domenica 16 novembre 2025

Mappare la Parola !!

"Imagine No Religion: How Modern Abstractions Hide Ancient Realities", di Carlin A. Barton, Daniel Boyarin. Fordham University Press, 2016

«Qui non c'è "produzione", "riproduzione", "economia", "religione", "politica", ecc., non ci sono tutte queste sfere separate, così come le intendiamo noi. Esse non hanno alcun posto in questi mondi sociali non moderni, dove esistono altre sfere separate, esistono altre opposizioni che devono essere determinate secondo quella che è la disposizione specifica di questi mondi sociali. Il principio trascendente di questa matrice religiosa delle società pre-moderne (che in nessun senso può essere descritto con il nostro termine moderno di "religione"), codifica tutto sotto forma di essenza riproduttiva e costitutiva di tutta la pratica sociale e materiale. Sono tutte le strutture di riproduzione e di dominio quotidiane a formare qui dei sistemi di relazioni personali, e di obblighi, che sono determinati da questa proiezione che va attraverso e oltre questa "essenza trascendente proiettata» (...) « Il momento religioso includeva la riproduzione stessa della vita. E anche se questo, alla coscienza moderna, sembra un paradosso, bisogna dire che la religione comprendeva "l'economia" e la "politica", e quindi non poteva essere una "religione" nel senso moderno (nel senso di una sfera differenziata). La religione non era una "sovrastruttura ideologica", ma una forma fondamentale di relazioni e di riproduzione, sia nei rapporti con la natura che nei rapporti sociali stabiliti. Questo non significa, naturalmente, che le persone vivessero di manna dal cielo. Ma il processo di metabolismo con la natura veniva attraversato da un sistema di codifica simbolica che si poneva alla cieca, finché la società non ne viene a essere consapevole. In una situazione in cui non c'è autocoscienza, ciò richiede, per gli esseri in gran parte liberi dalla programmazione genetica, una forma sociale di totalità astratta, in modo che possano agire come soggetti. Questa costituzione inconscia può (scrive Marx) essere descritta come feticismo» (Robert Kurz, da "La fine della Politica", Albi, Crisis & Critique, 2026).

Il libro attrae subito per il suo titolo; questo "Imagine No Religion", che ci ha fatto sognare e cantare tutti, sulla scia del grande John Lennon, nel 1971. Il sottotitolo spiega perfettamente la prospettiva adottata: cosa vedremmo se, per descrivere le pratiche e le concezioni dei Greci e dei Romani,relative agli dei, rinunciassimo al concetto moderno di "religione"? La sfida è notevole, e stimolante allo stesso tempo. Implica – ed è proprio questo lo scopo di questo importante libro – tornare alle nozioni antiche, di religio in latino, di threskeia in greco, per coglierne la complessità diacronica e sincronica. Il volume, scritto a quattro mani, ma perfettamente "amalgamato" tra di esse - come giustamente sostengono gli autori nella nota iniziale (p. IX) -  si struttura pertanto attorno a queste due grandi indagini; entrambe adottano lo stesso piano: innanzitutto, una sezione intitolata "Mappare la parola" dove si tratta di mappare gli usi del termine in una moltitudine di contesti, prestando attenzione alle sue evoluzioni o mutazioni, alle sue molteplici sfaccettature, ai campi semantici coinvolti, alle questioni della traduzione, ecc. ; poi una sezione dedicata a un caso di studio, Tertulliano per la religio, Flavio Giuseppe per la threskeia. Possiamo vedere come questi due approcci combinino sapientemente l'identificazione orizzontale, per così dire, e l'analisi verticale, in quello che è tutto lo spessore di un testimone, il cui lavoro abbondante e versatile getta una luce significativa su "parole e cose". Per molti aspetti, infatti, l'approccio degli autori è affine a un'archeologia della conoscenza, nella tradizione di Michel Foucault (anche se risulta assente dalla bibliografia, e anche se C. Barton, all'inizio della sua indagine, si paragona a un "archeologo" – p. 15). L'Introduzione, intitolata "What You Can See When You Stop Looking for What Isn't There" (pp. 1-9), specifica tuttavia in modo assai solido ed efficace i fondamenti di un processo di decostruzione, salutare senza tuttavia essere iconoclasta. Non si tratta semplicemente di constatare quale sia l'inadeguatezza della "religione" nel rendere religio e threskeia, ma di indagare la rete dei significati che uno studio approfondito dei loro usi ci permette di vedere. La "religione" viene qui denunciata come una comodità, una scorciatoia, ma soprattutto uno schermo che maschera la complessità delle testimonianze antiche su ciò che pensavamo, ciò che dicevamo degli dei, come comunicavamo, come interagivamo con loro. Non si tratta quindi di demolire l'edificio, e trasmettere un paesaggio in rovina, ma mostrare la varietà di fenomeni sociali che vengono classificati sotto questa moderna "etichetta", e che possono essere meglio compresi se usiamo la terminologia emica. In particolare, l'idea di forza del volume è quella di mostrare che, contrariamente a quanto suggerisce il termine "religione", eredità del pensiero cristiano che se ne è impossessato e ne ha modificato il significato, non si tratta qui di fatti sociali separati, isolati, autonomi, specifici, ma al contrario di un tessuto di pratiche e di rappresentazioni profondamente intrecciate ai comportamenti politici. alle questioni economiche, sociali e culturali.

