«Adorno a Puebla»
di John Holloway
Non sappiamo esattamente in che data Theodor Adorno arrivò a Puebla, e neppure come ci fosse arrivato. C'è che dice che sia arrivato passando dalla Grecia e grazie al suo allievo Kosmas Psychopedis. Altri raccontano l'abbia fatto attraverso l'Argentina e durante la rivolta del 2001/2002. L'unica cosa che sappiamo di sicuro è che era stato visto ad un incontro nella Selva Lacandona con il comando zapatista, poche settimane prima di arrivare a Puebla. Lo sappiamo perché l'incontro è stato ben documentato in una articolo di Sergio Tischler dal titolo: “Bakhtin e Benjamin nella Selva Lacandona”. È vero che Sergio in questo articolo non parla di Adorno, ma appare evidente a tutti quelli che erano presenti che ci fossero anche Ernst Bloch e Theodor Adorno. Probabilmente Sergio non li ha visti a causa dei passamontagna che indossavano. Sia come sia, sappiamo che Adorno arrivò a Puebla poche settimane dopo, durante un primo di novembre circa trent'anni dopo la sua morte, così come sappiamo che gli piaceva così tanto la hojaldra y el mole che decise di restare. Conosceva Sergio fin dall'incontro in Chapas, ed è per questo che si fermò ad assistere al seminario sulla Soggettività e la Teoria Critica. Da allora è diventato una presenza costante.
Il soggiorno in Chapas ha avuto senza dubbio un'influenza decisiva sulle idee di Adorno dopo il suo arrivo a Puebla. Lì trovò, nella pratica dei zapatisti, qualcosa che aveva cercato per tutta la vita, soprattutto dopo Auschwitz: la speranza in un mondo dove davvero non c'è più speranza. È questo il tema centrale della sua Dialettica Negativa. Adorno non è Bloch: non torna dall'esilio dicendo che «ora dobbiamo imparare la speranza». Il tono è molto più negativo: «come possiamo continuare a vivere quando sappiamo che l'unica ragione per cui restiamo vivi è che condividiamo la disumanità che ha reso possibile questa catastrofe?» Il tono è negativo ma non disfattista. La sua opera è una continua ricerca, la ricerca di una via d'uscita per un mondo che si sta chiudendo, una via d'uscita che si sta chiudendo.
Ecco perché ci interpella in maniera così diretta. Ecco perché rimaniamo affascinati da lui, nonostante tutto, malgrado la sua impenetrabilità. Ora, nel 2019, nel Messico e in tutto il mondo viviamo sul filo del rasoio, sospesi tra speranza e disperazione, e Adorno tutto questo lo esprime meglio di chiunque altro. Come fare a continuare a vivere, in un mondo in cui osserviamo tutti gli orrori del Messico, dell'Argentina, del Brasile, della Germania, della Gran Bretagna, della Spagna, del mondo in cui viviamo ogni giorno?
Come continuare a vivere? Come fare a trovare una speranza? La risposta di Adorno è nei termini dell'identità e della non identità. Auschwitz è stata l'espressione suprema del pensiero identitario. L'identità materiale e concettuale nasce dall'equivalenza inerente al scambio di merci. In questo modo, Adorno estende la critica che fa Marx nel secondo capitolo de Il Capitale. Marx dice che se abbiamo una società basata sullo scambio di merci, avremo una personificazione degli esseri umani, vale a dire, un'astrazione e un'individualizzazione degli esseri umani riguardo a quello che è il loro ruolo sociale in quanto portatori di merci. Credo sia questa l'idea che Adorno sviluppa nella sua critica filosofica dell'identità. Il capitalismo si caratterizza per il dominio dell'identità, come momento del dominio della merce. Il dominio dell'identità è allo stesso tempo il dominio della logica formale, di questa derivazione o concatenazione logica mortale che si trova al centro della critica di Marx al Capitale. La ricchezza umana, questo meraviglioso movimento assoluto del divenire umano, esiste - ci dice Marx fin dalle prime righe del Capitale - sotto forma di merce. Da una tale base sociale deriva una sequenza di morte: se c'è merce, allora abbiamo valore; se abbiamo valore, dunque lavoro astratto; se lavoro astratto allora denaro; se c'è merce-valore-lavoro astratto- denaro, ecco identità, interviene Adorno, e continua poi Marx: quindi capitale; se c'è capitale, allora sfruttamento; se sfruttamento, ecco che abbiamo accumulazione; e qui arriva Pasukanis che aggiunge: se c'è merce, e tutto il resto, ecco allora Stato; e noi possiamo continuare: se c'è accumulazione, ecco che abbiamo distruzione della campagna e delle altre forme di vita; se c'è accumulazione allora c'è guerra; se c'è accumulazione c'è riscaldamento globale; se c'è riscaldamento globale c'è annientamento. È questa logica identitaria, questa logica totalitaria, che va integrando questa logica formale che oggi stiamo vivendo: se c'è merce allora c'è annichilimento umano o, per essere ancora più chiari: se continua ad esistere il dominio del denaro saremo costretti a proseguire lungo la strada dell'estinzione.
