Per lo storico Omer Bartov, la memoria dell'Olocausto ha oscurato la Nakba ed è diventata parte del proseguimento della catastrofe palestinese: nel suo ultimo libro, cerca pertanto di riuscire a collocarle nel medesimo contesto storico e morale. Qui, Eva Illouz ci offre un lettura di tale operazione, e lo fa mettendo in discussione gli occhiali politici di Bartov, chiedendosi fino a che punto il raffronto sia ragionevole, e che piuttosto non distorce gli oggetti che intenderebbe unire tra loro?
Omer Bartov e i limiti del confronto storico
- Recensione di "Genocide, the Holocaust and Israel-Palestine: First-Person History in Times of Crisis"" (Bloomsbury Academic) di Omer Bartov -
di Eva Illouz
Questo libro, è composto da diversi libri insieme: da un saggio storiografico, da un appello politico e da una testimonianza personale. In tal modo, mette in discussione quella che è l'interpretazione eccezionalista dell'Olocausto, così come la riduzione di questo evento, nel momento in cui esso viene invece piuttosto concepito come se fosse un caso unico, visto all'interno di un quadro più ampio di "genocidio coloniale". Quello che fa Bartov, è piuttosto di invitarci ad affrontare l'Olocausto vedendolo in una tensione fertile, tra la sua singolarità e la sua comparabilità con le altre forme di genocidio, tenendo allo stesso tempo conto degli attributi specifici di ciascun genocidio. Nel contesto degli studi postcoloniali, nei quali viene respinta la presunta pretesa di singolarità dell'Olocausto, trattandolo come se non fosse stato altro che l'ennesimo massacro coloniale europeo, questa proposta diventa benvenuta. Essa, ha il valore di preservare la singolarità dell'evento, senza però cedere alla strumentalizzazione della memoria inserendola in una sorta di contesto delle competizioni tra le vittime.
Una storia dell'Olocausto a livello locale
Nei migliori capitoli, viene a essere esaminata quella che è la specificità geografica e culturale dell'Olocausto, nell'Europa dell'Est, un progetto rispetto al quale Timothy Snyder ha contribuito in modo significativo con il suo "Bloodlands" (2010), ma dove tuttavia rimane ancora molto da fare. Particolarmente utile, è l'attenzione che viene rivolta alle dinamiche innescate dalle radici locali: per Bartov, l'Olocausto non è solamente un massacro industrializzato compiuto burocraticamente, ma è anche un evento intimo e comunitario, strettamente intrecciato con le relazioni di vicinato, e persino relative anche alla vicinanza che gli occupanti nazisti instaurarono con le loro vittime ebraiche. Qui, l'opera di Bartov si incrocia con il decisivo "Neighbors" (2000), di Jan Gross, il quale esplorava il massacro di 1.600 ebrei a Jedwabne nel 1941, compiuto con la partecipazione attiva ed entusiasta dei loro vicini. Bartov, si concentra invece su Buczacz, nella Galizia orientale (da dove proviene la famiglia dello storico), e scopre i molteplici modi in cui i suoi 60.000 ebrei vennero sterminati, e questo malgrado ci fosse una presenza tedesca minima. Alla luce della Microstoria, viene mostrato come almeno la metà delle vittime ebree venne uccisa dentro, o vicino alle loro case, e non nei campi, ma neppure su ordine diretto, bensì da persone che essi conoscevano. Questa narrazione, mette in discussione l'idea preconcetta di un'impresa burocratica, anonima e assassina, e mette piuttosto in evidenza il ruolo avuto dalle dinamiche comunitarie nella sua attuazione. Particolarmente preziosa, appare la sua nozione di "luoghi di non-memoria" – quali le sinagoghe abbandonate – poiché mostrano la graduale cancellazione della precedente presenza ebraica. Bartov è uno storico rigoroso, che mobilita le testimonianze dei sopravvissuti, carnefici e testimoni. Non è l'unico ad aver seguito la via della storia testimoniale, ma si dimostra esemplare nella sua meticolosità. Prestando attenzione costante alle esperienze vissute, e alle interazioni concrete, questa storia dal basso ci offre una visione più multidimensionale di quella che è stata una catastrofe la cui portata si è