Il 12 settembre 1919 Gabriele d'Annunzio occupa con un migliaio di uomini il porto adriatico di Fiume. In pochi giorni il suo esercito di "disertori" si moltiplica. E una sfida al mondo intero: alle potenze alleate che non vogliono riconoscere l'italianità di quella città e al governo italiano che non si sa imporre al tavolo della pace di Versailles. L'occupazione dura quasi sedici mesi e Fiume diventa un laboratorio rivoluzionario politico, sociale, economico ma anche letterario e teatrale. D'Annunzio governa con un'invenzione al giorno, affinando le sue doti di seduttore e addomesticatore di folle. Fiume diventa la "città di vita", dove tutto è concesso e vissuto fino in fondo: le donne votano, l'omosessualità è tollerata, si può divorziare, l'esercito si democratizza e una Costituzione, "La Carta del Carnaro", elaborata dal rivoluzionario Alceste De Ambris e riscritta da d'Annunzio, sovverte le regole borghesi e monarchiche. Pier Luigi Vercesi narra in queste pagine la storia di quest'avventura, dal settembre del 1919 in cui ebbe inizio sino alle giornate di sangue del Natale 1920, quando il governo italiano, dopo aver firmato un accordo con la Jugoslavia, ordinò al generale Caviglia di bombardare dal mare il Palazzo del governo di Fiume. Una straordinaria avventura che il fascismo, di lì a poco, tenterà di fare sua, riproponendo i cerimoniali inventati da d'Annunzio per conquistare le folle. L'anima più autentica del fiumanesimo, tuttavia, non soltanto non aderì al fascismo, ma si schierò dall'altra parte.
(dal risvolto di copertina di: "Fiume. L'avventura che cambiò l'Italia", di Pier Luigi Vercesi. Neri Pozza.)
Fiume, la sagra dei colpi di mano
- di Antonio Carioti -
Poteva essere una semplice disputa di confine. Ma la prese a cuore Gabriele d’Annunzio. E la sua personalità strabordante trasformò la crisi di Fiume nella «rappresentazione teatrale», così la definisce giustamente Pier Luigi Vercesi, delle tensioni e delle pulsioni, dei sogni e dei fantasmi che agitavano l’Italia postbellica.
Il poeta era febbricitante il 12 settembre 1919, quando entrò nella città adriatica (oggi appartenente alla Croazia con il nome di Rijeka), che il governo di Roma rivendicava e che gli era stata negata alla conferenza di pace di Versailles. Con d’Annunzio erano partiti da Ronchi (detta poi per questa ragione Ronchi dei Legionari) circa 2.500 militari ammutinati (granatieri, bersaglieri, arditi), cui si aggiunsero volontari di ogni estrazione. E ben presto la febbre del carismatico letterato, come racconta Vercesi nel libro Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza), si tramise alla cittadinanza locale, composta in maggioranza da individui di lingua italiana, e a gran parte del nostro Paese.
In teoria il governo avrebbe dovuto stroncare la ribellione, ma troppo era l’entusiasmo suscitato dal gesto compiuto dal poeta e dai suoi discorsi infiammati. Il debole esecutivo guidato da Francesco Saverio Nitti, bollato da d’Annunzio con il nomignolo ingiurioso di «Cagoia», non poteva permettersi il prezzo di uno scontro frontale e presumibilmente sanguinoso. Tanto più che l’impresa dei «legionari» fiumani, che reclamavano l’annessione della città all’Italia, aveva colpito l’immaginario di tutti gli insofferenti e gli eversivi, di destra e di sinistra, nazionalisti e anarchici, ma anche di personalità illustri come l’eroe di guerra Luigi Rizzo, il direttore d’orchestra Arturo Toscanini, l’inventore della radio Guglielmo Marconi, che portarono personalmente a d’Annunzio la loro solidarietà.
In quella Fiume ribollente di passioni, ricorda Vercesi, accadeva di tutto. Il poeta aveva istituito anche un Ufficio colpi di mano, incaricato di organizzare scorrerie alla caccia di rifornimenti: tra le prede, autocarri colmi di scarpe e cappotti invernali, vagoni ferroviari pieni di cibo, una nave carica di armi. Gli addetti alle razzie li aveva battezzati «uscocchi», dal nome dei pirati balcanici cinquecenteschi. Il più attivo tra loro era Mario Magri, futuro antifascista ucciso dai tedeschi alle Fosse Ardeatine nel 1944. Ma tra gli uscocchi troviamo anche un temerario diciassettenne, poi squadrista e quindi segretario del Pnf, che invece sarebbe stato soppresso nell’agosto 1943 sotto il governo Badoglio, poco prima dell’armistizio, e sarebbe stato celebrato come un martire dai camerati di Salò: Ettore Muti. Vicende analoghe e nel contempo opposte.
Fiume divenne un grande laboratorio anche di libertà dei costumi sessuali, «un bordello a cielo aperto, dove tutto è concesso in attesa dell’apocalisse», scrive Vercesi. Furoreggiavano personaggi variopinti come Guido Keller, molto vicino a d’Annunzio e amico del futuro scrittore Giovanni Comisso: pilota da caccia durante la Grande guerra, vegetariano, ghiotto di miele e avido di cocaina, dormiva spesso sugli alberi e si portava un’aquila appollaiata su una spalla. Era destinato a morire in un incidente stradale.
Il culmine dell’esperienza fiumana, nell’agosto 1920, fu la proclamazione della «Reggenza italiana del Carnaro» (dall’antico nome del tratto di mare su cui si affaccia Fiume), una fantasiosa entità statuale dotata anche di una costituzione, elaborata dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris. Detta Carta del Carnaro, per l’epoca risultava tra l’altro molto avanzata: poneva alla base dell’ordinamento «il lavoro produttivo» e stabiliva l’eguaglianza giuridica di tutti i cittadini «senza distinzione di sesso».
Nel frattempo però a Roma era tornato alla presidenza del Consiglio Giovanni Giolitti, vecchia volpe che isolò d’Annunzio sul piano politico, attraverso un accordo sotterraneo con Benito Mussolini (all’epoca in risalita dopo la batosta elettorale del 1919), e nel novembre 1920 stipulò con il governo di Belgrado il trattato di Rapallo, che prevedeva la creazione a Fiume di uno Stato libero.
In città la popolazione era stanca, anche gli eroici furori dei legionari si andavano spegnendo. Quando a Natale le truppe del generale Enrico Caviglia presero d’assalto Fiume per consentire l’esecuzione del trattato, con tanto di bombardamento dell’artiglieria navale, la resistenza fu breve, con poche decine di morti. D’Annunzio, ferito leggermente alla testa dai calcinacci sollevati da una cannonata, gridò all’«assassinio», ma preferì cedere il campo. Era riuscito a tenere in scacco lo Stato liberale per oltre un anno, accentuandone la delegittimazione. E gli umori di quell’avventura avrebbero nutrito lo spirito antiborghese del fascismo, ma anche quello di alcuni dei più agguerriti avversari di Mussolini.
- Antonio Carioti - Pubblicato sul Corriere del 17/11/2017 -
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