mercoledì 22 giugno 2022

«Inerzia Tecnologica Persistente» !!

Il capitalismo stagnante e l'illusione della rottura tecnologica
- Jason E. Smith e Tony Smith -

In occasione della pubblicazione, nel novembre 2020, del libro di Jason E. Smith, "Smart Machines and Service Work" ["Macchine intelligenti e lavoro di servizio"], tradotto recentemente in francese dall'editore Grevis, con il titolo "Les capitalistes rêvent-ils de moutons électriques?" ["I capitalisti sognano pecore elettriche?"], Tony Smith ha avuto uno scambio con l'autore, al fine di spiegare il suo approccio alle innovazioni tecnologiche, e il modo in cui esse riconfigurano o meno il capitalismo. Né tecno-utopia né tecno-distopia, Jason E. Smith mostra quale sia la natura ampiamente illusoria dell'idea di «svolta tecnologica» - condivisa sia dagli apologeti che dai critici delle nuove tecnologie. Questo mito non solo serve a mascherare la stagnazione economica e il caos sociale, ma allo stesso tempi ci distrae anche dalla questione - che viene qui posta dall'autore - delle nuove forme di organizzazione e di lotta dei lavoratori.

Tony Smith:  Innanzitutto, congratulazioni per la pubblicazione di "Smart Machines and Service Work". È uno dei migliori libri sulle conseguenze sociali del cambiamento tecnologico, che abbia mai letto, molto più perspicace di quelli sulla tecnologia, i quali ricevono tanta attenzione dalla stampa mainstream. Molti di questi libri, difendono il tecno-utopismo, sostenendo che se aspettiamo ancora un po', e mettiamo in atto le politiche giuste, le tecnologie avanzate daranno il via a una nuova era di crescita e di prosperità. Altri, invece, assumono una posizione tecno-distopica, prevedendo livelli di disoccupazione tecnologica e di caos sociale senza precedenti. Come definirebbe la sua posizione rispetto a queste alternative?

Jason E. Smith: Si sbagliano entrambe. Entrambe partono dal presupposto secondo cui le economie capitalistiche avanzate stiano subendo, o stiano per subire, una profonda trasformazione guidata dalle macchine, il cui effetto principale sarà un improvviso aumento della produttività del lavoro e della crescita economica. I "tecno-distopisti" pongono l'accento sulle probabili conseguenze sociali, che vedono come catastrofiche per la stratificazione delle classi e i mercati del lavoro: un'esacerbazione della disuguaglianza di reddito e, soprattutto, una disoccupazione «di massa». Nel mio libro, mi concentro su quest'ultimo aspetto. Gli episodi di disoccupazione di massa non sono il risultato di un cambiamento tecnologico, ma piuttosto di un collasso economico. Se dovesse avvenire una rianimazione robusta e automatica delle economie ad alto reddito, l'evidenza storica suggerisce una traiettoria completamente diversa. Potremmo aspettarci temporanei sconvolgimenti del mercato del lavoro, con la revisione dei processi lavorativi, la ridefinizione dei posti di lavoro, la riallocazione della manodopera da settori ad alta produttività a settori a maggiore intensità di lavoro, la creazione di industrie completamente nuove e l'imposizione di nuove divisioni del lavoro (sia sociali che tecniche). Emergerebbe una nuova composizione di classe, con nuove stratificazioni di abilità, genere, razza o località. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, basta risalire al periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale e a quello fino a circa il 1965 o il 1970 - che io chiamo «Automazione 1.0» - per trovare questo modello. Certamente, nel lungo periodo, una tale trasformazione porterebbe molto probabilmente a un aumento della disoccupazione, con la maggior parte dei nuovi posti di lavoro costituiti da servizi a bassa retribuzione, in particolare servizi alla persona. Miseria e dislocazione per molti, di sicuro. Ma una trasformazione tecnologica radicale delle economie avanzate non è né in corso né imminente.