vista troppo spesso ridotta alla macchina ufficiale (e lo fa revisionando e sostituendo la lettura canonica di Hannah Arendt). In tal modo, rende più comprensibile un fenomeno che ha stupito le menti per il grado e per l'entità della sua irrazionalità. L'analisi dei tribunali del dopoguerra, apre la strada al secondo tema del libro: la costruzione e l'uso di una memoria distorta. Nel dopoguerra, i tribunali tedeschi aiutarono a eludere le responsabilità, e lo fecero, percependo assai spesso i responsabili come se fossero stati solo dei semplici ingranaggi di una vasta macchina, se non addirittura come se fossero anch'essi delle vittime a loro volta, evadendo in tal modo la questione della loro complicità. Sono state anche messe in discussione le testimonianze delle vittime. Le aule di tribunale, ancora piene di ex nazisti, hanno pertanto così formato una memoria selettiva, e delle narrazioni collettive fuorvianti, relative a colpevolezza e a responsabilità. Tutto questo prepara la discussione in quei paesi che hanno messo in pratica una memoria selettiva; tra i quali Ucraina, Polonia, Turchia e Israele. Ciò che tutti essi hanno in comune, è l’avere approvato leggi che criminalizzano alcune narrazioni commemorative (la "legge sull'Olocausto", polacca, del 2018, la quale limita l'evocazione del ruolo avuto dai polacchi nella distruzione degli ebrei; l'Ucraina, che glorifica i combattenti complici dei nazisti; la Turchia, che vieta la menzione del genocidio armeno; e in Israele, la cosiddetta "legge Nakba", la quale criminalizza la commemorazione della Nakba). Queste leggi, sostiene Bartov, hanno aiutato tali nazioni a eludere la propria responsabilità morale relativa alla pulizia etnica o al genocidio.
Quando la memoria diventa politica
L'ultima parte – che confronta i sopravvissuti ebrei sfollati dall'Europa, da una parte, e i palestinesi sfollati dalla Nakba (1948), dall'altra – viene goffamente articolata con le precedenti, dal momento che essa cerca di collegare la Germania nazista e il Medio Oriente per mezzo del prisma della memoria. Qui, Bartov supera una linea, quella che separa una ricerca archivistica attenta da quelle che sono delle controverse dichiarazioni politiche. Il X°capitolo, si legge come un saggio intimo che ripercorre l'itinerario compiuto da Bartov. Figlio di sopravvissuti all'Olocausto in Israele, divenne uno storico della Wehrmacht – dimostrando così la complicità di quest'ultima nei crimini nazisti – e della città natale di sua madre, Buczacz. Probabilmente è stato proprio questo interesse per la Wehrmacht a portarlo a scrivere, nel 1987 durante la Prima Intifada, una lettera a Yitzhak Rabin (allora Ministro della Difesa), avvertendolo del fatto che l'esercito israeliano rischiava di compiere atti di barbarie morale ed etica, paragonabili a quelli dell'esercito tedesco sotto il nazismo (una lettera che egli cita molto spesso). Ai suoi occhi, gli anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1948, quando fu creato lo Stato di Israele, furono fatali: fu lì che gli ebrei perseguitati si arrogarono il diritto di perseguitare i nativi. Gli sradicati sono diventati degli sradicatori. Era, dice Bartov, una guerra di vendetta per atti commessi che erano stati commessi da altri. Si appropriarono della terra, cancellarono la presenza degli altri; poi chiamati palestinesi. Questo, dagli ebrei, venne percepito come giustizia, ma da parte dei palestinesi, come espropriazione. Eppure, ci dice Bartov, «i passati repressi, raramente scompaiono», e l'oblio spianerà la strada verso l'inferno. In Israele, i resti del passato palestinese sono stati cancellati, come altri resti sono stati cancellati in Ucraina, o in molti villaggi polacchi. Bartov ci offre un parallelo ancora più radicale: tra l'inumanità di un soldato nazista, che demonizza un ebreo in quanto minaccia per il mondo, e l'inumanità dei soldati israeliani, che combattono i palestinesi durante l'Intifada o, come dice nei testi recenti, durante la guerra di Gaza. Egli arriva a chiedere un'empatia radicale: