La gioia dell'odio
- Una nota sul "caso Céline -
Jean-Luc DEBRY
La sua misantropia, la sua misoginia, il suo razzismo, il suo antisemitismo - che Jankélévitch distingueva dal razzismo a partire da questa specifica paura dell'altro, dell'impercettibilmente altro -, il suo universo di odio e di risentimento, l'ilarità e l'esultanza che gli procurava, il suo modo di sguazzare nel proprio pantano, sarebbero pertanto la conseguenza dell'esperienza che Céline ha avuto della guerra - la "Grande", come la chiamava.
La recente pubblicazione di Guerre, manoscritto ritrovato e pubblicato da Gallimard [*1], è a questo proposito un elemento, non tanto di giustificazione, quanto di comprensione di ciò che è stato chiamato, in mancanza di un termine migliore, il "caso Céline".
Sembra mostrare fino a che punto la violenza che divorava la sua anima, lo abbia spinto verso un eccesso senza tenerezza, caratteristico del suo "stile". Un'inclinazione che tanto affascina quanto respinge. Questa violenza di contenuto e di forma, nasce nel fango e nel sangue della follia bellica, dove i sopravvissuti ai massacri venivano fucilati poiché la loro sopravvivenza era sospetta e dove, al contrario, si decretava, con l'arroganza dell'arbitrio con i galloni, che altri storpi sarebbero diventati eroi decorati - pagliacci manipolati, insomma - che avrebbero ispirato la necessità di altri massacri a venire. Il plotone o la medaglia: una scelta che riassume la promessa di futuro per l'anima sfigurata, per la persona spezzata interiormente. Una società che si gloria della morte atroce dei propri figli giustificherebbe perciò una rabbia mostruosa, a immagine di ciò che essa ha generato. Il crimine giustificherebbe il desiderio di vendetta della vittima impotente. Così, la sua rabbia sublimata, vigorosa e devastante, la rabbia folle che abitava Céline, poteva sembrare scagionare ciò che non riusciamo a comprendere con la ragione. Nel caso di Céline, negli anni Trenta e Quaranta, questa rabbia furiosa cercherà un bersaglio su cui concentrarsi. Lo troverà nell'antisemitismo delirante e vigliacco dello scrittore.
L'esultanza che l'odio per tutto reca in sé, l'ebbrezza inebriante e affascinata che esso sprigiona, ci trascina fino alla nausea, allorché sappiamo già cosa succederà dopo, di quel pozzo senza fondo, sappiamo di quell'abisso profondo in cui l'acrimonioso Céline è sprofondato senza mai esprimere il minimo pentimento. L'autore del Voyage si dedicò, infatti, senza badare a spese, a questa particolare forma di inversione vittimaria che è stato il suo marchio di fabbrica, ripetendo incessantemente e fino alla morte: «Sono io la vittima!» La cosa peggiore, se non stiamo attenti, potrebbe essere sviluppare un gusto per questo odio viscido. Il pericolo c'è, evidente, perché in fondo la prosa di Céline è "godibile", tanto per usare il termine così abusato negli anni Settanta, i quali sono stati gli anni della sua riscoperta. Piacevole, sì, ma al punto che ci si vergogna di condividerlo senza vergogna o ritegno. Il meccanismo del resto è ben noto: nasce dall'attrazione voyeuristica e dal godimento malefico che crea la tentazione di condividere la felicità del torturatore. Questa dipendenza sadica deve mettere in discussione anche il piacere del lettore, ma soprattutto conferma l'evidenza che la cesura attuata da Céline è stata indiscutibilmente l'origine di un rutto che ha provocato, in uno stesso movimento, un malessere e una gioia malvagia che, grazie al successo di Céline, ha portato la letteratura dalla parte di un aldilà sconfinato di follia sanguinaria; il cui indispensabile corrispettivo sarebbe Camus. «Odio quindi sono», ci sorride, facendo una smorfia, Céline, che, vittima di un suicidio europeo, ha perso la ragione. In lui, non c'è altro che un nichilismo (non romantico, e solo per un centesimo) che non ha altro fine che sé stesso. In breve, il desiderio di uccidere e di far soffrire con parole che precedono l'atto, la cui esecuzione è affidata ad altri. «Céline non è privo di meriti», osserva Houellebecq da qualche parte, «è solo ridicolmente sopravvalutato.» Ed è proprio da qui che nascono i problemi, da questa sopravvalutazione a cui ci prestiamo ben volentieri. Ci sono spettacoli orribili come questo da cui non si può sfuggire. Anche se si distoglie lo sguardo, lo sguardo torna sempre all'orrore. Come calamitati. A differenza dei Giono, dei Cendrars o dei Giraudoux de "La guerre de Troie n'aura pas lieu" - la cui invettiva di Ettore merita ancora di essere ricordata [*2] - Céline si lascia infinitamente travolgere dal piacere dell'odio senza mai riprendersi. Non ha mai smesso di girare il coltello nella piaga, fino al momento in cui ha trovato lo "stile" letterario che lo ha reso famoso. Un caso, davvero!
- Jean-Luc DEBRY - 20 giugno 2022 -
Note :
[*1] A questo proposito, si legga l'indispensabile studio di Philippe Roussin - "Déshonneur et patrie: retour sur l'affaire Céline" - pubblicato sul sito "En attendant Nadeau". https://www.en-attendant-nadeau.fr/2021/12/15/deshonneur-patrie-affaire-celine/
[*2] Hector – « O voi che non ci ascoltate, che non ci vedete, ascoltate queste parole, vedete questa processione. Noi siamo i vincitori. Non ti dispiace, vero? Anche tu lo sei. Ma noi siamo i vincitori viventi. È qui che inizia la differenza. È qui che mi vergogno. Non so se nella folla dei morti i morti vittoriosi possano essere distinti da un tondo. I vivi, vincitori o meno, hanno la vera coccarda, la doppia coccarda. Questi sono i loro occhi. Abbiamo due occhi, miei poveri amici. Vediamo il sole. Facciamo tutto quello che si fa al sole. Mangiamo. Beviamo... E al chiaro di luna!... Dormiamo con le nostre mogli... Anche con le vostre... [...] O voi che non odorate, che non toccate, respirate questo incenso, toccate queste offerte. Poiché finalmente è un generale sincero a parlarvi, imparate che non ho uguale tenerezza, uguale rispetto per tutti voi. Per quanto siate morti, c'è tra di voi la stessa proporzione di coraggiosi e codardi che c'è tra noi che siamo sopravvissuti, e non mi farete confondere, con una cerimonia, i morti che ammiro con quelli che non ammiro. Ma quello che devo dirvi oggi è che la guerra mi sembra la ricetta più sordida e ipocrita per equiparare gli esseri umani, e non ammetto più la morte come punizione o espiazione per il codardo che come premio per il vivo. Quindi, chiunque tu sia, tu assente, tu inesistente, tu dimenticato, tu senza occupazione, senza riposo, senza essere, capisco infatti che è necessario, chiudendo queste porte, scusare vicino a te questi disertori che sono i sopravvissuti, e sentire come un privilegio e un furto questi due beni che si chiamano, con due nomi la cui risonanza spero non ti raggiunga mai, il calore e il cielo. » [Jean Giraudoux, La guerre de Troie n'aura pas lieu, atto II, scena 5 (estratto), 1935].
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