Le affermazioni secondo cui queste economie sarebbero sull'orlo di un'esplosione tecnologica, provengono principalmente dalle facoltà di economia o di "management", e dalla Silicon Valley. In seguito, vengono poi incanalate, riprese e ripetute da giornalisti e da commentatori. Vengono accompagnate da parole d'ordine del tipo: «seconda età della macchina», «terza rivoluzione industriale», «industria 4.0», ecc. Tutto questo battage mediatico, si riversa poi a sinistra ed è associato a dei piani speculativi per l'UBI (reddito di base universale), o addirittura a delle proposte di «nazionalizzazione» delle piattaforme dei social media. Tali proiezioni vengono fatte in un contesto di crisi inarrestabile (nel 2018 la Banca d'Inghilterra è arrivata ad annunciare che l'economia del Regno Unito ha «sofferto il peggior decennio, per quel che riguarda la crescita della produttività, dal XVIII secolo»). La retorica che ne è emersa, e che si è consolidata intorno all'automazione, può essere interpretata come parte di un'iniziativa più ampia volta ad alimentare una bolla del mercato azionario storicamente senza precedenti; alimentata principalmente da una manciata di titoli cosiddetti tecnologici o internet (i titoli giustamente denominati "FAANG": Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Alphabet-Google). La storia dell'innovazione dell'ultimo decennio, si limita principalmente al settore finanziario e alla politica monetaria: riacquisti di azioni (800 miliardi di dollari nel 2018), tassi di prestito vicini allo zero, un massiccio indebitamento delle imprese private, ciclo dopo ciclo di quantitative easing [la cosiddetta politica monetaria non convenzionale]. Sulle economie più ricche del mondo, si è riversato uno tsunami di denaro a basso costo, che in gran parte è stato speso in immobili urbani. Con l'inizio della pandemia, ne abbiamo ricevuto una dose da King Kong, che ha portato i mercati azionari ai massimi storici, mentre interi settori economici chiudevano, e decine di milioni di lavoratori statunitensi perdevano il lavoro. Queste fantasie e simulazioni relative al cambiamento tecnologico, sono di vitale importanza per una classe capitalista che immagina sé stessa come una forza storica progressista, ma che però presiede a un'economia profondamente stagnante, passando da una crisi profonda all'altra. Questa classe si presenta come una forza storica dirompente, persino anarchica, le cui straordinarie innovazioni pongono problemi (la crescita esplosiva della produttività che rende superflua metà della forza lavoro, ecc.) che solo essa può comprendere e risolvere (con l'UBI, una garanzia di posti di lavoro, forse un New Deal verde). Non c'è da stupirsi che la parola d'ordine del decennio sia stata «smart» (telefoni intelligenti, case intelligenti, fabbriche intelligenti, automobili intelligenti e città intelligenti); un termine che riflette l'autostima di coloro che lo hanno inventato. Eppure queste persone si sono arricchite con le bolle del mercato immobiliare e azionario. Non mi si fraintenda, viviamo in un'epoca di «caos sociale», per usare i vostri termini: un'epoca di polarizzazione e frammentazione sociale, di aumento del debito e mancanza di crescita, di mercati del lavoro spezzati e di conflitti di classe forti ma frammentati e incoerenti. "Smart Machines and Service Work", cerca di analizzare e prendere le misure di questo crescente disordine, per offrire una spiegazione diversa del perché siamo rimasti intrappolati in quest'ingranaggio.

