sabato 4 agosto 2018

Demoni

BRIK-Con-Majakovskij-PIATTO-1

«Dopo la morte di Volodja, per tutto il tempo in cui abitammo in vicolo Gendrikov, l’ho sempre sentito tornare a casa, aprire la porta con la chiave e con rumore appendere il bastone nell’anticamera; l’ho sempre visto entrare, togliersi subito la giacca, accarezzare Bùl’ka, andare in bagno senza asciugamani e poi nella sua camera protendendo le grandi mani gocciolanti. La mattina continuava a sedersi con me, di fianco al tavolo, sorseggiava il tè e leggeva i giornali. E ancora oggi lo vedo nelle strade di Mosca e di Leningrado e spesso chiamo Volodja i miei amici più cari…».

A cento anni dalla rivoluzione d’Ottobre Bordeaux ripropone una straordinaria testimonianza di quella stagione politica e culturale della Mosca di inizio Novecento. Lili Brik (1891-1978), in una lunga intervista rilasciata a Carlo Benedetti (1940-2011), racconta la propria vita accanto a Majakovskij, ripercorrendo gli anni della loro amicizia, il rapporto con Osip Brik (suo primo marito e amico del poeta), le gioie e le delusioni che hanno segnato la loro esistenza privata e politica, regalandoci un affresco del vivacissimo mondo dell’intellighenzia sovietica di quegli anni, nel quale compaiono con le tinte del ricordo e dell’aneddoto personaggi come Pasternak, Ejzenštejn, Jakobson, Rodčenko e tanti altri.

(dal risvolto di copertina: "Con Majakovskij", di: Carlo Benedetti/ Lili Brik Prefazione di: Negarville Lucetta. Bordeaux edizioni)


Con Majakovskij, l’estasi della rivoluzione
- di Mario Baudino -

Nel 1915, alla vigilia della Rivoluzione, Vladimir Majakovskij «era un elegantone. Con tanto di finanziera e cilindro. Quelle cose, però, le aveva comprate in un negozio di confezioni a buon mercato». Il ritratto è di Lili Brik, la musa, il grande anche se non certo esclusivo amore della sua vita, la «marianna» dell’Ottobre rosso che dette il volto per i celebri manifesti di Rodchenko. Ne parla in un libro-intervista con Carlo Benedetti, a lungo corrispondente da Mosca per l’Unità, pubblicato nel 1978 e ora riproposto con prefazione di Lucetta Negarville dall'editore Bordeaux. Un libro che ebbe una genesi travagliata e per certi aspetti misteriosa, in una Unione Sovietica cupa e occhiuta. Ci consegna un ritratto splendente non solo del grande poeta ma della bohème letteraria fra Mosca e San Pietroburgo, prima delle purghe staliniane, quando sembrò a portata di mano un'esistenza libera, provocatoria e futurista: un'estasi della rivoluzione.

Il «compagno autista»
Tutto sembrava possibile, anche le mattane in strada, delle quali Majakovskij si scusava poi con «compagno autista» (personale), oppure viaggiare e magari andare in America per vedere se c'era il modo di fare un po' di soldi. Fra i due, quando si conobbero, non scoccò il classico colpo di fulmine, perché il poeta corteggiò la sorella di Lili, Elsa, destinato poi a sposare un diplomatico francese e successivamente il poeta Luis Aragon; ma dopo il matrimonio di Lili con Osip Brik il poeta si stabilì da loro, dando inizio ad un lungo menage-á-trois. Nel libro, la Brik precisa che in quel momento i rapporti col marito erano già del tutto platonici; ma al di là dei pettegolezzi (Majakovskij, morendo suicida nel '30, quando era pazzamente innamorato di un'altra donna, avrebbe lasciato un ultimo messaggio in cui ribadiva di non gradirli), questa è la storia di un grande amore, molto novecentesco, e di una folle ubriacatura di poesia: la storia di un gruppo di scrittori e studiosi per i quali la poesia era tutto.
    Nella casa dei Brik, a San Pietroburgo, passava l'avanguardia artistica e letteraria, dal poeta Viktor Chlebnikov a studiosi come Viktor Ŝklovskij e Roman Jakobson, i grandi teorici di quello che poi si chiamò il «formalismo russo». Majakovskij parlava in versi, più che discorrere. Declamava la Achmatova, nei cui confronti nutriva un'ammirazione sconfinata. Erano serate in cui ci si ubriacava di poesia, come quella in cui la «stanzetta» di San Pietroburgo era «invasa dal pianoforte a coda, la cui ala ombreggiava Pasternak, rendendolo un demone», intanto che «la notte bianchiccia penetrava nella stanza» e il cubofuturista Chlebnikov, tutto stracciato, conciato come un mendicante, mormorava sempre più in fretta mentre i suoi «occhi azzurri si vennero scolorendo per poi spegnersi del tutto».
    Ed erano giornate frenetiche, quando i due, che si erano scambiato in pegno d'amore due anelli d'oro (Majakovskij, secondo Lili, smarrì molto spesso il suo), lavorarono a Mosca per l'agenzia Rosta, producendo un'immensa quantità di vignette e manifesti rivoluzionari. Una volta il poeta ricevette una telefonata in ufficio e alla domanda «Pronto, chi c'è da voi?» rispose sgarbatamente «Nessuno». Dall'altro capo del filo, scoprì alla fine, c'era Lenin.

Il suicidio annunciato
Non parlerò del poeta né del rivoluzionario, perché sono le cose che si sanno, premette la Brik, ma «di cose che conosco soltanto io». Quanto al suicidio pare addirittura reticente, e del resto avvenne mentre lei e il marito erano all'estero. Si limita a dire che «Volodja [così lo chiama familiarmente] non faceva che parlare di suicidio», ne era ossessionato. Sappiamo che quella morte ebbe anche un senso politico, come ha riconosciuto Serena Vitale in "Il defunto odiava i pettegolezzi" (Adelphi), ma forse c'è una ragione per l'insistenza sull'aspetto solo esistenziale: e ha a che fare col clima politico e culturale in cui è nato questo libro.
    Lo racconta Marcello Venturi in "Via Gorkij 8 interno 106", pubblicato nel 1966 e riproposto l'anno scorso da Lindau. Dedicato all'italianista russa Julia Dobrovolskaja, ricostruisce tra l'altro proprio la genesi di questo testamento spirituale, che é anche un ultimo grido d'amore, non solo per Majakovskij: la Brik, ormai anziana, era sorvegliata dalla censura, forse perché il ricordo del poeta, al di fuori dell'iconografia ufficiale, non era particolarmente gradito. Voleva scrivere le memorie, ma temeva che non sarebbe stato possibile pubblicarle. L'italianista, che desiderava a sua volta poterle tradurre, trovò il modo per uscire dall'impasse: chiesero a Carlo Benedetti, giornalista di un partito «fratello», di trasformarle in un'intervista. Non fu comunque facile: Marcello Venturi racconta che il giornalista a un certo punto sparì, lasciando il lavoro a metà, e si dovette faticare un poco per convincerlo e riprendere il ruolo di «copertura», ma alla fine il libro uscì in Italia per gli Editori Riuniti, la casa editrice del Pci: era l'agosto '78. Il 4 di quel mese Lili Brik, malata, aveva scelto di farla finita. Replicando il gesto antico del suo poeta.

- Mario Baudino - Pubblicato sulla Stampa del 20/11/2017 -

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