Il fascismo è il grande rimosso del nostro paese. Se ne parla sempre ma non se ne parla mai davvero. Attualizzato o sminuito, sempre e comunque in qualche modo travisato da forme di revisionismo più o meno subdole. Ma il fascismo è stato qualcosa di molto complesso e di ben piú inquietante; e se aguzzassimo la vista oggi lo potremmo scovare dove meno ci si aspetterebbe di trovarlo. In queste pagine sono raccolti gli scritti più illuminanti dedicati da Antonio Gramsci all’ascesa del regime fascista. Scritti che ne rivelano i legami con le grandi trasformazioni che attraversavano le società capitalistiche, e che mettono al centro le classi sociali, i tempi della storia, le forme del comando e i processi di modernizzazione fordista. Scritti che mostrano l’evoluzione di un pensiero d’avanguardia, sempre vigile e acuto malgrado l’isolamento e le sofferenze della prigionia. Un pensiero a cui tornare ogni volta, per sorprendersi di quanto possa continuare a parlarci con la stessa attualità.
(dal risvolto di copertina de: "Il popolo delle scimmie. Scritti sul fascismo", di Antonio Gramsci. Einaudi, 280 pp. 13€)
Il fascismo discreto della borghesia
- di Marco Revelli -
Il celebre articolo che dà il titolo a "Il popolo delle scimmie", fu pubblicato senza firma su L'Ordine Nuovo del 2 gennaio 1921, praticamente alla vigilia del Congresso di Livorno. Il popolo in questione è la «piccola borghesia urbana», conglomerato sociale riscontrabile in tutte le società tardo-ottocentesche e primo-novecentesche, ma in Italia presente in una dimensione pletorica ed eccedente, coinvolta in tutte le forme corruttive della vita politica, dal trasformismo fino appunto al fascismo. La metafora letteraria è offerta, come è noto, dalla seconda novella del Libro della giungla di Kipling, Kaa's Hunting (La caccia di Kaa), il vecchio pitone nemico giurato del branco di scimmie che infesta la giungla con il proprio insopportabile chiacchiericcio: fatue, vanagloriose, esibizioniste, aggressive e servili, incapaci di serietà e di progetto ma ambiziose fino al grottesco. Sono le Bandar-Log, l'unico gruppo della giungla che «non ha legge. Non ha casta. Non ha lingua sua, ma si serve di parole rubate, che coglie al volo quando ascolta e spia stando in agguato in alto fra i rami». Come spiegherà l'orso Baloo al giovane figlio dell'uomo, «le sue usanze non sono le nostre usanze. Non ha ricordi e ha la pretesa di essere un gran popolo, destinato a fare grandi cose nella giungla, ma una noce che cade fa volgere le loro menti alle risa, e tutto è dimenticato». Da loro non ci si può aspettare «nulla, fuorché parole sciocche e piccole mani svelte di ladruncoli».
Il libro era stato tradotto in italiano fin dal 1903, ed è probabile che Gramsci l'avesse letto in questa versione, ma avrebbe anche potuto averne conosciuto l'originale in inglese. Certo è che Kipling è un autore fortemente presente nella formazione anche caratteriale del giovane Gramsci (significativo il fatto che per firmare alcuni articoli giovanili usasse lo pseudonimo di Raksha, il nome della lupa che aveva fatto da mamma al piccolo Mowgli). Non stupisce che il riferimento a questo testo compaia con tanta centralità in uno dei suoi più importanti scritti di analisi psico-sociologica. Naturalmente Gramsci non è l'unico, nel campo comunista, a focalizzare la propria attenzione sul ruolo della piccola borghesia nella nascita e nello sviluppo del fascismo. I tedeschi soprattutto, e tra loro in particolare l'ex spartachista Clara Zetkin, avevano sottolineato con forza quanto il fascismo fosse il prodotto dei catastrofici progressi di disintegrazione sociale e di decadimento dell'economia capitalista, e tra questi, con un ruolo di rilievo, lo sradicamento e lo spostamento di grandi masse di piccola borghesia radicalizzata prima e poi tradita e delusa dei compromessi socialdemocratici e dalla «rivoluzione mancata» e per questo riversatisi nel campo della reazione. La Zetkin aveva scavato a fondo, in direzione simile a quella di Gramsci, attenta ai percorsi (evitabili ma non evitati) lungo i quali «il fascismo è diventato una sorta di rifugio per coloro che sono politicamente sradicati» grazie anche all'uso spregiudicato del gesto rivoluzionario con cui catturava lo scontento di massa mettendolo