Tony Smith: La più parte delle persone pensa che viviamo in un'epoca di cambiamenti tecnologici senza precedenti. Eppure nel suo libro parla di «inerzia tecnologica persistente». Cosa intende con questa formula scioccante?

Jason E. Smith: Per lo più, i tipi di progressi tecnologici che si sono verificati negli ultimi dieci anni e oltre, sono irrilevanti dal punto di vista macroeconomico, sia in termini di crescita della produttività del lavoro, che di occupazione, tassi di investimento, crescita del PIL o altro. Non è un caso che il consolidamento di questa retorica dell'automazione imminente (machine learning, governance algoritmica, rivoluzione delle piattaforme, sharing economy) abbia coinciso poi con l'improvvisa ascesa di aziende come Facebook, Apple, Alphabet, Amazon, Alibaba e Tencent. A metà del decennio, queste aziende avevano consolidato il loro status di leader del mercato azionario - le loro valutazioni sovradimensionate superavano di gran lunga le precedenti transnazionali bancarie, petrolifere, farmaceutiche e automobilistiche - e allo stesso tempo esse si erano inserite nel tessuto della vita quotidiana dei consumatori, della classe operaia e della cosiddetta classe media. Le aziende dei social media come Facebook e le aziende monopoliste di Internet come Alphabet/Google hanno trascorso il decennio promettendo una rivoluzione nell'intelligenza artificiale, o nelle auto a guida autonoma, mentre oltre il 90% dei loro ricavi proveniva invece dalla vendita di spazi pubblicitari ad altre aziende (come banche e case automobilistiche). Nell'ultimo decennio, queste piattaforme hanno accumulato enormi profitti, creando e imponendo condizioni operative di tipo monopolistico. Sebbene si presentino come aziende tecnologiche, esse investono relativamente poco in Ricerca&Sviluppo, ma spendono molto per schiacciare i loro potenziali concorrenti, soprattutto acquistandoli tempestivamente.
Lo «smartphone» si è imposto come l'innovazione, o l'invenzione di punta del nostro tempo, la sua "star commodity". La sua onnipresenza, la sua presenza sui marciapiedi, nelle sale riunioni, nelle aule o a tavola, ne confermano lo status di emblema dell'epoca. Essenzialmente, si limita solo a riunire i dispositivi più vecchi (il telefono cellulare, il personal computer). Fornendo l'accesso a tutta una gamma di intrattenimenti - shopping, musica e video in streaming, comunicazione interpersonale - attraverso un unico schermo interattivo, questi dispositivi completano quella che è una confluenza in atto da decenni: la fusione di commercio e informazione, intrattenimento e socialità, affermazione di sé e vita civile su un unico schermo LCD (o OLED) sensibile al tocco. Il suo utilizzatore si trova combattuto tra tutti questi registri, pur praticandoli insieme e allo stesso tempo. Il suo umore oscilla tra l'inoffensivo divertimento e la rabbia inarticolata. Tuttavia, la mano pesante delle più grandi aziende tecnologiche sui mercati azionari, unita alla forza dell'influenza che hanno scatenato sull'intrattenimento, sul consumo, sull'identità personale e sul discorso pubblico - tutti elementi che si trovano già da tempo, da decenni, in fase di erosione e di decadenza - ha portato a delle rivendicazioni su questa tecnologia di base, le quali superano di gran lunga quello che è il suo impatto sul modo in cui facciamo acquisti, consumiamo i media o interagiamo con amici, familiari e sconosciuti. Sul posto di lavoro, queste innovazioni promettevano quello che Paul Mason ha definito un «decollo esponenziale della produttività» [nel suo libro "Postcapitalism a Guide To Our Future"]. Questo è esattamente ciò che non è accaduto. Invece, abbiamo ottenuto reti sempre più strette di sorveglianza e di tracciamento, nelle strade e sul posto di lavoro. È indicativo il fatto che gli smartphone e le piattaforme di social media siano decollati proprio nel bel mezzo di una profonda recessione che non si è mai veramente «risolta». L'iPhone è stato commercializzato per la prima volta alla vigilia della crisi finanziaria del 2008. Il modo in cui le persone corrispondono, ottengono informazioni, guardano film, fanno acquisti, o condividono foto, non sarà mai più lo stesso. Ma il «paradosso della produttività» di Robert Solow [premio Nobel per l'economia 1987; nato nel 1924], formulato per la prima volta nel 1987 - «L'era dei computer è visibile ovunque, salvo che nelle statistiche sulla produttività» - ha superato la prova del tempo. Nell'ultimo decennio si è registrata la crescita più lenta degli aumenti di produttività del lavoro degli ultimi decenni, anche nel settore manifatturiero. Tuttavia, il rallentamento della crescita della produttività del lavoro era già iniziata intorno al 1970, proprio quando ha fatto il suo debutto il primo microprocessore al mondo, l'Intel 4004.

Tony Smith: Questo ci porta a uno dei misteri più duraturi dell'economia contemporanea, il quale si trova racchiuso nell'espressione «stagnazione secolare». In che modo la sua spiegazione dello scollamento tra l'apparente dinamismo innovativo degli ultimi decenni e la relativa mancanza di dinamismo economico differisce da quella di altri che hanno richiamato l'attenzione su questo fenomeno?

