Oggi, in qualsiasi ambito sociale ci si trovi a interagire con gli altri, essere valutati in base a criteri ritenuti oggettivi appare non solo naturale ma persino desiderabile. Anzi, ricondurre l'individuo a un'entità misurabile che dia precisamente conto della propria efficienza e competenza è diventato l'imperativo che governa le nostre prestazioni e relazioni. Questa rincorsa al «merito» instaura peraltro un clima di estrema competitività tanto a livello sociale quanto a livello individuale. Oltretutto, smentendo clamorosamente i suoi fautori, questa ossessione valutativa sta creando, in nome dell'efficienza, una forma inedita di inefficacia, proprio perché comprime le differenze normalizzando i profili individuali. Come appunto dimostra questa articolata critica della meritocrazia – portata avanti in vari ambiti sociali ma soprattutto nell'ambito del lavoro e dell'educazione – che contrappone al riduzionismo di un sistema iper-valutativo la complessità della vita e delle relazioni umane.
(dal risvolto di copertina di: Angélique del Rey: La tirannia della valutazione, Elèuthera, pp. 190, euro 15.)
Valutati in nome della «Tirannia dei valori»
- di Girolamo De Michele -
Angélique del Rey è nota in Italia come coautrice di due libri, Elogio del conflitto e Oltre le passioni tristi, in collaborazione con Miguel Benasayag, con il quale ha contribuito alla creazione del collettivo «Malgré Tout». Con la traduzione di La tirannia dei valori (Elèuthera, pp. 190, euro 15), che segue il precedente À l’école des compétences (2010), il lettore italiano ha ora modo di verificare come la militanza filosofica si concateni senza soluzione di continuità con la militanza educativa di un’insegnante impegnata da anni contro la trasformazione dei processi di apprendimento in un’astratta macchina valutativa.
À l’école des compétences mostrava come la scuola al tempo delle competenze sia asservita a tre postulati di base: l’educazione è un fatto individuale; scegliere di ricevere un’educazione equivale a cogliere l’opportunità di investimento su di sé (l’«imprenditore di se stesso»); essere educati significa valorizzare un capitale da sfruttare per un profitto individuale.
In definitiva, «la narrazione delle competenze racconta un mondo nel quale ogni individui sarebbe in competizione con i suoi simili per i posti e salari, e nel quale bisognerà sviluppare un saper-agire flessibile per essere più performanti».
Un mondo, glosserebbe Lenin, nel quale ogni individuo è un piccolo Shylock che conteggia ogni singola unità valutabile di tempo, valore e competenza.
Nella «tirannia dei valori» del Rey allarga l’orizzonte del discorso, per fornire un quadro complessivo che, dal mondo dell’educazione a quello del pubblico impiego, dalla ricerca alla sanità, unifica i processi di assoggettamento e servitù volontaria – tenendo insieme Foucault e Benasayag, cui si aggiungono Deleuze e Guattari, con la coppia territorializzazione deterritorializzazione, attraverso cui possono essere lette le diverse pratiche che, valutando sono quegli aspetti che sono suscettibili di valutazione quantitativa, creano con la valutazione quell’oggetto che si presupporrebbe preesistere alla valutazione, e che invece ne è il prodotto. Questo oggetto è strappato al suo territorio, al suo complesso viluppo di tratti determinati dal contesto, dalle mutazioni, dall’imprevedibilità, ma anche dagli insondabili elementi di singolarità.
Ma cosa ne è del soggetto sottoposto a valutazione – l’impiegato, l’insegnante o studente, il lavoratore? Egli diviene un soggetto normale, sul quale il processo di valutazione agisce come un discorso di verità che viene interiorizzato: il soggetto è spinto ad accettare come prerequisito quell’esito della valutazione che, come in una cattiva petizione di principio, retroagisce da effetto a causa. Per effetto di questo potere disciplinare, il soggetto viene costituito come individuo, unidimensionale, trasparente alle sue valutazioni. Si afferma il paradigma del New Public Management, per il quale «la qualità è solo un aspetto derivato della quantità»: ogni valore è fissato dalle leggi di mercato, e la soglia di efficacia di un’azione è determinata «dal cosiddetto benchmarking, che consiste nel costruire standard sempre più astratti come modelli di valutazione. Come, nel caso della scuola, le “competenze europee”».
Del Rey utilizza una vasta bibliografia francese (che andrebbe tradotta), che non troviamo nei documenti del Miur – ma che te lo dico a fare? –, frutto di una protesta contro queste pratiche che in Francia ha una lunga tradizione – basti pensare che il motto «evaluer c’est tuer» deriva dalla scuola lacaniana. E ha buon gioco nel mostrare che anche sul piano dell’efficienza l’applicazione acritica della statistica alle scienze sociali e alla vita vissuta comincia a produrre effetti contrari alle intenzioni dei guru della Qualità Totale.
Può darsi che "La tirannia della valutazione" sia debole sul piano propositivo: il che rinvia a un’opera di cui dovrebbe farsi carico l’intero mondo della scuola, e non una singola studiosa. Ma resta l’imprescindibile merito di far comprendere ai soggetti della «valutazione delle competenze» il funzionamento della macchina di disciplinamento cui sono sottomessi: perché un lavoratore, un impiegato, un insegnante che non ne siano consapevoli è parte del problema, e non della soluzione.
- Girolamo De Michele - Pubblicato sul Manifesto del 23/6/2018 -
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