al servizio delle stesse classi dominanti che fingeva di combattere. Ma resta il fatto che l'analisi gramsciana della piccola borghesia e del suo ruolo tanto negativo quanto significativo nella crisi italiana del dopoguerra conserva una profondità e una capacità di profilarne con raffinata sensibilità le dimensioni non raggiunte da altri interpreti. La cosa è particolarmente evidente per quanto riguarda il peso assunto da questo strato senza classe, nelle gravi storture del sistema politico e sociale italiano: il «cretinismo parlamentare» prodotto dalla specializzazione del ceto medio in «pura classe politica», la corruzione del Parlamento divenuto «una bottega di chiacchiere e di scandali», organismo «corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo» privato di «ogni prestigio presso le masse popolari». Ma ha anche un suo significativo spessore, questo ruolo nefasto del piccolo borghese, per quanto riguarda la svolta radicale maturata alla vigilia della guerra, quando il popolo delle scimmie rivela la propria autentica natura di Bandar-log nelle «radiose giornate di maggio» in cui la turba urlante «di chiacchieroni, di scettici, di corrotti» d'un colpo «diventa antiparlamentare» e cerca di corrompere la piazza, come prima aveva corrotto il Parlamento, «con uno strano e bislacco miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista, di vero rivoluzionarismo, di sindacalismo nazionale». Conferma dell'intreccio di «crudeltà e di assenza di simpatia» che costituiscono «due caratteri peculiari del popolo italiano, che passa dal sentimentalismo fanciullesco alla ferocia più brutale e sanguinaria, dall'ira passionale alla fredda contemplazione del male altrui».
È così - concluderà Gramsci - che «questa attività della piccola borghesia diventa ufficialmente fascismo», senza tuttavia, neppur ora, riuscire ad affermarsi realmente come padrona del potere, ma limitandosi a servirne altri, più forti, più in alto, perché comunque il popolo delle scimmie «riempie la cronaca non crea la storia, lascia tracce nel giornale. non offre materiale per scrivere libri». Finita la lettura di questi testi gramsciani, la si potrà considerare un'utile. e sofferta, lezione di storia, focalizzata su quel tempo del ferro e del fuoco che fu la prima metà del Novecento. E tale è, senza dubbio. Tuttavia è difficile chiudere il libro senza portarsi dietro un'ombra: quasi il senso di una vicenda non sepolta nell'involucro del suo passato, la quale finisce per lasciar filtrare, in chi la ripercorre rileggendola, il soprassalto che si prova quando s'intuisce che de te fabula narratur. Così è per quell'intrusivo senso di vuoto e di dissoluzione che domina le riflessioni di Gramsci nella lunga vigilia che precede l'avvento del fascismo, tanto simile, almeno dal punto di vista morfologico, allo spaesamento attuale foriero di nuove, impetuose ondate di irrazionalità. Allo stesso modo, non può non inquietare la posizione cruciale di quel popolo delle scimmie, per la consapevolezza che esso costituisce una sorta di sottofondo socio-antropologico carsicamente risorgente a ricordarci le nostre tare storiche e i vizi di un carattere nazionale segnato dalla fragilità etica e politica, essendo, per troppi aspetti, il protagonista di quella gobettiana autobiografia della nazione che non è finita nel '45. È, in fondo, quell'aggregato aggressivamente fatuo che abita la «città perduta», uno degli ingredienti principali di ciò che Umberto Eco ha chiamato il «fascismo eterno» o, detto più dottamente, l'Ur-fascismo: un atteggiamento prima che un regime, una costante caratteriale collettiva prima che una formazione storica, che per questo non si lascia rinchiudere in un passato definitivamente trapassato, ma estende le proprie minacce nella longue durée. «L'Ur-fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili», scriveva una ventina d'anni fa uno dei più autorevoli intellettuali del nostro Paese, e «può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l'indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte de mondo». Per queste ragioni, e per altre ancora, questo libro non può essere riposto nella biblioteca serenamente.
- Marco Revelli - Pubblicato sulla Stampa del 3/5/2022 -
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