Jason E. Smith: Già nel 2013, nel momento in cui si sta riscaldando la retorica che anticipa l'esplosione della produttività indotta dall'automazione, un'altra fazione della classe dirigente statunitense interviene con una prospettiva molto diversa. Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, sostiene che gli Stati Uniti e le altre economie capitalistiche mature si trovano di fronte alla prospettiva di una profonda stagnazione, nella quale l'alta disoccupazione, la bassa crescita del PIL e la stagnazione dei salari potrebbero protrarsi molto più a lungo delle brevi flessioni dei tipici cicli economici. Il rendimento dell'economia statunitense sembra dare ragione a Larry Summers. Il decollo promesso non è mai arrivato. Il decennio, nel quale libri con titoli come "Rise of the Robots. Technology and the Threat of a Jobless Future" (Basic Books, 2016) hanno occupato il centro del dibattito pubblico, è stato anche segnato da un'inesorabile crisi economica globale di dimensioni che non si erano più viste dagli anni Trenta. La prima fase di questa disfatta è stata segnata da una serie di fallimenti spettacolari nel settore finanziario, con banche d'investimento sovra-indebitate che sono crollate, o sono state acquistate per pochi centesimi di dollaro da aziende meno esposte. Quello che è successo dopo era tanto prevedibile quanto devastante: anni in perdita, con tassi di disoccupazione che non si vedevano da decenni, combinati con un crollo dei tassi di attività, dato che i lavoratori licenziati sono usciti dal mercato del lavoro (o, in alcuni casi, sono stati riclassificati come "disabili"). Con il calo della domanda di lavoro, i salari di molti lavoratori sono diminuiti. Con la perdita del lavoro da parte degli operai, anche il capitale ha perso il lavoro. Durante il decennio di crisi, i tassi di utilizzo della capacità installata, che misurano il divario tra ciò che un'economia può produrre e la sua produzione effettiva, hanno raggiunto i livelli più bassi della storia del dopoguerra, ben al di sotto di quelli degli anni di crisi degli anni Settanta. La crescita del PIL ha vacillato, anche se l'indebitamento delle imprese è aumentato in questo periodo. Sia negli Stati Uniti che in Europa, è emerso un fenomeno osservato per la prima volta durante il «decennio perduto» giapponese degli anni '90: la presenza spettrale di società «zombie», in grado di evitare la rovina rifinanziando costantemente il proprio debito, anche se le loro attività si contraevano. Ma soprattutto, nello stesso momento in cui tanti commentatori annunciavano la prospettiva di una nuova era delle macchine, gli investimenti in capitale fisso delle imprese private crollavano a tassi mai visti nel dopoguerra. I dati sulla produttività del lavoro negli Stati Uniti hanno mostrato, senza sorpresa, tassi di crescita negativi, con un aumento inferiore all'1% all'anno, anche nel settore manifatturiero, storicamente dinamico. La decrescita della spesa per investimenti è stata particolarmente marcata, ma non è affatto un'aberrazione rispetto al passato. A pochi anni dalla crisi, uno studio ha mostrato che, misurati come se fossero una «quota del PIL, gli investimenti delle imprese sono diminuiti di oltre tre punti percentuali dal 1980». Dagli anni '70, solo il decennio degli anni '90 si distingue, come un'anomalia, durante il quale un gruppo di indicatori economici (PIL, produttività del lavoro, investimenti delle imprese) è aumentato leggermente. Tuttavia, tra il 2000 e il 2011, il tasso di investimento delle imprese si è mosso a malapena, crescendo solo di un decimo rispetto al livello degli anni Novanta. Nella misura in cui sottolineano l'inaridimento degli investimenti delle imprese, gli «stagnazionisti» non hanno torto. Ma la loro spiegazione del perché le economie mondiali ad alto reddito si sono impantanate in una crisi apparentemente senza speranza - la risposta keynesiana, l'insufficienza della domanda - è debole. Vale la pena ricordare che Alvin Hansen [1887-1975], il principale sostenitore americano di Keynes, abbozzò per la prima volta la teoria della stagnazione secolare in risposta alla forte recessione del 1937, dopo che la strategia fiscale anticiclica di Roosevelt non era riuscita a sostenere il crollo della domanda e a stimolare gli investimenti privati.
Questo fallimento costrinse Alvin Hansen a considerare la possibilità di un letargo cronico e intrattabile, e a ipotizzare il motivo per cui le economie capitalistiche mature tendono alla stagnazione (stasi) e alla deriva (declino demografico? chiusura delle frontiere?). Tuttavia, oggi le ricette politiche di coloro che appartengono a questo campo si basano ancora su nuovi cicli di spesa in deficit su larga scala. Rimangono abbagliati dagli apparenti successi della gestione keynesiana della domanda, per alcuni decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale, per poi meglio reprimere il fallimento di quella scuola negli anni Settanta, quando quelle stesse politiche contribuirono alla nascita di un mostro macroeconomico - la «stagflazione» - di cui non riuscirono né a rendere conto teoricamente né a escogitare antidoti. Nel 1981, il rapporto tra debito pubblico e PIL degli Stati Uniti era solo del 31%; e anche prima della massiccia legge di spesa approvata nel marzo di quest'anno (2020), questa cifra era superiore al 100%, molto vicina a quella registrata nel 1945-46, quando erano in atto spese di difesa per una guerra mondiale. Oggi è sicuramente molto più alto. Allo stesso modo, la spesa pubblica in percentuale del PIL, è cresciuta costantemente dal 1970, raggiungendo un picco del 43% nel 2010, un anno dopo la «ripresa» dalla crisi del 2008. Le dimensioni dell'economia capitalistica privata continuano a ridursi rispetto all'attività economica totale. Ciò che gli economisti mainstream non riconoscono, siano essi keynesiani o neoclassici, è la distinzione fondamentale tra l'attività capitalistica privata e la spesa pubblica finanziata con fondi provenienti dal settore privato (sotto forma di tasse o debito). Quando i governi acquistano beni e servizi da imprese private per stimolare la domanda, il risultato può essere un aumento a breve termine dell'occupazione. Ma, come Paul Mattick [1904-1981] ha dimostrato con grande chiarezza qualche tempo fa in "Marx & Keynes. Les limites de l'économie mixte" (edizione francese, Gallimard 1972), questo tipo di spesa non è altro che una forma di consumo su larga scala, diretto dal governo e pagato con il monte profitti (o «plusvalore») generato dall'economia privata. La spesa pubblica di questo tipo non fa altro che ridistribuire questa quota del profitto totale a specifici capitalisti, come Raytheon, Pfizer o Purdue Pharma. Analogamente, quando i governi producono direttamente servizi, come l'istruzione pubblica, questi non vengono venduti sul mercato e non generano profitti da investire nell'espansione della produzione. Sebbene la spesa statale per l'istruzione o l'assistenza sanitaria risponda spesso a esigenze reali, dal punto di vista del sistema capitalistico stesso, si tratta di una spesa improduttiva. Non producono valore o plusvalore direttamente, ma sono pagati con il plusvalore estratto dal settore privato.