   Ritorno alle origini: è questa la parola d'ordine. Per quanto riguarda la religio, C. Barton traccia con fermezza una linea di evoluzione che poi sostiene, in modo notevole e affascinante, mappandone gli usi (p. 15-52): «Sosterrò che sono proprio i poteri flessibili, indefiniti e meno formalizzati, e il gioco delle emozioni esercitate nella religio latina, che saranno soppressi in maniera sempre più definita, in un sistema di governo disciplinato e irreggimentato, legittimato con riferimento alla nozione di un potere di autorizzazione ultimo» (p. 16). È impossibile dare un breve resoconto dell'intera gamma di sfumature, significati e usi che la sua indagine rivela. Mostra, in modo molto convincente, il ruolo di Cicerone in quanto perno di un certo orientamento del significato della religio, in relazione a un contesto politico turbolento, quello delle guerre civili, che richiedeva una ripresa dei comportamenti etici e politici, sotto l'autorità di un potere superiore, portatore di ordine e fonte di un condizionamento psicologico allora ritenuto indispensabile per la salvezza dello Stato. Prima di Cicerone, la nozione di religio veicolava, infatti, un insieme assai più complesso di nozioni, sentimenti, comportamenti e relazioni con gli dei. C. Barton esamina il legame tra religio e scrupoli, esitazione, obbligo, tabù, proibizione, moderazione, modestia, ansia, senso di colpa, energia, ecc. Mostra chiaramente i limiti dell'opposizione, che spesso viene avanzata, ma "paralizzante" nelle sue parole, tra religio e superstitio. Si sofferma poi sulla svolta ciceroniana, caratterizzata dalla necessità di nuove forme di regolazione del comportamento sociale, non più interiorizzato, come avveniva fino ad allora, ma esterno, attraverso le istituzioni, piuttosto che attraverso un codice morale più o meno condiviso. Troviamo così nel Ciceroniano "De Legibus", formulazioni molto illuminanti; per esempio, in II, 7, 15-16 (citato a  p. 49), quando si tratta di convincere i cittadini che gli dèi sono i "domini omnium rerum ac moderatores", che scrutano tutti e che, in quanto membri della comunità, sono i testimoni e i giudici di tutto ciò che vi accade. D'ora in poi, non sono più la famiglia, la casa, i beni a porre fine al comportamento religiosus, ma lo Stato. Questa evoluzione semantica, che associa la religio all'autorità suprema, è amplificata dagli autori cristiani, in particolare da Tertulliano, che viene studiato molto scrupolosamente nella seconda parte (pp. 55-118). Il gigantesco censimento intrapreso mostra efficacemente che l'ambito coperto dalla nozione di religio tende a distinguersi – rimanendo una nebulosa – pur ponendosi sotto l'autorità del governo imperiale, intermediario tra gli uomini e l'ormai unico e trascendente dio. C. Barton evidenzia l'affermarsi di connotazioni già presenti, ma che trovano il culmine nel pensiero cristiano, in particolare quella della "paura", una paura perfetta, e quella della "disciplina" (dal vocabolario delle correnti filosofiche), poiché il cristiano è, di sua spontanea volontà, schiavo di Dio. La religio si orienta così verso la sottomissione totale, in relazione all'emergere della nozione di conscientia, all'interno di un sistema rigidamente gerarchico, una vera e propria fortezza mentale e politica. L'analisi di C. Barton mostra chiaramente ciò che le concezioni di Tertulliano devono a un contesto di cristianesimo fiorente e in competizione, così come al confronto con l'ebraismo.