vedere il mondo attraverso gli occhi di ciò che abbiamo cancellato, e la cui voce non è più udibile. Secondo Bartov, il doppio spostamento di ebrei e palestinesi ha finito per ancorare le loro rispettive identità alla perdita, rendendo così indissolubili le loro rivendicazioni territoriali. L'ultimo capitolo, allinea delle affermazioni, legittime senza dubbio, ma formulate in maniera impressionante e piene di buone intenzioni, sulla necessità di dare voce alla narrazione della Nakba. Solo allora emergerà un futuro plausibile per tutta la regione, riconoscendo così sia l'Olocausto che la Nakba. C'è molto da lodare in questo libro, il quale ci offre una chiara sintesi dell'opera storica di Bartov, e giustifica l'alta reputazione che egli ha acquisito tra gli storici. Ma c'è anche molto da contestare e da dibattere. Questo libro avrebbe dovuto uscire come due libri separati, e soffre pertanto di una disgiunzione tematica. Anche il tono è dissonante: la distanza accademica non coesiste bene con le vituperazioni da "profeta sulla montagna". Cosa ancora più preoccupante: Bartov scrive come se essere uno storico dell'Olocausto gli conferisse un'autorità speciale al fine di poter parlare del conflitto israelo-palestinese. La sua ossessione sulla "disumanizzazione" funge da ponte tra due epoche storiche e due aree geografiche che hanno assai poco in comune. Perfino un grande storico del genocidio tedesco, non ha per questo il privilegio di un punto di osservazione che gli consenta di arbitrare il conflitto più complesso e infiammabile del pianeta. L'Olocausto, non è stata una disputa territoriale, e ci offre assai poca luce per illuminare meglio quello che è un antico confronto tra due popoli; e un'occupazione intollerabile, che priva i palestinesi di qualsiasi diritto umano fondamentale, non è tuttavia paragonabile a una vasta impresa di distruzione. Inoltre, Bartov, a volte, sembra suggerire che sia proprio la memoria dell'Olocausto a essere responsabile della perpetuazione del conflitto mediorientale. In assenza di potere analitico, l'ultima parte può quindi essere letta come una raccolta di ammonimenti e di pii desideri.
Le trappole della memoria collettiva
La memoria collettiva funziona come la memoria personale. Innumerevoli studi in psicologia cognitiva, dimostrano che essa è altamente selettiva. Ricordare, significa ricordare male, vuol dire cancellare i fatti che minacciano l'identità personale. Come gli individui, anche i gruppi scrivono e riscrivono il passato, al fine di costruire una narrazione coerente, nella quale appaiono, a loro volta, come eroi e vittime. Queste storie sono la base della loro identità. Possiamo deplorare il fatto che la memoria sia una pessima Storica, ma piangerci sopra non cambierà nulla. Dal momento che la memoria è sempre così centrale per l'identità, essa è sempre di parte; in entrambi i sensi della parola. Ecco perché abbiamo bisogno di storici: proprio per salvare la memoria dai suoi fallimenti, riesumando fatti dimenticati, e documentando i meccanismi istituzionali, come quando gli attori orchestrano delle cancellazioni selettive. Una volta che sarà stata completata questa scoperta di tutte le verità scomode, i gruppi faranno ciò che possono con tali verità: a volte potranno affrontare il loro passato, a volte no. Ma ci si chiede se rimproverare Yad Vashem, perché aderisce a una narrazione sionista che trascura la Nakba, sia un modo produttivo, o moralmente saggio, per avanzare verso la soluzione di questo conflitto. Tutti i gruppi (inclusi gli ebrei) costruiscono la propria identità attorno a un filo della loro storia, e trascurano tutti gli altri. Francia, Belgio e Germania, non hanno mai affrontato davvero, per molto tempo, dopo la fine della violenza, quello che è stato il loro passato genocida. Israele si trova ancora immerso in un conflitto sanguinoso. Perché allora pretendere da esso ciò che nessun altro paese è riuscito a realizzare prima: rappresentare, nel mezzo della guerra, due narrazioni moralmente e politicamente antagoniste, o ancora