Joseph Marti viene dalle «profondità della società umana, dagli angoli bui, silenziosi, meschini della grande città» e si accinge a varcare la soglia di un’imponente villa sul lago per prendere servizio come assistente dell’eccentrico ingegner Tobler. Si immergerà in un microcosmo borghese dove «famiglia e lavoro sono tanto vicini da toccarsi», abitato dalla sussiegosa moglie di Tobler, dalla ruvida serva Pauline e dai quattro figli che lo guardano «di traverso come un oggetto strano e sconosciuto». Un mondo, in realtà, destinato presto a sgretolarsi: nel volgere di una stagione Joseph – indimenticabile antieroe walseriano dall’esistenza simile a «una giacca provvisoria, un vestito che non calza bene» – assisterà al declino di «padron Toble», le cui dissennate invenzioni lo votano al fallimento. Come Joseph Marti, Walser sembra rivolgere il suo sguardo solo agli avvenimenti minuscoli, alla vita sparpagliata, a tutto ciò che è trascurabile. Il suo tono è leggero, puerile o divagante, il tono delle parole che passano e si cancellano da sole. Tutta la sua esistenza ci riconduce al Bartleby di Melville, l’impeccabile scrivano che non rivelava nulla e non accettava nulla, se non biscotti allo zenzero. «Nulla mi fa più piacere del dare una falsa immagine di me a coloro che ho rinchiuso nel mio cuore» scrisse una volta. E difficilmente potrà evitare l’equivoco su di lui chi non riconosca che ogni sua frase sottintende una precedente catastrofe. È quello che accade in questo romanzo-diario, «compendio di vita quotidiana svizzera», come egli stesso l’ha definito, dove Walser riesce miracolosamente a evocare l’abisso che all’improvviso può spalancarsi sulla liscia superficie di un placido lago, a raffigurarne l’orrore e insieme l’attrazione – raggiungendo uno dei vertici della sua arte.
(dal risvolto di copertina di: Robert Walser, "L’assistente". Adelphi. Traduzione Cesare De Marchi pagg. 237 euro 19)
L’uomo senza qualità
- di Melania Mazzucco -
L'assistente di Robert Walser, pubblicato nel 1908, tradotto in italiano nel 1961 dal grande germanista Ervino Pocar, viene riproposto ora da Adelphi, che già edita le altre sue opere, nella nuova cristallina traduzione di Cesare De Marchi: Walser - venerato da Canetti e Sebald, raffinatissimo e difficile nell’ingannevole levità - la merita. Il suo protagonista, smarrito nel disordine di un mondo indecifrabile, è l’impiegato più indifeso, l’inetto più convincente della letteratura novecentesca mitteleuropea (che pure ne abbonda). Joseph Marti è infatti un giovane di 24 anni, senza carattere e senza qualità: uno che «dava sempre l’impressione di non essere che un lembo, un’appendice fugace, un nodo stretto solo temporaneamente», «un bottone ciondolante che non ci si dà la briga di attaccare» (lui si definisce “ottuso”, “testa vuota”, “scervellato”, “impostore”). Nella prima pagina prende servizio a Villa della Stella vespertina, su una collina a dominio del lago, in quello che crede l’ufficio tecnico di una ditta commerciale fiorente, diretta dall’autoritario signor Tobler. Ingegnere meccanico, si è messo in proprio, con l’ambizione di completare la scalata sociale iniziata con l’acquisto della villa. Joseph ci arriva senza illusioni e senza volontà (lo manda l’ufficio di collocamento).
Ha solo una valigia e un ombrello, non ha radici, non ha legami (appena un’amica socialista, e genitori cui pensa di rado), un passato qualunque (un lavoro in una fabbrica di tessuti elastici, il servizio militare) e nessun futuro. Per sei mesi (dall’estate a Capodanno), lui che «non è mai stato di casa in nessun luogo», si assoggetta a un lavoro che lo mortifica ma via via lo appassiona (servire gli piace), e a una famiglia accogliente e apparentemente felice ma che invece sta cessando di essere tale (Tobler ha una bella moglie snob, quattro bambini e una domestica rozza e prepotente). Tuttavia questo non è un romanzo di formazione, e Joseph se ne andrà libero e inconsistente così come è venuto.