Tony Smith: Nell'economia tradizionale, non si trovano le categorie di lavoro «produttivo» e «improduttivo». Può dirci qualcosa di più su questa distinzione che gioca un ruolo cruciale nel suo libro?

Jason E. Smith: Questa distinzione è stata decisiva per l'economia politica classica, per Smith, Ricardo e Malthus, e per il grande critico di quella scuola di pensiero, Marx. Credo che sia anche molto sentito nell'esperienza quotidiana delle persone, ed è per questo che lo slogan spurio di David Graeber «lavori di merda» ha avuto la risonanza che ha avuto. Allo stesso modo, Adair Turner [ex capo della Confederazione dell'Industria Britannica] ha recentemente parlato di «attività a somma zero» per caratterizzare la crescente frazione di attività economica dedicata non alla produzione di ricchezza ma alla lotta per la sua distribuzione. Eppure questa fondamentale distinzione concettuale è completamente persa dagli economisti mainstream.
Gli economisti non distinguono tra le attività che producono valore e quelle che lo fanno circolare o lo distribuiscono. Né tantomeno vedono la necessità di rendere conto del modo in cui i profitti maturati da alcuni tipi di capitale - capitale bancario, imprese commerciali - rappresentano quote di quello che Marx chiamava «plusvalore» derivante da un impiego propriamente produttivo. Invece di distinguere tra le attività che producono valore e quelle che catturano il plusvalore redistribuito attraverso la competizione inter-capitalistica, gli economisti adottano più o meno la nozione di «produttività» che viene utilizzata dagli imprenditori e dalla stampa economica. Ogni attività economica che genera reddito viene detta produttiva. La produttività del lavoro si misura dividendo la produzione, espressa in termini monetari, per le unità di lavoro. Naturalmente, l'esistenza di un settore pubblico espansivo che non è soggetto ai rigori della concorrenza inter-capitalistica, e che fornisce beni e servizi non venduti sul mercato pone alcuni problemi a questa nozione semplicistica. Ma esistono sottili trucchi contabili per colmare le lacune.
Torniamo al «paradosso della produttività» di cui sopra. La soluzione a questo enigma è stata apparentemente proposta in un famoso articolo di William Baumol [1922-1987]. Egli sostiene che quando alcuni settori economici introducono innovazioni per il risparmio di manodopera, il cui effetto netto è una riduzione della domanda di lavoro, ecco che la nuova manodopera in esubero verrà riallocata in modo più o meno trasparente in quei settori a maggiore intensità di lavoro, e meno produttivi. Molti di questi lavoratori saranno spostati in quello che gli economisti chiamano il settore dei «servizi». Il modello di William Baumol prevede che, poiché gli aumenti di produttività sono distribuiti in modo diseguale tra quelli che egli chiama i settori tecnologici «progressivi» e quelli «stagnanti», ecco che sempre più manodopera si concentrerà nei lavori meno produttivi, con conseguenti minori aumenti di produttività per la forza lavoro nel suo complesso. Se estrapolata a lunghissimo termine, la crescente disparità degli aumenti di produttività tra i settori porterà a un'economia in cui la crescita della produttività sarà prossima allo zero. Ora, tutta questa storia è concettualmente sbagliata. Si basa su una nozione di produttività che è confusa o contraddittoria persino secondo i suoi stessi termini. Nel mio libro esploro alcune delle contraddizioni che emergono quando cerchiamo di confrontare la produttività del lavoro tra i vari settori, misurata a volte in unità fisiche e a volte in unità monetarie. Come si misura la produttività del settore finanziario, la cui produzione è difficile da caratterizzare in termini fisici? Ha senso misurare la produttività di un'attività che si limita a fare da intermediario tra altre attività economiche, senza produrre «valori d'uso» che vengono consumati dalle imprese o dalle famiglie? Gli economisti lo fanno di continuo. Come possiamo misurare la produttività degli insegnanti della scuola pubblica, che forniscono servizi che sono principalmente amministrati dai governi locali e non sono scambiati con denaro sul mercato? Nonostante i processi di lavoro e le funzioni sociali siano radicalmente diversi, questi esempi vengono entrambi raggruppati nell'unica e incoerente categoria dei «servizi». Cosa ancora più importante, William Baumol non distingue tra le attività che producono valore e quelle che non lo producono. Non fa distinzione tra i beni e i servizi forniti dal settore pubblico e quelli prodotti dall'economia capitalistica privata e, all'interno di quest'ultima, tra le attività che producono direttamente valore e quelle che si limitano a farlo circolare o a distribuirlo. L'esplorazione di queste distinzioni concettuali, è uno dei punti centrali di "Smart