Laurie Lee ha ventitré anni quando, un giorno d'inverno del 1937, parte alla volta della Spagna per combattere per la causa repubblicana. Questo libro è il racconto delle sue avventure durante quella tragica pagina di storia, in una terra dove tutto ciò che incontra è estremo: la natura asperrima dei luoghi, la durezza del clima, la scarsità di cibo. Ma lui non batte ciglio. Così un episodio atroce come la guerra civile spagnola, trattato per una volta senza retorica, ci appare di colpo nuovo. Lorenzo – questo il suo nome di battaglia – si ritrova fra i tanti uomini di ogni tendenza ideologica accorsi da tutto il mondo nelle brigate internazionali: una congerie che sarebbe eufemistico definire sprovveduta. Già le esercitazioni – gli assalti alla collina con i fucili finti, e in cima le mitragliatrici simulate battendo con i bastoni sulle latte d'olio – danno un'idea di come andrà a finire. I «nostri» devono ancora imparare che «l'idealismo non ha mai fermato un carro armato» – e non fermerà quelli di Franco, pesantemente equipaggiato da tedeschi e italiani. L'occhio di Laurie Lee, la sua felicità di lingua e di scrittura illuminano momenti, luoghi, uomini con un fascio di luce vivissima, e il racconto, insieme ingenuo e clinico, resta dolorosamente lieve a dispetto di tutto, fino al ritorno «senza onore» a Londra – poiché «entrare in Spagna e in una guerra» fu «sin troppo facile», ma «uscirne lo fu ancora di più».
(dal risvolto di copertina di: Laurie Lee, Un momento di guerra. Adelphi)
Don Chisciotte va alla guerra
- di Corrado Stajano -
Sembra una favola splendidamente raccontata ed è invece una memoria della sanguinosa guerra civile di Spagna del 1936-1939. L’ha scritta Laurie Lee, sconosciuto scrittore inglese nato nel 1914, morto nel 1997. Il libro, autobiografico, si intitola semplicemente Un momento di guerra, l’ha pubblicato Adelphi, ben tradotto da Fabrizio Ascari.
Uscì in Inghilterra, per la prima volta, nel 1991, più di mezzo secolo dopo i fatti e non si capisce il perché. La giovinezza perduta dell’autore aveva dovuto maturare per uscire dall’inconscio? Nel 1937, giovane di poco più di vent’anni, Lee, scalando i Pirenei, era arrivato in Spagna per combattere dalla parte della Repubblica contro i golpisti del generale Franco. (Il libro fa venire in mente i «Gettoni» di Elio Vittorini – Anna Maria Ortese, per esempio —, o anche, nel linguaggio, Raymond Radiguet, Il ballo del conte d’Orgel).
Non è un libro ideologico, non risuonano sul fondo delle sue pagine le famose canzoni, El Quinto Regimiento, Los cuatro generales, Die Thälmann-Kolonne, il Lied der Internationalen Brigaden. Quella guerra raccontata da Lee non sembra, come poi è stata, l’anticamera della Seconda guerra mondiale, anche se nei cieli rombano gli aerei nazisti della Luftwaffe e i trimotori fascisti dell’arma azzurra italiana. Tutto è smitizzato, nelle sue pagine.
Con qualche soprassalto: «Quella era una Spagna distesa su un tavolo da obitorio, un cadavere congelato, un Paese morto dove, nonostante il nostro iniziale entusiasmo, sembravamo esser giunti troppo tardi non come difensori ma come spazzini di mezzanotte».
E ancora, con la malinconia degli sconfitti: «Mentre stavamo lì con i pugni alzati, i cappotti laceri che sbattevano al vento e con, a malapena, un fucile in tre, sapevamo di avere contro di noi il crescente potere militare dell’Europa, le sommesse defezioni dei nostri amici e il cinismo letale della Russia? No, non lo sapevamo. Benché allora, nelle nostre uniformi sbrindellate, potessimo sembrare più prigionieri di guerra che un esercito di crociati, eravamo convinti di possedere un invincibile armamento spirituale e di essere dalla parte giusta di quella lotta agli occhi del mondo e degli angeli. Dovevamo ancora imparare che l’idealismo non ha mai fermato un carro armato».
