Il concetto di barbarie è di difficile definizione: esso infatti è mutevole perché cambia in base a chi osserva un modo di vita e lo qualifica come differente e inferiore. Differenze climatiche, geografiche e comportamentali hanno concorso nel mondo antico alla costruzione di barriere, di scissioni che frequentemente avevano una base etnica e talvolta razzista. Sono tuttavia numerose le sfumature con cui i greci prima e poi i romani si relazionarono con questi popoli posti al di fuori del mondo considerato civile: al disprezzo spesso si alterna l'ammirazione, per il vigore fisico e il coraggio, la supposta assenza di vizi e l'attitudine alla libertà. Si trattava di realtà che dunque percepivano con forza una reciproca alterità ma che non furono mai davvero impermeabili in nessun momento della loro storia, e particolarmente in quei secoli complessi e affascinanti che costituiscono la tarda antichità e l'alto medioevo. Bruno Dumézil, insieme a Sylvie Joye, Charlotte Lerouge-Cohen e Liza Mér, percorre l'avvincente storia dei rapporti tra la civiltà greco-romana e "i barbari", proseguendo con la caduta dell'Impero Romano e l'alto medioevo, per arrivare poi alle interpretazioni moderne e contemporanee in pagine che ricordano ipotesi e spunti dei grandi storici e presentano le più recenti prospettive della storiografia.
(dal risvolto di copertina di: Bruno Dumézil (a cura di): I barbari, Leg, pagg. 106, euro 14.)
Muscoli, sudore e coraggio. La civiltà sogna la barbarie.
- di Matteo Sacchi -
Si fa presto a dire barbaro. Del resto la parola, onomatopeica, ha appena tre sillabine, ed è frutto della fantasia degli antichi greci.
Secondo loro gli stranieri quando parlavano emettevano una sorta di incomprensibile «Bar-bar», che era il modo in cui dalle parti di Atene si scriveva quello che per noi è «Bau-bau», l'abbaiare dei cani.
Però l'idea di barbaro nel corso del tempo ha spesso cambiato significato. Il barbaro, a seconda della moda che tira, può essere: cattivo (per l'ateniese medio e per Tucidide), virtuoso (per Tacito), ignorante (per Plinio), spontaneo (per Rousseau), sexy e muscoloso (per Robert E. Howard), repellente e reumatico (per Terry Pratchett), morigerato (per Montesquieu), il padre di tutti i vizi (per Eschilo), uno specchio in cui guardarsi e ritrovarsi (per i tedeschi del XIX secolo ansiosi di crearsi una mitologia nazionale)...
Tutti questi cambiamenti culturali sono raccontati in un libro curato dal medievista francese Bruno Dumézil pubblicato dalle edizioni Leg e che si intitola proprio I barbari (pagg. 106, euro 14). Non è una storia dei barbari, anche perché per qualunque popolo i barbari sono sempre gli altri, ma una storia dell'idea di «barbari». Il volume contiene un sacco di chicche, si parte dalla Grecia classica e si segue l'evoluzione della parola e dell'idea attraverso i secoli e i contributi intellettuali dei più diversi autori: da Dionigi di Alicarnasso sino agli scrittori arabi che presero in prestito la parola (la usarono per i Berberi africani).
Ma forse la parte più interessante è quella finale dell'agile volumetto, a firma di Sylvie Joly, che prende in esame la modernità. Un'epoca in cui la barbarie è stata reinventata. Spesso in senso assai positivo. Certo, con gli umanisti sembrava che si fosse iniziato nel peggiore dei modi. Innamorati della romanità, vedevano il barbaro come il primo colpevole del Medioevo. Così, ad esempio, l'umanista Flavio Biondo (1390-1436), che inventò in maniera dispregiativa il termine «gotico», ovvero una architettura e una scrittura che erano roba da Goti. Poi però il clima cominciò a cambiare rapidamente, grazie al risveglio delle varie nazionalità. I romani divennero gli oppressori e i vari ribelli alla romanità dei barbari eroici precursori dell'orgoglio Britannico, Francese, Tedesco. Dai galli ai franchi, passando per i germani e i celti della regina Budicca, tutte le nazioni si trovarono il proprio eroe barbarico. Ne nacque anche un'archeologia nazionale a cui molto deve l'idea moderna di museo. Nacquero così ad esempio il Römisch-Germanisches Zentralmuseum o il museo nazionale di Copenaghen. Insomma, il museo etnografico va considerato «roba da barbari». Ma il meglio è arrivato con la cultura di massa. Comodi e felici sul nostro divano, ma un po' annoiati, abbiamo iniziato a considerare il mondo mitico dei barbari come una specie di età dell'oro. Ecco allora spuntare Conan il Barbaro, concepito nel 1932 dallo scrittore Robert E. Howard e diventato in seguito anche un classico del cinema. E poi sono arrivati anche i barbari moderni, i barbari di ritorno. Il giornalista Hunter S. Thompson nel suo libro sugli Hell's Angels li descrive come «un'orda di vandali saldati ai loro bestioni, come dei Gengis Khan su un cavallo d'acciaio». Del resto le stesse bande di motociclisti sceglievano nomi evocativi delle antiche orde, come Pagan's, Mongols, Vikings.
Ma il fenomeno è diventato ancora più evidente negli ultimi anni. Anche a partire dalle serie televisive. History channel ha lanciato una serie chiamata Barbarian Rising, dove i Romani sono ridotti solo e soltanto ad imperialisti cattivi. La nuova serie Britannia, in tempi di Brexit sembra non parlare solo al passato... Un nuovo nazionalismo che fa leva sul mondo antico (a torto o a ragione non sta a noi dirlo)? Potreste dire che è solo cultura pop che gioca con l'antichità. Ma se date un'occhiata a Le Figaro Litteraire di settimana scorsa c'è un gigantesco articolo che rivaluta Vercingetorige, un eroe che si batte contro la mondializzazione romana, il tutto a partire da una biografia del capo gallico appena editata da Gallimard (Vercingétorix di Jean-Louis Brunaux). E qui si passa al ribaltamento: che che ne dicesse Giulio Cesare i galli, secondo l'autore, erano molto grecizzati (anzi in osmosi col mondo greco) e colti, anche se profondamente autonomi. Insomma alla fine i barbari sarebbero quasi i legionari venuti da Sud che poi, da vincitori, avrebbero calunniato il nemico... Ma lo dicevamo all'inizio, ognuno è il barbaro di qualcun altro. E più si è civili più si ha voglia di sentirsi barbari (dal divano però...).
- Matteo Sacchi - Pubblicato sul Giornale del 23/2/2018 -
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