Machines and Service Work". Se utilizziamo queste categorie, arriviamo a una nozione di produttività molto diversa da quella su cui fanno affidamento economisti e dirigenti d'azienda. Ci sono numerose attività che impiegano persone e che generano reddito, ma non aumentano la ricchezza totale della società; molte attività che creano «valori d'uso» - fornite dallo Stato o dalle famiglie - non producono valore o valore di scambio. Un numero significativo di posti di lavoro del cosiddetto settore dei servizi produce valore, indipendentemente dalla loro intensità di lavoro e dalla loro resistenza ai cambiamenti tecnologici; altri non producono valore e comportano processi lavorativi che possono essere riformattati al fine di risparmiare manodopera. La distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo taglia questa categoria, rendendola analiticamente irrilevante. Questa distinzione è essenziale perché, come ho già detto, le attività improduttive devono essere pagate con il totale del plusvalore generato dall'economia privata: sono un costo sostenuto nel processo di accumulazione. Le convenzioni nazionali di contabilità del reddito registrano questi costi come entrate. Una delle tendenze di lungo periodo in un'economia capitalistica matura è l'aumento del numero di attività improduttive, in contrapposizione alle attività produttive necessarie per l'accumulazione: la realizzazione di parti del processo di scambio, la facilitazione delle attività capitalistiche attraverso le transazioni finanziarie, l'affitto di terreni ed edifici alle imprese produttive.
Questo crescente sovraccarico di attività lavorative che circolano, o che distribuiscono valore piuttosto che crearlo, è tanto una condizione per l'accumulazione di capitale quanto, con l'aumento del rapporto tra attività improduttive e produttive, un ostacolo a essa. Si tratta di una questione spinosa, il cui pensiero deve molto a Paul Mattick e al lavoro dell'economista Fred Moseley [autore, tra gli altri, di "The Falling Rate of Profit in the Postwar United States Economy", St. Martin Press, 1991; "Marx's Capital and Hegel's Logic: A Reexamination" - with Tony Smith - Haymarket Books, 2015]. Ne consegue un tasso di crescita della produttività differenziato tra la dimensione produttiva e quella improduttiva dell'economia; gli aumenti di produttività del lavoro nelle attività di produzione di valore, con importanti eccezioni, tendono a crescere più rapidamente di quelli nelle attività di circolazione o distribuzione del valore. La conseguente espansione relativa del settore improduttivo esercita una pressione negativa sul tasso di profitto complessivo. L'unica speranza di alleviare questa pressione è un aumento della produttività del lavoro nel "settore" improduttivo (termine fuorviante, poiché la distinzione tra attività produttive e improduttive si estende a tutti i settori e anche alle singole imprese). Ma per le ragioni che ho già spiegato, un simile scenario è altamente improbabile, anche perché la contrazione del tasso di profitto abbassa i tassi di investimento. Perfino tra le imprese che estraggono plusvalore direttamente nel processo lavorativo, non c'è corrispondenza tra la quantità di plusvalore che estraggono e il plusvalore che accolgono sotto forma di profitti; questi ultimi riflettono la quota massima del plusvalore totale prodotto dall'economia nel suo complesso che le imprese sono in grado di appropriarsi nel processo di distribuzione. Man mano che l'accumulazione rallenta e le imprese capitalistiche intensificano la competizione per un bacino sempre più ristretto di plusvalore, dedicheranno sempre più risorse a quelle che Adair Turner chiama «attività di distribuzione a somma zero».
Si tratta spesso di attività di supervisione, poiché l'aumento della disciplina sul posto di lavoro richiede personale aggiuntivo, per imporre l'accelerazione del lavoro in assenza di un perfezionamento delle tecniche di produzione. Ma altrettanto spesso assumono la forma dei cosiddetti «servizi alle imprese», dal momento che sempre più risorse vengono dedicate alla contabilità, alla pubblicità e alle operazioni finanziarie, oppure all'efficienza dei processi di marketing e di vendita. Sull'economia, l'effetto netto di questa guerra distributiva, è un ulteriore rallentamento dell'accumulazione, proprio perché queste attività rappresentano spese generali aggiuntive pagate dai capitalisti dal totale del plusvalore creato dallo sfruttamento nelle attività propriamente produttive. Quando il tasso di profitto si riduce, la diminuzione del plusvalore costringe le imprese a destinare ancora più risorse all'appropriazione di questo plusvalore, anziché alla sua produzione, abbassando ulteriormente il tasso di profitto. Questa è la dinamica simile a un vortice di un'economia inesorabilmente stagnante.