Lee, con il suo sguardo acuto non trascura mai nulla, vede e poi racconta con elegante lievità, i paesi e le città, Teruel, Tarazona, Albacete, Figueras, Almeria, e anche Barcellona, le Ramblas, e, tra passato e presente, Madrid, dov’era stato anni prima, con la Puerta del Sol di cui ricordava le grida, l’aria di festa perenne e trova ora «solo un afrore di cavalli, di paglia, di fogne rotte e di malattia».
Con i villaggi, gli uomini, le ragazze, Eulalia, «la mia piccola ballerina, dagli occhi di india e dal fascino animalesco», vera o immaginata Dulcinea del Toboso – siamo spesso, non solo letterariamente, nel cuore donchisciottesco della Mancia – «con il suo indimenticabile odore, qualcosa che non ho sentito in nessun’altra, una commistione di funghi freschi e di timo calpestato, di fumo di legna e di arancia bruciata». E con la quindicenne Eulalia, «dalla finezza delicata di una stampa persiana», i volontari delle Brigate internazionali arrivati da ogni parte del mondo a difendere la democrazia nel nome della libertà, olandesi, tedeschi, polacchi, parigini, gallesi delle valli, minatori, portuali di Liverpool, cecoslovacchi, «russi pallidi e taciturni», i «figli della depressa e inquieta Europa» e i giovani e non più giovani venuti di là dall’Oceano.
Laurie Lee era arrivato in Spagna dopo due giorni di marcia nella neve dei Pirenei, male in arnese, senza cappotto, bagnato fino alle ginocchia, con un bizzarro bottino, libri, macchine fotografiche, un violino. «Sono venuto a unirmi a voi», disse passata la frontiera ai due miliziani di guardia a un casolare di grosse pietre. Pensava di essere fraternamente accolto, ma dopo la notte, stremato, i due che indossavano ponchos di pelle di coniglio, lo portarono su un barroccio al Comando del capitano Pérez, «un dandy slanciato, una figura brillante in una elegante uniforme stretta in vita da una cintura e con stivali da cavallerizzo così lucidi che le sue gambe sembravano ricoperte di cioccolato».
Venne accusato di essere una spia franchista venuta dal mare, non dal monte. Passò due settimane in una buca profonda due metri. Fu tirato fuori misteriosamente libero, aveva schivato la fucilazione. Un’altra volta fu accusato di essere un agente fascista: sul suo passaporto c’erano due timbri del Marocco: «Primavera ‘36. Melilla. Ceuta. Tetuán», i luoghi dove il generale Franco aveva preparato il suo colpo di Stato. Se la cavò anche quella volta. Il francese dal collo di giraffa che aveva guidato i suoi ultimi passi in montagna fortunatamente lo vide e disse: «Ancora lui! Liberatelo, per amor del cielo».
«Ero venuto in Spagna per sostenere una causa, per sacrificarle la mia vita, forse: non per esser fatto fuori per aver attraversato una montagna con un violino o per un viaggio in Marocco nel periodo sbagliato».
Il libro è ricco di situazioni, di fatti che sarebbero piaciuti a un novecentesco Miguel de Cervantes Saavedra: il memorabile banchetto con tre polli, costati l’ira di Dio, cucinati da doña Anselma e doña Luisa; quando Lee suona il violino, vecchie danze spagnole, con le bombe che fischiavano sopra la testa; i compagni Esterhazy e Ignacio, che da una misteriosa stazione radio – «avevo la sensazione che i microfoni non fossero collegati a niente, che quella fosse tutta una pantomima per placare gli dei» – recitano, l’uno con voce monotona, l’altro con voce flautata, i versi di Machado.
Laurie Lee non doveva essere un gran combattente. Dopo un po’ di mesi, il commissario politico di Tarazona lo chiama e gli dice: «Compagno, ti rimandiamo a Londra. (...) Ci saresti più utile là. Dopotutto qui non ci servi a molto. Potresti scrivere di noi, fare discorsi, dipingere manifesti».
«Mi rivolse un sorriso mite da macellaio e se ne andò».
Se ne andò anche il futuro scrittore. «Non c’era nessuno da salutare a Tarazona». Erano morti tutti, avevano disertato o erano stati spazzati via dalla neve.
- Corrado Stajano - Pubblicato sul Corriere del 21 aprile 2018 -
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