Ciò che consumiamo è diventato per molti aspetti l'elemento più importante della vita moderna. Le nostre economie vivono o muoiono in virtù di quanto spendiamo e spesso tendiamo a definire noi stessi in base a ciò che possediamo. Questo stile di vita sempre più opulento ha comportato un enorme impatto sul pianeta. Come siamo giunti a vivere circondati da tutti questi beni? e in che modo tutto ciò ha modellato il corso della storia?
Questo libro racconta l'appassionante storia del nostro moderno mondo materiale. Se il consumismo è spesso descritto come una recente e peculiare invenzione americana, questa analisi ampia e dettagliata dimostra come si sia invece trattato di un fenomeno internazionale, con una storia molto più lunga e complessa. Frank Trentmann descrive l'influenza del commercio sui gusti, in che modo beni esotici quali il caffè, il tabacco, il cotone e le porcellane cinesi conquistarono il mondo, ed esplora i fenomeni legati alla crescente domanda di oggetti per la casa, vestiti alla moda e le numerose altre comodità che hanno trasformato la nostra vita pubblica e privata.
Nell'Ottocento e nel Novecento sono comparsi i grandi magazzini, le carte di credito e la pubblicità, ma anche il consumo consapevole e nuove identità generazionali. Osservando il presente e il futuro, Trentmann prende infine in considerazione le sfide globali imposte dall'inarrestabile e ubiquo accumulo di cose - compresi sprechi, debiti, stress e ineguaglianze.
(dal risvolto di copertina di: Frank Trentmann: L’impero delle cose. Come siamo diventati consumatori. Dal XV al XXI secolo, Einaudi, pp. 939, € 40,00.)
Triste la vita senza quei preziosi bibelots
- di Viola Papetti -
Perché non possiamo non dirci consumatori? Se il cristianesimo fu una rivoluzione, il consumismo è una lenta continua penetrazione, anzi una compenetrazione nell’umano da quando una donna intraprendente addentò per la prima volta una mela – un dono che nascondeva un baratto. E di che portata.
La storia del consumismo, che può prevedersi infinita, è ben raccontata da Frank Trentmann – docente di storia al Birkbeck College di Londra e autore di Free Trade Nation, vincitore del Whitefield Prize della Royal Historical Society – nel ponderoso L’impero delle cose. Come siamo diventati consumatori. Dal XV al XXI secolo, ben tradotto da Luigi Giacone (Einaudi, pp. 939, € 40,00). Da storico qual è Trentmann comincia dai preziosi documenti cinquecenteschi che testimoniavano il gusto dei ricchi dell’Italia rinascimentale: «furono i primi a trasferire il valore simbolico del potere dalle persone alle cose». Uno Strozzi, banchiere a Firenze, nel 1475 ordinò quattrocento bicchieri in vetro di Murano; un veneziano Domenico Cappello lasciò in eredità trentotto coltelli da tavola con manici d’argento, dodici cucchiai e forchette decorate in oro e altre quarantadue non meno preziose – quando ancora la corte inglese mangiava con le mani. Nei recenti scavi sotto il Rose Theatre è emersa tra i rifiuti una mezza forchetta di ferro, lasciata forse da un fiorentino o un veneziano a Londra per affari.
Il Settecento è il secolo in cui in Inghilterra fioriscono la pratica e la teoria del liberismo economico (Mandeville, Smith, Hume) sotto la pressione del mondo delle merci in espansione per le conquiste coloniali, l’apertura di nuovi mercati, e il desiderio di quanto esotico e gustoso poteva essere sperimentato dagli illuminati gentiluomini divenuti «cittadini del mondo».
Tra avorio e cioccolata
Nel 1712 Alexander Pope, un poeta gran consumatore di caffè, esaltava, nel Riccio rapito, la sua mondana eroina che amava la bollente cioccolata e possedeva pettini di avorio, tartaruga, profumi d’Arabia, ventaglio di seta e tabacchiera. «O metafisico tabacco, andato a comprar fin nel Marocco,/ il penetrante tuo fumo/ libera il muco,/ O metafisico tabacco» – cantava già un madrigale del 1606. Bernard de Mandeville aveva lanciato il famoso aforisma «Vizi privati, pubbliche virtù» con cui scusava i mali del libero mercato, ma non perdonava – La favola delle api – alle figlie di Eva l’amore per il lusso, rovina dei loro uomini, fossero criminali o politici. David Hume aveva concluso, nel Trattato sulla natura umana, che «industria, conoscenza e umanità, sono collegate tra loro da una catena indissolubile, e sappiamo, per esperienza e ragione, che sono un tratto peculiare delle epoche più raffinate e più lussuose». Adam Smith trovò la felice (e ingannevole) metafora della «mano invisibile», una specie di provvidenza che avrebbe regolato costantemente l’equilibrio economico generale (La ricchezza delle nazioni).