e di più, comporre una grande narrazione polifonica con voci e trame intrecciate? I palestinesi in Israele possono e devono raccontare la propria storia, ma molti ebrei israeliani potrebbero non essere pronti ad ascoltarla – non perché siano dei bruti immorali, ma, purtroppo, la guerra porta prima di tutto l'adesione alla propria narrazione nazionale. Piuttosto che incolpare Yad Vashem, per aver omesso la Nakba, sarebbe stato più appropriato criticarla per una cecità ancora più palese: il museo menziona a malapena lo svolgimento dell'Olocausto nei paesi arabi, e il Farhud – un pogrom devastante e brutale contro gli ebrei ,in Iraq nel 1941, ispirato da un regime arabo vicino ai nazisti – è stato completamente omesso, ignorando così la dimensione non europea del nazismo. Questa critica sarebbe stata ben più appropriata, sottolineando come l'orientalista Yad Vashem non sta recandosi in quello che si afferma che sia: un museo che commemora la distruzione del popolo ebraico nel suo insieme; e che pertanto viene complicata anche la narrazione della Nakba, collocandola in un più ampio quadro mediorientale di espulsioni degli ebrei dai paesi arabi. C'è un altro problema, più serio, legato alla legittimità delle narrazioni sioniste e dell'Olocausto, e alla loro cancellazione dalla narrazione palestinese. In linea con le tesi decoloniali, Bartov sostiene che le narrazioni collettive sioniste basate sull'Olocausto sono una macchina ideologica che produce un senso di eccezionalità, cieche ai crimini di Israele e alle sofferenze palestinesi. In "The Problems of Genocide" (2021), Dirk Moses ha sostenuto, in modo simile, una memoria non gerarchica, che spodestava l'Olocausto dal suo posto centrale nella cultura memoriale europea. Questo approccio viene difeso anche da Achille Mbembe, per il quale l'Olocausto fa parte di un continuum di violenza coloniale, non degno del suo posto centrale nella storia della violenza. Comprenderei, piuttosto, molto meglio l'obiezione alla visione eccezionalista dell'Olocausto, se essa avesse tenuto conto dell'unicità della condizione ebraica, e distinto più chiaramente l'eccezionalismo dalla singolarità storica. Il sionismo, fu la risposta ideologica ed esistenziale alla comprensione che l'Illuminismo non avrebbe cancellato la violenta persecuzione degli ebrei (i pogrom del 1881-1882 in Russia, l'affare Dreyfus e i pogrom in Ucraina dopo la Prima Guerra Mondiale ne testimoniano). Inoltre, lo Stato di Israele nacque a seguito dello spettacolare successo dei nazisti nell'eliminare gli ebrei; i nazisti intendevano portare al termine il lavoro, anche in Palestina, annientando i sionisti; i leader arabi dell'epoca erano tutti allineati con il fascismo italiano e con il nazismo tedesco, chiedendo un annientamento simile, e rifiutandosi di scendere a compromessi. Ricordare questi fatti, e integrarli nella narrazione collettiva, non significa invocare l'eccezionalismo: significa riconoscere la situazione storica singolare degli ebrei; forse troppo scomoda per molti. Poco dopo la creazione dello Stato di Israele, in realtà dopo la Guerra dei Sei Giorni, grazie allo sforzo concertato dell'Unione Sovietica e degli stati arabi, l'arena internazionale iniziò a mettere in discussione la legittimità dello stato ebraico (vedi, ad esempio, la Risoluzione ONU 3379 del 1975, la quale dichiarava il sionismo una forma di razzismo; oppure la conferenza di Durban del 2001 che ripeté l'accusa). Non fu l'occupazione della Cisgiordania, delle Alture del Golan e di Gaza a consolidare una certa memoria dell'Olocausto, ma la crescente sensazione che la legittimità di Israele non fosse più così evidente. Incolpare Israele per aver portato leader stranieri a Yad Vashem, appare meschino e ingiusto. Il sospetto decoloniale e progressista, secondo cui la memoria dell'Olocausto sia solo strumentalizzata, mina in ultima analisi l'intelligibilità del sionismo. Forse l'accusa di strumentalizzazione, è essa stessa strumentalizzata da degli attori politici che erano, e sono ancora, ostili all'esistenza