Walser scrisse L’assistente a Berlino, senza sforzo, senza disegno, con l’impareggiabile leggerezza che impresse in ogni pagina. A Carl Seelig, critico, amico e sostenitore, che nel 1957 riportò le loro conversazioni nel volume Passeggiate con Robert Walser, disse di considerarlo «un romanzo assolutamente realistico. Non ho dovuto inventare quasi nulla. La vita lo ha creato per me».
La trama - meno impalpabile di quanto sembra - ricalca in effetti l’esperienza dello scrittore svizzero, cui nel 1903 capitò di lavorare per un ingegnere meccanico, nella sua villa di Wädenswil, sul lago di Zurigo. E Joseph è indubbiamente una delle tante incarnazioni di Walser stesso. Però oggi il romanzo non ha per noi niente di realistico. L’atmosfera è minacciosa e claustrofobica come nel castello e nel tribunale di Kafka e nel collegio di Musil, che infatti ammiravano Walser. Incombe un senso di imminente rovina, riflesso dell’attitudine dell’assistente (e dell’autore) verso il mondo: una «afflizione spensierata e un’armoniosa fatalità». Le descrizioni della Svizzera sono di una precisione lancinante che anticipa quelle di Frisch e Dürrenmatt (si veda l’umorismo nero nel compiacimento per le belle case barocche, le fabbriche e la “brava gente di Bärenswil”, il racconto della festa nazionale del primo agosto o la miseria delle domeniche popolari). Ne è simbolo e correlativo oggettivo l’inquietante feticcio che rappresenta il sogno del padrone e l’ossessione dell’impiegato: l’orologio-réclame. Tobler vorrebbe venderlo a tutte le stazioni ferroviarie e gli uffici del paese. Quell’orologio svizzero con le ali d’aquila da decorare con la pubblicità segnerebbe con perfida precisione il vacuo
tempo degli altri. Ma il tempo di Joseph è un altro: e solo la natura – l’avvicendarsi delle stagioni – lo misura. Tra gli alberi del bosco e nei vicoli del capoluogo vagabonda in cerca del senso perduto delle cose. Niente è infatti come sembra, il lindore della villa e del paesaggio mascherano disamore, invidia, disprezzo e fallimento, i vicini sono mostri di insensibilità e ingratitudine, la brava madre borghese odia la figlia minore e permette alla serva di maltrattarla, pure se è solo una bambina. E il padrone cui si sottomette e che vorrebbe odiare, è anche un inventore visionario che rispetta. Tutti gli oggetti che brevetta, dall’orologio alla sedia ospedaliera, dalla trivella di profondità al distributore automatico di cartucce, nella loro inutilità sono perfetti per la brava gente là fuori, ma non verranno mai venduti. L’ordine e il decoro su cui s’impernia la vita dei Tobler vacillano, scricchiolano, rosicchiati dalle cambiali, dai debiti, dai meccanismi sociali e dall’assurdità. Walser non giudica: affida alle parole l’evanescenza del presente e la precarietà della vita.
Come il suo assistente, Walser attraversò con «perniciosa spensieratezza» la propria esistenza, indossandola «come una giacca provvisoria». Mai di casa in nessun luogo, traslocando sempre, senza legarsi a nessuno, lavorando se necessario, camminando senza tregua per sfuggire agli ingranaggi di un sistema cui era totalmente refrattario. Quando rinunciò al proprio Io, accettò di farsi ricoverare in manicomio, per «sparire fra la gente». Ma non smise di scrivere, perché solo le parole ormai erano reali. Si dileguò e si dissolse in esse, scrivendo a lapis migliaia di storie, versi e personaggi su biglietti e minuscoli pezzi di carta: quei muri di lettere indecifrabili dovevano proteggerlo e metterlo in salvo. Con L’assistente Adelphi completa il catalogo dei capolavori di questo elusivo maestro del Novecento. Mi auguro che traduca i Mikrogramme – ultimo enigmatico canto di un funambolo della vita.
- Melania Mazzucco - Pubblicato su Robinson del 7/5/2022 -
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