Dov'è la vita in una simile sequenza fatale? Dov'è la speranza di un mondo degno di essere vissuto? Nella non-identità, in tutto quello che rompe con l'identità.
Nello stesso modo in cui, nel Capitale, Marx elabora un mondo soggiacente e latente, fatto di ricchezza, di valore d'uso, di lavoro concreto (ma senza che esso mostri realmente quello che è il suo potenziale rivoluzionario), anche per Adorno esiste un mondo sovversivo, nascosto, un anti-mondo, il mondo della non identità. Forse sarebbe meglio parlare di anti-identità, perché è ovvio che esiste un antagonismo tra l'identità e la non identità, ma egli non usa questo termine (o almeno non lo usava prima di arrivare a Puebla). La non identità è tutto ciò che non rientra nell'identità, tutto quello che trabocca, ciò che non si lascia sottomettere dentro l'identità totalizzante, una forza sotterranea, sovversiva, particolarizzante.
Noi riconosciamo le non identità. Le riconosciamo perché, con altri colori, le abbiamo visto in Bloch, come un non ancora, come se questo mondo che non potrebbe esistere esistesse già come un non ancora, in quanto forza del potenziale che viene negato. Ma qui, con Adorno, la non identità non è tanto un sogno quanto piuttosto una minaccia, una forza minacciosa, un pericolo. Una minaccia per loro, per i dominatori, per le identità. La ragione borghese, identitaria, «ha avuto paura del caos. Ha tremato davanti a quello che, al di sotto della sua sfera di dominio, insisteva nella minaccia e si rafforzava in proporzione al suo stesso potere» (Akal, pag.31). Quello che per loro è minaccia, per noi è speranza, è questa forza caotica non identitaria che continua ad esistere qui, sotto la sfera del dominio dell'identità, e rimane minaccioso e si rafforza in maniera proporzionale al potere dell'identità. Riconosciamo la non identità, perché lo siamo. Siamo noi questa minaccia che non fa parte dell'identità, che trabocca da essa, siamo noi la forza caotica e minacciosa che incute paura al dominio dell'identità, questa forza che si rafforza proporzionalmente al potere dell'identità, al potere del capitale. La Dialettica Negativa è una ricerca, un tentativo di recuperare teoricamente la forza della non identità che assai spesso perdiamo di vista. «La dialettica è la coscienza conseguente della non identità» (Akal, pag.17).