di Israele (l'ex URSS ha seminato i semi; Iran, i Fratelli Musulmani e la Jihad Islamica li hanno coltivati). Questa discussione, avrebbe acquisito chiarezza qualora Bartov avesse distinto tra eccezionalismo e singolarità storica, tra strumentalizzazione inaccettabile e strumentalizzazione di routine della memoria collettiva (l'arrivo di Gilad Erdan all'ONU con una stella gialla è grottesco; i leader principali di Yad Vashem rappresentano la politica ordinaria). Più fondamentalmente: se dobbiamo criticare la strumentalizzazione della memoria della Shoah, allora perché mai la narrazione della Nakba dovrebbe sfuggire allo stesso sospetto? Non c'è anche qui opportunismo politico? Perché Bartov e altri progressisti esentano la memoria della Nakba dall'esame che applicano invece alla memoria dell'Olocausto? Ecco il punto cieco di una simmetria forzata: uno (la Shoah) sarebbe uno strumento politico rozzo; l'altra (la Nakba), sarebbe invece la base di indiscutibili pretese morali. Non hanno forse, i difensori della causa palestinese, mobilitato e plasmato anche risorse simboliche e organizzative, per i loro obiettivi politici? Le loro narrazioni contengono omissioni paragonabili a quelle delle narrazioni nazionali israeliane. Come ricorda Mitchell Cohen, la parola Nakba — "catastrofe" — fu usata per la prima volta da Constantin Zurayk, un pan-arabista, al fine di deplorare la disunità araba nel 1948, e nel tentativo di sconfiggere i sionisti. Inoltre, il panislamismo, un risveglio religioso del diciannovesimo secolo, volto a unire i musulmani e fortemente contrario all'Occidente e al sionismo, ha svolto un ruolo chiave nella formazione della coscienza palestinese, manifestatasi oggi in gruppi come Hamas o la Jihad Islamica. Questi fatti dovrebbero entrare nella narrazione della Nakba? Se la memoria collettiva è sempre un'arma politica nelle lotte ideologiche e nella costruzione dell'identità - e quasi sempre lo è - allora questo vale per tutti i partiti. Relegare una narrazione al regno della politica strumentale di base, e l'altra al cielo sublime dell'alta moralità, o è una contraddizione concettuale oppure è un trattamento discriminatorio. Per quanto riguarda l'affermazione secondo cui la narrazione della Nakba sarebbe stata cancellata dalla coscienza collettiva israeliana, ancora una volta la tesi è aperta alla discussione, tanto per usare un eufemismo. Nonostante la "Nakba Law" del 2011 in Israele – che proibiva la commemorazione di ciò che accadde ai palestinesi nel 1948-49 – la narrazione palestinese è ben nota, e persino accettata da una parte significativa dell'élite israeliana, grazie soprattutto al lavoro degli storici post-sionisti. Fuori da Israele, la Nakba è tutt'altro che censurata. Ha conquistato un pubblico tale che molti la vedono come l'emblema di tutte le lotte progressiste. È stata plasmata attraverso molteplici canali istituzionali e realizzata da imprenditori morali e intellettuali che meritano un'indagine. Si è persino consapevolmente modellata sulla narrazione dell'Olocausto, presentando lo sfollamento di 700.000 palestinesi in una guerra, come se fosse un crimine senza paragoni nella storia moderna. Ancora una volta, Bartov non riesce a ragionare in modo comparativo. Se i genocidi devono essere paragonati, allora lo si deve fare anche con le pulizie etniche. A seguito della guerra greco-turca, circa 1,6 milioni di cristiani ortodossi dalla Turchia, e musulmani dalla Grecia, vennero scambiati con la forza, a partire dal Trattato di Losanna. Gli Alleati espulsero dai 12 ai 14 milioni di tedeschi etnici, ridisegnando i confini per rendere meno probabile la vendetta tedesca. La mappa dell'Europa del dopoguerra, venne ridisegnata da dei massicci e forzati movimenti demografici. Se l'Olocausto può essere paragonato ad altri genocidi, allora – per quanto tragico sia stata – anche la Nakba può essere paragonata ad altre pulizie etniche. Le sue cause, la portata, gli attori e le strategie politiche meritano di essere esaminate. Un serio problema dei rifugiati fu effettivamente