   Il concetto di threskeia – termine la cui etimologia rimane oscura – subisce, per così dire, lo stesso trattamento di D. Boyarin (pp. 123-209); il dossier è altrettanto ricco di insegnamenti, anche se la sovrapposizione tra Threskeia e Religio, da un lato, e Threskeia e la religione, dall'altro, è solo parziale, come ammette Boyarin (p. 123). Egli sottolinea anche il fatto che la threskeia è molto rara solo nel periodo classico, dove questo termine si applica soprattutto, in particolare in Erodoto, alle pratiche e alle credenze degli "altri", ed emerge più chiaramente alla fine del periodo ellenistico, e poi nel periodo romano. Il suo valore euristico è quindi innegabile, anche se gli specialisti del periodo classico possono provare una certa frustrazione per questa scelta. Intersezioni con altre nozioni, come eusebeia, asebeia, deisidaimonia, nomos, latreia, ecc. siano debitamente prese in considerazione. Flavio Giuseppe, autore complesso, la cui posizione è carica di ambiguità, funge da filo conduttore per un'affascinante indagine sulla threskeia degli ebrei, alla luce del discorso sviluppato in parallelo nel Nuovo Testamento, in Filone di Alessandria e in 4 Maccabei. Va notato che nessun autore usa questo termine più di Giuseppe Flavio. Si riferisce al servizio della divinità, all'ordo sacrificale, ma anche al nomos, inteso nel senso più ampio, che implica sia uno stato d'animo che un comportamento legato alla giustizia e alla fedeltà agli impegni. Come nel caso di Tertulliano, ma per altre ragioni, l'ambivalenza degli usi testuali nasce abilmente dalle analisi e ostacola ogni traduzione semplicistica. Questo perché gli utilizzi sono determinati anche dal pubblico di riferimento, che è sempre molteplice, soprattutto nel caso di un autore dalla mente divisa come Giuseppe Flavio, che ricorre a strategie narrative e lessicografiche basate su un doppio linguaggio. D. Boyarin estende il suo studio alla letteratura apologetica dal I al III secolo d.C., un ambiente che ha dato, in particolare con Giustino martire, il primo impulso all'emergere di un vocabolario che segna la separazione tra il "religioso" e il "politico".

   La conclusione del libro (pp. 211-214) ritorna all'approccio filologico adottato per l'indagine: quali parole in quali strati testuali? In quali contesti? Per esprimere quali contenuti?
E' giunto il momento di ammettere che la categoria analitica di "religione" applicata alle culture dell'antichità è fuorviante, che offusca più di quanto chiarisca? Questa è la scommessa degli autori. Il ritorno alle origini ha rivelato una rete relazionale di termini e nozioni di grande complessità e flessibilità. I campi che coprono riguardano il registro delle rappresentazioni, dei discorsi, delle pratiche e delle emozioni. Il confronto tra Tertulliano e Flavio Giuseppe Flavio conferma in ogni caso la risonanza del registro politico sull'orientamento delle parole e delle cose. In questo caso, ciò che è in gioco, con la religio come con la threskeia, è il rapporto con lo Stato, con l'Impero e con l'Imperatore, con l'autorità e con la legge, un rapporto di collaborazione, di sottomissione o di reciproco accomodamento.

   Questo volume vale sicuramente la pena di essere letto. È scritto molto bene, chiaro, costantemente legato ai testi, finemente analizzato; È sensibile alla cronologia e ai contesti, intelligentemente comparativo: un vero lavoro di storico. Questo libro è anche erudito, senza pesantezza, geniale dall'inizio alla fine. La bibliografia finale avrebbe potuto prestare un po' più di attenzione ai lavori recenti in francese; L'indice è molto utile. Da questa lettura usciamo arricchiti e convinti di aver davvero scoperto nuovi orizzonti di riflessione al di là della nozione di "religione".

- Corinne Bonnet - Università di Tolosa  - Pubblicato nel  Dicembre 2018 su  https://journals.openedition.org/mythos/

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