L'opera di Adorno è, alla fine, un inno alla non identità, a tutto quello che non si adatta, a ciò che non è subordinato al dominio dell'identità, al dominio del denaro. Adorno è profondamente anarchico, sebbene io sospetti che prima di arrivare a Puebla non se ne sia mai reso conto. Una domanda chiave per un congresso su Adorno (in particolare, un congresso su quell'Adorno che ha continuato a crescere dopo essere morto) attiene al significato politico della non identità. Se il dominio del capitale è il dominio dell'identità, allora una politica anticapitalista non può essere altro che una politica anti-identitaria. Ma cosa significa questo? Adorno non ci è molto di aiuto. Quel che sorprende è che la questione non sia mai stata sollevata nel corso della sua vita. Per esempio, nel documento in cui parla con Horkheimer sulla possibilità di scrivere insieme un manifesto comunista, non parla di una politica anti-identitaria. Sembra che egli abbia concepito la questione dell'identità solamente in termini filosofici. E in ciò credo che il suo dialogo con gli zapatisti sia stato molto importante: gli aperto un'altra forma di pensare alle implicazioni politiche delle sue idee filosofiche. Quindi la domanda che ci viene posta: che cosa significa dire che la politica anticapitalista va intesa come politica anti-identitaria? Non ha una risposta, ma diverse idee:
Innanzitutto, si tratta di una politica della latenza, che parte da ciò che è nascosto, da ciò che non è sottomesso ed esiste sotto la superficie. In questo, riconoscimento e sensibilità giocano un ruolo importante: il riconoscimento delle molteplici forme di mancanza di sottomissione in noi e negli altri, il rifiuto di squalificare gli altri solo perché in superficie appaiono essere sottomessi. Questo processo di riconoscimento e di visibilizzazione ha svolto un ruolo importante negli ultimi trent'anni (donne, indigeni, gay, ecc.) in quanto ci sono sempre delle resistenze che non riconosciamo. Una politica della latenza è una politica di tutto ciò che esiste sotto la superficie, che lotta dentro, contro e oltre il primato del soggetto, il primato dell'identità. È chiaro che la non identità, ciò che è latente, si trova ad essere contaminato dal soggetto, dall'identità. Sarebbe assurdo pensare ad una purezza rivoluzionaria, sarebbe un modo di riprodurre il pensiero identitario, capitalista.
Una politica anti-identitaria è una politica di resistenza e di ribellione. L'identità è un attacco costante, un processo di identificazione, di totalizzazione, di subordinazione alla logica della distruzione. È per questo che la non identità dev'essere intesa come anti-identità, come resistenza attiva. L'identificazione è un attacco totalizzante, omogeneizzante, ed è questo il motivo per cui la resistenza anti-identitaria è una lotta de-totalizzante che cerca di creare un mondo fatto di molti mondi che cerca a sua volta di emancipare quelle differenze che ora non possono esistere come differenze, ma solo come contraddizioni. Pensare una politica di differenze, ci invita a pensare ad una moltitudine di lotte diverse, ciascuna dalla propria parte: lotta di donne, lotta di indigene, lotta di ecologisti, ecc. Questa è una tendenza molto forte nelle attuali politiche di resistenza, ma ci appare come se fosse pericolosa, in quanto ci impedisce di vedere l'unità di un attacco che ci sta spingendo all'estinzione, ci impedisce di vedere il primato del soggetto, l'unità e la forza dell'aggressione monetaria-capitalista-identificante.
Una politica anti-identitaria si oppone ad una politica delle differenze, all'idea della resistenza vista come una moltitudine di identità distinte: donne, indigene, curdi, neri, ecc. È chiaro che c'è un flusso costante di ribellione, che a volte la grande spinta contro il dominio può apparire palpabile in un luogo piuttosto che in un altro, ora è in Rojava, in Cile, in Ecuador, Colombia, Chiapas, Hong Kong, l'attuale lotta delle donne in tanti posti diversi, ma nel momento in cui queste lotte assumono un'identità si perdono. Il grande merito degli zapatisti, è stato quello di rifiutare l'etichetta di una lotta indigena e proclamare di essere indigeni e molto altro.
Una politica anti-identitaria è una politica che si oppone alle definizioni, anti-classificatoria, anti-istituzionale, antistatale, irrequieta, è una ricerca incessante, un rifiuto dell'idea che ci possa essere già una risposta. Non abbiamo nessuna risposta. Continuiamo a rimanere seduti in un treno logico-identitario che ci sta portando verso l'estinzione. Ed è per questo che è importante parlare di Adorno a cinquanta anni dalla sua morte, e circa venti dopo dal suo arrivo a Puebla.
- John Holloway, novembre 2019.
Este texto pertenece a la Conferencia inaugural en el Congreso «La Teoría Crítica: 50 años después de Adorno», Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades Alfonso Vélez Pliego, Posgrado de Sociología, BUAP, Seminario Subjetividad y Teoría Crítica, Puebla, México, 27 de noviembre de 2019. Enviado por el autor para su publicación en Comunizar.
fonte: Comunizar