creato; ma solo dopo che cinque paesi arabi dichiararono guerra a Israele nel 1948, quando era già riconosciuto dall'ONU. Rifiutarono ogni compromesso. Come si confronta questo, con altri casi in cui i belligeranti hanno perso la guerra? Dove si inserisce questo fatto nelle nostre valutazioni politiche e morali della tragedia? Bartov non lo dice. Né dice, se la condizione di 700.000 rifugiati palestinesi, in paesi dove potevano parlare la stessa lingua e praticare la stessa religione, possa essere paragonata all'eradicazione sistematica di una cultura, di una lingua e di un popolo dalla faccia della Terra. Dire questo non significa chiamare all'eccezionalismo, né minimizzare la tragedia palestinese. Serve per esigere delle analogie, trattate con rigore intellettuale, a rischio di confondere e rovinare il nostro panorama morale e le nostre categorie analitiche. Termini vaghi, come "disumanizzazione" e "perdita", da sé soli non possono portare il peso di una comprensione politica e morale dei conflitti in cui ciascun popolo desidera la scomparsa dell'altro. L'analisi di Bartov è sia troppo astratta che troppo personale per poter servire da guida morale o intellettuale. Il nostro cuore sanguina per qualsiasi tragedia – genocidio sistematico, espulsione o guerra – ma, nelle nostre comparazioni, le lacrime non devono sostituire la sobrietà dell'analisi. Infine, se denunciamo il fatto che una narrazione ne sostituisce un'altra, allora questa tesi risuona inevitabilmente altrove: la narrazione della Nakba, che è diventata centrale nell'opinione pubblica, non ha forse reso invisibili i milioni di rifugiati provenienti da altre regioni – come in Sudan o nel Congo – le cui tragedie non sono meno gravi di quelle dei palestinesi? Dicendo ciò, non cerco di diminuire o di deviare il disagio palestinese, ma ricordarci come la visibilità di una tragedia è quasi sempre pagata con l'invisibilità di un'altra. Così come la distruzione degli ebrei da parte dei nazisti, ha per troppo tempo oscurato la decimazione dei Rom, così come un unico focus sul genocidio degli ebrei ha ingiustamente reso invisibili le guerre coloniali genocidarie in Africa o in Asia, ci si chiede allora se l'attuale attenzione occidentale alla memoria palestinese, non abbia a sua volta bloccato il nostro impegno morale verso altre regioni. In particolare l'Africa, la quale sta urgentemente richiedendo la nostra attenzione collettiva. Il concetto di "memoria multidirezionale" di Michael Rothberg – fare sì che ogni ricordo si ispiri agli altri, anziché competere con essi – sarebbe la strada da seguire, ma lo spazio pubblico è saturo di gruppi dotati di tecniche e risorse finanziarie, per dirottare il dibattito a beneficio di una sola causa, rendendo invisibili altre tragedie, e riducendo la memoria multidirezionale a un desiderio illusorio. La mia visione dell'esito del conflitto israelo-palestinese, differisce profondamente da quella di Bartov. La memoria collettiva, così come la memoria personale, è instabile; sta cambiando, sia per ragioni opportunistiche, sia perché abbiamo una migliore conoscenza del passato, ed esso spesso viene strumentalizzato. Per questi motivi, non si possono fondare grandi progetti di pace e di riconciliazione, se non quando una parte si assume da sé sola la colpa e la responsabilità (come nella Germania del dopoguerra). Inoltre, la memoria collettiva, quasi per definizione, congela le ferite e irrigidisce il dolore. Dobbiamo districare l'identità tra memoria e ferite. Nei casi in cui due popolazioni devono coesistere – e solo in questi casi, come in Ruanda, Sudafrica o oggi in Israele-Palestina – l'esortazione, di David Rieff, a dimenticare piuttosto che insistere sulla memoria è la via più saggia (In "Praise of Forgetting", 2016]). Ciò di cui israeliani e palestinesi hanno bisogno, non è più memoria collettiva, ma una politica di dimenticanza e, sì, una politica di perdono.
- Eva Illouz - 19 novembre 2025 - Pubblicato su https://k-larevue.com/ -
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