«La corrente "anti-sviluppo" – o "post-sviluppo" – emerge negli anni tra i '70 e gli '80, e lo fa in quello che è un evidente un contesto di crisi del paradigma di sviluppo, il quale aveva dominato il pensiero economico e politico, a partire dalla seconda guerra mondiale. Le promesse di sviluppo – crescita, industrializzazione, progresso sociale – finiscono in quegli anni per apparire sempre più illusorie, se non addirittura distruttive: degrado ecologico, dipendenza economica, acculturazione, omogeneizzazione culturale. Questa corrente critica, affonderà le sue radici nelle riflessioni di pensatori come Ivan Illich, François Partant, Gilbert Rist, Majid Rahnema, Arturo Escobar, Wolfgang Sachs, Gustavo Esteva e Serge Latouche; ma anche in quelle di Jacques Ellul e di Bernard Charbonneau, i quali saranno pertanto i precursori di una critica della tecnologia e della società industriale. In varia misura, tutti loro denunciano lo sviluppo, in quanto ideologia occidentale dominante di crescita illimitata; e pertanto richiedono un ripensamento di quelli che sono i fondamenti stessi del progresso e della modernità. Molti autori del cosiddetto "post-sviluppo", però, da parte loro, operano a livello ideologico, culturale o normativo (vale a dire, riconoscimento, conoscenza locale, tecnologia user-friendly), e tuttavia non articolano in maniera sistemica le diverse dinamiche interne della valorizzazione: il modo in cui, socialmente ed economicamente, il valore si riproduca e controlli le trasformazioni globali. Senza questo strato (la forma-valore), esiste il rischio che si finisca per trattare solamente i diversi sintomi (acculturazione, dominazione epistemica) senza però mai attaccare il motore strutturale che tali sintomi li produce.
Valorizzare la conoscenza vernacolare è prezioso, ma la critica portata avanti da Robert Kurz e da Roswitha Scholz viene a ricordarci che si debba evitare la nostalgia acritica: le società pre-capitalistiche avevano anch'esse delle gerarchie, così come delle esclusioni e delle relazioni di genere non poco problematiche. La domanda rimane sempre quella di come poter rompere la logica dell'accumulazione e della dissociazione, piuttosto che tornare a un passato idealizzato. Così può avvenire che tutte queste prescrizioni, che vengono spesso promosse (autonomia locale, cortocircuiti, saperi indigeni), possano alla fine arrivare semplicemente a coesistere con quella che sarebbe nient'altro che mercificazione, oppure potrebbero limitarsi a diventare solamente delle nicchie di consumo per classi urbane critiche: senza essere in grado di rompere con la logica della valorizzazione, queste soluzioni continuano a rimanere solamente parziali. Quel che è necessario fare, è esporre qual è la condizione della possibilità delle diverse "ideologie dello sviluppo", le quali non possono essere ridotte semplicemente a errori, oppure a semplici credenze o imposture. Rispondono tutte quante a una logica che deve assicurare, a livello sistemico, la riproduzione e l'accumulazione del capitale. I pensatori post-sviluppo, hanno fornito diagnosi culturali, epistemologiche e normative essenziali, ma assai spesso tendono tuttavia a ipostatizzare questi livelli, spingendo così a una culturalizzazione del sociale. Si tratta invece di fondare la questione dello "sviluppo", ponendola al livello della forma sociale che produce accumulazione, disuguaglianze e distruzione ecologica, al fine di pensare, in modo sostenibile, l'uscita dalla logica dello sviluppo.
Come dire, il freno d'emergenza di Benjamin, sì, ma anche, come diceva Debord: "Rivoluzione o morte".»
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venerdì 14 novembre 2025
Contro lo Sviluppo !!
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