di altri rapporti tra donna e uomo; e, d’altra parte, il momento stesso dell’esplosione rivoluzionaria sarà determinante per la produzione di una forma più o meno elaborata.
Nelle altre zone che non siano quella occidentale, il movimento del valore di scambio dovette attraversare, per affermarsi, difficoltà sempre maggiori. Marx non pensava affatto che il modo di produzione capitalistico dovesse obbligatoriamente affermarsi in Russia, al contrario, riteneva che l'Obchtchina, proprio per le sue particolarità, avrebbe potuto rappresentare il supporto per un trapianto del comunismo in seguito a una rivoluzione vittoriosa in Occidente. In ogni caso, non pensava che il modo di produzione capitalistico potesse trionfare facilmente nell’area slava, tanto era potente, secondo lui, la vitalità dell’Obchtchina. Le riforme di Stolypin e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico nell’industria indussero in errore Lenin e i bolscevichi. Essi sottovalutarono la vitalità e la capacità di resistenza dell’Obchtchina, che, statisticamente, era stata probabilmente ridotta ma che non era stata eliminata come comportamento di una popolazione adattatasi a un determinato ambiente. Ciò doveva condurre a un errato comportamento nei confronti dei contadini col voler forzare lo sviluppo del modo di produzione capitalistico: vedere in proposito, da una parte, la questione dell’insurrezione in Ucraina e Makno, dall’altra la polemica a più voci riguardante i bolscevichi che avrebbero preteso di forzare lo sviluppo storico.
Il dispotismo zarista è stato oggi rimpiazzato dal dispotismo del capitale e ciò ha potuto realizzarsi solo a prezzo di una spaventosa repressione sempre rinnovata, quasi che la tendenza al comunismo fosse irriducibile.
In Asia il movimento del valore di scambio tese ad autonomizzarsi a diverse riprese, classi e individui tesero a formarsi; ma infine è solo attraverso l’intervento esterno dei paesi capitalistici che il capitale è in grado di svilupparsi. Cionondimeno, esso domina solo formalmente la società e noi viviamo un periodo particolarmente cruciale del suo passaggio al dominio reale, grazie all’aiuto dato dalla comunità capitalistica mondiale rappresentata dal capitale statunitense. L’Asia non può trovare un certo equilibrio se le antiche comunità basali e centrali non vengono rimpiazzate dalla comunità del capitale, dato che per il momento — e vista la debolezza del movimento rivoluzionario mondiale — dobbiamo disgraziatamente escludere un divenire immediato al comunismo. In definitiva, tutta la storia dell’umanità coincide con la storia della perdita della sua comunità più o meno ristretta, più o meno immersa nella natura (di qui la famosa idolatria della natura), sotto l’azione del valore di scambio; con la storia della lotta contro il valore il quale, prima sotto forma di denaro (equivalente generale, moneta universale), e poi di capitale, si costituisce come comunità oppressiva e impone all’uomo la necessità di distruggerla per fondare il vero Gemeinwesen umano: l’essere umano come polo universale e l’uomo sociale come polo individuale, e la loro armoniosa compenetrazione.
Questo è il comunismo — teoria del proletariato nel senso classico e anche nel senso della classe universale, la quale è già negazione in termini della classe e della sua invarianza. (Il capitale cerca, è vero, di ridurre in termini organizzativi la classe universale: è questo il suo modo di negare le classi; e tuttavia, a partire dal momento in cui la classe è stata ionizzata essa può spostarsi verso il polo comunista della società).
A partire di qui, saremo in grado di situare sempre meglio quanto vi è di caduco nell’opera del Marx e, contemporaneamente, di cogliere tutti quegli elementi che permettono di comprendere a fondo, oggi, il dominio reale del capitale, il quale, infine, nel suo compiuto dominio reale, genera delinquenza e demenza.
Lavorare a produrre questa sintesi è importante, e tuttavia ciò si ridurrebbe a un’attività parcellare se non si tentasse, contemporaneamente, di vedere come questa sintesi sia già in atto nelle manifestazioni varie di diversi elementi, per quanto essi agiscano talvolta ancora entro l’involucro gruppuscolare.
Maggio fu l’emergere della rivoluzione. Dopo, in seno alla classe universale che è ancora la classe del capitale, vale a dire degli schiavi del capitale, ha avuto inizio una lotta che condurrà al totale rivoluzionamento di questa classe e al suo costituirsi in partito-comunità, primo momento della sua negazione. Ora, questo movimento contraddittorio è fondamentalmente un processo di eliminazione del passato; questa classe non può rappresentarsi a se stessa senza avere prima eliminato le determinazioni e le rappresentazioni antiche. Ciò si realizza evidentemente spesso in modo farsesco giacché il passato non viene rigettato se non nel corso di una resurrezione parodistica: della sinistra tedesca, per esempio, o della sinistra russa.