Tony Smith: Alla fine del suo libro lei sembra piuttosto pessimista riguardo ai sindacati e alle forme di lotta collettiva, invocando nuove forme di organizzazione. Qual è la base di questo pessimismo? Avete qualche idea su come potrebbero essere queste nuove forme?

Jason E. Smith: Sono pessimista solo riguardo a una rinascita del vecchio movimento operaio, una prospettiva a cui si aggrappano tanti esponenti della sinistra statunitense. Trovo promettente e stimolante il modo in cui si sta svolgendo il conflitto di classe, anche se il processo rimane frammentato, disorientato e pieno di sorprese. Dall'inizio del secolo, quasi tutta la crescita dei posti di lavoro negli Stati Uniti è avvenuta nei «servizi» a bassa produttività, e le recenti proiezioni del Bureau of Labor Statistics prevedono che il segmento del mercato del lavoro in più rapida crescita nel prossimo decennio sarà costituito da lavori a basso salario che non richiedono una formazione formale. Questa tendenza è disastrosa e aggrava una dinamica in atto da decenni. In un certo senso, siamo ancora coinvolti nel vortice creato dalla grande ondata di innovazione capitalistica che ha avuto luogo tra il 1920 e il 1960 circa. Io la chiamo «Automazione 1.0», ma questa ondata comprende lo sviluppo e la diffusione del motore a combustione interna, la costruzione di infrastrutture su scala capitalistica, le "promesse" e i pericoli dell'energia nucleare, oltre agli sviluppi più strettamente associati all'automazione delle fabbriche. Non è un segreto che, dalla metà degli anni '70, i salari reali dei lavoratori statunitensi si siano a malapena spostati. Molti attribuiscono questa stagnazione salariale di lungo periodo alla sconfitta dei sindacati avvenuta a partire dai primi anni Ottanta. È vero, i tassi di iscrizione ai sindacati si sono dimezzati negli anni successivi. Ma la sconfitta non è stata solo politica. Le condizioni materiali che hanno reso possibile il consolidamento del potere sindacale nei decenni del dopoguerra, hanno iniziato a erodersi a partire dalla metà degli anni Sessanta, con il cambiamento della composizione della classe operaia e della natura stessa del lavoro. La stagnazione salariale è stata strettamente legata all'inizio di un drammatico declino del tasso di crescita della produttività del lavoro. Il Bureau of Labor Statistics statunitense mostra che, nel periodo 1973-1990, la produttività dei lavoratori statunitensi è cresciuta a un tasso annuo di appena l'1,3%, una frazione dei guadagni registrati nei due decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
La crescita dei salari reali dei lavoratori richiede un aumento della produzione per ora lavorata. Per questo motivo gli accordi del dopoguerra tra capitale e lavoro negli Stati Uniti e in Europa collegavano esplicitamente gli aumenti salariali all'aumento della produttività: lavoratori e proprietari avrebbero "condiviso" i benefici dell'aumento della produzione oraria. Laddove tali guadagni sono difficili da ottenere, come da tempo accade in Europa, Nord America e Giappone, ogni potenziale aumento dei salari dei lavoratori porterebbe a un corrispondente calo dei profitti dei proprietari delle imprese. Questa prospettiva la classe capitalista l'ha combattuta e la combatterà con le unghie e con i denti. La natura mutevole del mercato del lavoro, della composizione di classe e del lavoro stesso ha avuto altri effetti paralizzanti sul movimento operaio. Poiché sempre più lavoratori sono assegnati a lavori nel processo di distribuzione piuttosto che in quello di produzione, o sono concentrati nei lavori a bassa retribuzione del cosiddetto settore dei servizi - nei negozi, nei call center, negli ospedali o nei centri di assistenza all'infanzia - essi sono dispersi in una miriade di industrie e, a differenza dei loro genitori e nonni, che erano spesso concentrati in grandi luoghi di lavoro, che riunivano migliaia di lavoratori, tendono a essere spazialmente dispersi, in luoghi di lavoro più piccoli, spesso lavorando con un capitale fisso molto ridotto. Se esiste un tratto caratteristico del vasto settore dei servizi, nel quale si concentra molto lavoro «improduttivo», si tratta di una caratteristica negativa: riunisce processi lavorativi concreti molto divergenti, il cui unico tratto comune è l'intensità del lavoro. Gli effetti «omogeneizzanti» della razionalizzazione capitalistica del nucleo produttivo sono stati una condizione materiale decisiva per la crescita delle dimensioni e del potere dei sindacati del dopoguerra.