Nella Cina dell’epoca Ming, nella Repubblica olandese delle Province Unite, in Inghilterra e in tutta Europa l’imperio degli oggetti ci aveva rapito l’anima, come fu detto da molti moralisti, e malgrado le resistenze, le pause e le temporanee sconfitte quella marcia trionfale diventò sistematica dall’Ottocento in poi.
Le «biografie merceologiche», le storie delle varie merci, la loro diffusione e le abitudini sociali che crearono – come le coffee-house e le chocolate-house, la porcellana Wedgwood in Inghilterra – offrono storie interessanti ma vanno integrate con le vicende politiche e culturali di popoli diversi in tempi diversi. Trentmann orchestra sapientemente i particolari significativi dei vari mutamenti su scala mondiale e secondo una ampia prospettiva geografica: «La porcellana invetriata qing-hua, decorata in bianco e blu, doveva affrontare la concorrenza della ceramica “nero egizio” prodotta in Inghilterra. La moda, tuttavia, era una padrona volubile: nel 1700 la porcellana era monopolio cinese ; nel 1800, il vasellame da tavola era saldamente in mani europee». C’era poi la vita sociale delle merci. Nell’Ottocento la casa vittoriana rigurgitava di oggetti: era lì che si ostentava la ricchezza, – il «consumo ostentativo» di Veblen – o si rivelava la sua malcelata assenza. Era nella perversa predilezione per oggetti di valore belli e costosi, o per la paccottiglia delle imitazioni a buon mercato, che il collezionista trovava conforto alle passioni abortite, deviate da mutazioni storiche drastiche e difficili da scalare. Le donne potevano facilmente giocare alla padrona di casa, divenire l’ingenuo e solerte «angelo del focolare»; ma a scoprire il vero complicato gioco che si stava giocando, le strategie, i protagonisti fu Henry James.
In Ritratto di signora due uomini, Osmond e Rosier, sono collezionisti di preziose porcellane, e valutano le future mogli anche loro come bibelots, pezzi rari di scambio per soddisfare la passione mai sazia per la bellezza senza imperfezioni di quegli oggetti luminosi e incorruttibili, gelido tesoro protetto nella loro casa. «L’io di un uomo è la somma totale di tutto ciò che può chiamare suo» scriveva il fratello psicologo William James e «suscita i più teneri sentimenti di affetto». La perdita di beni è «una parziale metamorfosi di noi stessi nel nulla».
L’avanzata globale delle merci e il destino combattuto delle sterminate schiere di consumatori, le loro strategie difensive (spesso inefficaci), la trasformazione delle case in piccole centrali elettriche, delle città moderne, il senso di identità e di gender continuamente ridiscusso dalla proteiforme cultura dei consumi – a cui non sono state insensibili le ideologie moderne (fascismo, comunismo, anticolonialismo e liberismo) e le grandi religioni – hanno prodotto una grandiosa narrazione, accessibile al suo consumatore ideale, il paziente lettore. Ma resta senza risposta l’ansioso interrogativo finale: siamo diventati «una società usa e getta?»
L’opulenza ingrata
L’influenza massiccia degli Stati Uniti nell’ultimo secolo e la convinzione che i consumi fossero la prova della superiorità della democrazia liberista sono attualmente in declino e l’adattabilità di cui consumi e consumatori hanno dato finora prova richiederebbe un consenso globale sulla «crescita zero» proposta da Galbraith in La società opulenta, e già auspicata da Seneca nel I secolo d. C. Ma ne saranno capaci i futuri cittadini del mondo? Cittadini, e non solo clienti è l’augurio di Trentmann; ma i sostenitori del «vivere lento» non hanno fatto finora molta strada.
«I nostri stili di vita e le loro conseguenze sociali e ambientali dovrebbero essere oggetto di un serio dibattito pubblico e di una linea politica altrettanto seria, anziché essere relegati a una semplice questione di gusti individuali e potere d’acquisto». Ci vorrebbe un nuovo culto, una rigenerante devozione verso Nostra Madre Terra.
- Viola Papetti - Pubblicato su Alias Domenica 11.2.2018 -
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