E’ sulle distinzioni sociali immediate, create dal capitale, che si è venuta ad appoggiare la coscienza che si sono dati i movimenti rivoluzionari negli Stati Uniti (Black Panthers, Yppies), in Germania e in Francia nel maggio ’68. L’opposizione tra classe operaia e classi medie, fondata essenzialmente sulla distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, produzione e circolazione, produzione e consumo, era stata assunta da Marx a fondamento della sua visione della rivoluzione socialista e della dittatura del proletariato. La prospettiva posta tanto allo sviluppo del capitale quanto alla dittatura del proletariato, restava la generalizzazione della condizione del lavoro produttivo. Questa prospettiva è adesso realizzata e il potenziale rivoluzionario del 1848 si è definitivamente isterilito. Produrre per il capitale è diventato il fatto che coinvolge l’intera popolazione. E tuttavia ad ogni situazione particolare nel processo del capitale corrisponde una visione di classe che contrappone colletti blu e colletti bianchi, operai e piccolo-borghesi, così come tra loro si contrappongono le bande del capitale.
Gli uomini del Pcf e del Pei sono senz’altro i più accaniti nel mantenere dentro un ghetto in seno alla società il proletariato classico; lo considerano come loro proprietà privata; ne difendono quindi con accanimento le « caratteristiche » e le « virtù »; lo hanno ridotto a un racket da tutelare gelosamente. Non rimane che constatare quanto siano capaci di abbaiare allorché racket rivali tentano di fare man bassa sul loro terreno.
In Francia e in Germania, il movimento si era considerato specifico delle classi medie, semplice detonatore di un movimento che non poteva essere che quello proprio della classe operaia. E mai si è considerato un movimento della classe universale. Non è stato capace di riconoscere l’identità delle situazioni singole dentro il capitale e di fronte ad esso. Nondimeno, questo movimento del 1968 restava il testimone della fine delle classi medie quali Marx le aveva considerate, e dell’inizio della lotta umana contro il capitale.
La classe operaia, categoria del capitale, non farà che disertare sempre più i vecchi partiti senza per questo costituirsi in nuove organizzazioni, ma vivendo la sua metamorfosi che la renderà idonea a confluire nelle altre componenti della classe universale.
Soltanto i nostalgici del passato possono gridare che il movimento del maggio ’68 è stato uno scacco; si tratta di gente incapace di pensare un processo rivoluzionario che richiede parecchi anni per realizzarsi. Dopo maggio abbiamo il movimento di produzione dei rivoluzionari. Questi cominciano a comprendere le esigenze esistenziali della rivoluzione: è necessario che la rappresentazione del capitale, il quale parassita il cervello di ognuno di noi, venga annientata. Ma questo non può verificarsi grazie all’intervento di gruppi coscienti che inculcano una nuova rappresentazione nei nostri cervelli intossicati, né realizzarsi tutt’a un tratto il giorno «X» fissato dal fato; esploderà in seguito alla lunga lotta che investe, fin d’ora, tutti i campi della vita quale ci viene imposta dal capitale. Lotta reale, operante, che non perde tempo a disquisire sottilmente, in un delirio marxistico-psicoanalitico-strutturalista, per sapere se essa è troppo teorica e non sufficientemente pratica oppure il contrario, se le condizioni oggettive sono sempre mature e quelle soggettive non lo sono, se l’organizzazione è necessaria e qual è la sua struttura più adeguata o la sua istanza più pertinente e così via. Questo delirio è il sogno del capitale: una rivoluzione eternamente in permanenza perché mai generata, sempre appesa a qualche misericordioso « filo »: la mancanza di una certa condizione oggettiva, il «non-detto» di una certa teoria.
E’ vano attendere ancora la rivoluzione: essa è già in atto. Non la vedono soltanto coloro che, per riconoscerla, sono da sempre in attesa di un segno particolare, di una « crisi » che scatenerebbe un ampio movimento insurrezionale, che produrrebbe un altro segno essenziale: la formazione del partito, ecc. In realtà, la rottura d’equilibrio si è già prodotta prima del ’68 e maggio non fu altro che la sua esteriorizzazione; da allora a tutti i livelli del processo totale di vita del capitale, ci sono esplosioni mancate che se ancora non sono state trasformate in crisi nel senso tradizionale, permettono tuttavia ai proletari di iniziare a distruggere il loro addomesticamento. La perdita sempre più spinta della nostra sottomissione reale al capitale, ci permetterà di affrontare il vero problema della rivoluzione: non quello di cambiare la vita, dal momento che ogni vita è da millenni asservita, addomesticata e deviata dall’esistenza delle classi, ma quello di creare la stessa vita umana.
- Jacques CAMATTE - Aprile del 1972 -
Pubblicato da simonetti walter mercoledì, marzo 05, 2014
Etichette: comunismo, Invariance, Jacques Camatte, Karl marx
fonte: SimonettiWalter