Nei passati periodi di rapida industrializzazione, le scoperte tecnologiche in un settore industriale si sono rapidamente diffuse nelle linee di produzione, facendo convergere i processi di lavoro. I lavoratori, un tempo divisi per competenze, classe, regione, sesso e salari, si sono trovati a svolgere attività lavorative sempre più simili, con competenze e livelli salariali convergenti. Con l'erosione delle vecchie differenziazioni di competenze basate sull'artigianato, e la loro esternalizzazione nelle macchine su larga scala, e con la convergenza dei processi lavorativi e che ha portato a un aumento della produttività del lavoro, per i lavoratori è stato molto più facile definirsi come lavoratori in assoluto, definiti al di sopra e contro la classe capitalista, piuttosto che come dipendenti di una specifica azienda, le cui rimostranze erano espresse contro questo o quel padrone.
Con l'espulsione dei lavoratori dalle industrie centrali ad alta intensità di capitale, scompaiono le condizioni materiali essenziali per la coerenza di classe. Nonostante le speculazioni degli entusiasti dell'automazione, la maggior parte dei lavori del settore dei servizi rimane impermeabile - per sua stessa natura - alla meccanizzazione. E laddove sono suscettibili di meccanizzazione, i bassi salari prevalenti scoraggiano i proprietari di imprese dall'intraprendere grandi revisioni di queste attività (servizi di consegna, cassieri, guardie di sicurezza, pulizia di alberghi, corse di taxi). Gli scarsi incrementi di produttività, la persistenza di salari bassi, la natura stessa del lavoro (che per molti assume la forma di servizi alla persona), e soprattutto la mancanza di solidarietà, sono demoralizzanti per i lavoratori. Non danno l'impressione di formare una classe in senso positivo, di prefigurare una società futura da costruire a loro immagine e somiglianza. In queste condizioni, può prevalere tra loro un senso di conflitto accentuato, che si alimenta delle formazioni identitarie di lunga data (razza, etnia, genere) che li dividono. Durante la pandemia, queste divisioni si sono allargate fino a includere la distinzione tra coloro che sono considerati "essenziali", e quindi costretti a rischiare la vita per continuare a lavorare, coloro che hanno perso del tutto il lavoro e coloro, spesso dipendenti della classe media, che sono migrati facilmente verso le piattaforme online.
Nonostante l'erosione delle condizioni che avevano dato origine al vecchio movimento operaio, gli ultimi anni hanno visto iniziative straordinarie da parte dei lavoratori, sia nei luoghi di lavoro che nelle strade. Non dimentichiamo che nel 2019 è stata la minaccia reale di uno sciopero illegale dei lavoratori della TSA (Transportation Security Administration) - con i lavoratori delle compagnie aeree pronti a unirsi a loro - a porre fine allo shutdown del governo. Negli ultimi anni, anche gli insegnanti delle scuole pubbliche sono stati disposti a intraprendere azioni su larga scala; spesso hanno avuto luogo in Stati presumibilmente conservatori, ma hanno goduto di un sostegno popolare schiacciante. Gli insegnanti della scuola pubblica sono rimasti in gran parte estranei alla meccanizzazione che ha trasformato alcune industrie, e la loro posizione nella divisione sociale del lavoro conferisce loro uno straordinario potere sociale.
In Francia, di recente abbiamo avuto un assaggio di come può essere una rivolta in quello che Phil Neel chiama «l'entroterra», quando il movimento dei Gilets jaunes - con tutte le sue contraddizioni - ha preso di mira per mesi i centri cittadini e le rotonde. Dio aiuti la classe capitalista se i lavoratori dei centri di distribuzione e delle reti logistiche decidono di attaccare il flusso di merci nei porti e lungo le arterie delle reti just-in-time. Solo pochi mesi fa, le truppe della Guardia Nazionale pattugliavano le strade degli Stati Uniti sotto coprifuoco, mentre rivolte e manifestazioni contro la polizia si diffondevano in tutto il Paese in mezzo a una pandemia mortale. Il vero pessimismo, per concludere con una nota personale, è stato guardare centinaia di migliaia di persone manifestare contro l'imminente attacco all'Iraq nel 2002 e nel 2003, sapendo quanto queste "masse" fossero impotenti. Nonostante la miseria prevalente e persino il trauma inflitto dagli anni di crisi, oggi si ha la sensazione che potremmo essere sull'orlo di una vera e propria rottura. Ma qualunque siano le cifre della lotta nei prossimi anni, è improbabile che tornino ai modelli del movimento operaio al suo apice a metà del XX secolo. Nonostante tutto ciò che li ostacola, sia materialmente che politicamente, i lavoratori dovranno farsi strada a tentoni verso qualcosa di nuovo.

- Intervista pubblicata sul sito web di The Brooklyn Rail nel novembre 2020. -

fonte: CONTRETEMPS - REVUE DE CRITIQUE COMMUNISTE

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