La "Critica del Programma Gotha": un manifesto 2.0 !!
- di Gabriel Teles -
Nel 1875, Karl Marx scrisse un documento unico. Non si trattava di un trattato filosofico o di un saggio giornalistico,bensì di una critica approfondita, chirurgica, schietta e, ancora oggi, rimasta spesso trascurata. Mi riferisco alla "Critica del programma di Gotha", scritta come fosse una lettera-commento al progetto di unificazione, dei socialisti tedeschi, attorno a un programma comune. A prima vista, potrebbe sembrare quasi un episodio minore nella traiettoria del pensiero marxiano. Tuttavia, come sostiene il marxista indiano Paresh Chattopadhyay, si tratta di un vero e proprio «secondo Manifesto del Partito Comunista»: più maturo, meno pamphlet, ma non per questo meno rivoluzionario. Per comprendere la portata di questa formulazione, è necessario tornare al contesto. Nel 1875, i seguaci di Marx e i seguaci di Ferdinand Lassalle - una figura centrale dello Stato tedesco e del socialismo riformista - cercarono di fondere le loro organizzazioni nel neonato Partito Socialista Operaio di Germania (in seguito SPD, acronimo di Partito Socialdemocratico di Germania). Il programma che avrebbe sintetizzato questa fusione, era stato scritto per lo più da dei lassalliani, e recava in sé profondi segni di un socialismo statalista, legalista e conciliante. Marx, dopo aver letto il testo, rispose con la "Critica del programma di Gotha", inviato tramite una lettera a Wilhelm Bracke, ma che non venne mai pubblicato integralmente per tutto il corso della sua vita, e venne reso noto pubblicamente soltanto nel 1891. Ciò che Marx offriva in quel testo, non era solo una critica congiunturale. si trattava piuttosto della riaffermazione radicale dei fondamenti della sua teoria dell'emancipazione. In esso, Marx contestava, ad esempio, l'idea che «il lavoro sia la fonte di tutta la ricchezza e di tutta la cultura», sottolineando come una tale formulazione - cancellando l'apporto della natura e del contesto sociale - non facesse altro che ripetere feticisticamente il discorso borghese sul valore del lavoro. Ma più di questo, Marx rifiuta l'idealizzazione del lavoro, così come esso esiste sotto il capitalismo. Non si tratta di riscattare il lavoro salariato, ma di abolirlo!
Il lavoro come prigione (e non come virtù)
Marx ribadisce che il lavoro, nella forma in cui esso viene organizzato sotto il capitale, rimane inseparabile dall'alienazione. L'emancipazione umana, pertanto, potrà avvenire solo con l'abolizione della forma sociale del lavoro astratto, subordinato com'è alla produzione di valore. Ecco perché egli rifiuta la formula lassalliana dell'«equa distribuzione dei frutti del lavoro», dal momento che tale formula conserva, alla sua base, la struttura dello sfruttamento. Il punto è cruciale, e molte letture riformiste del marxismo insisteranno sulla difesa della redistribuzione del prodotto, ma senza mai toccare la struttura della produzione. Marx, al contrario, denuncia il nocciolo della dominazione capitalistica: la separazione tra produttori e mezzi di produzione, il controllo del tempo della vita attraverso una logica di valorizzazione cieca e disumana, la subordinazione del fare all'avere. Nella fase più alta del comunismo – che egli si limita ad abbozzare – Marx propone che il lavoro cessi di essere "un mezzo di vita" e divenga la "prima necessità vitale". Ciò significa, in termini concreti, la riconciliazione tra attività e pienezza, tra il fare umano e la libertà. Un lavoro che non sia più dettato dalla sopravvivenza, o dalla coercizione del valore, ma dall'autorealizzazione degli individui. È importante sottolineare: in Marx non troviamo esattamente alcuna distinzione tra "socialismo" e "comunismo"; come se essi fossero due regimi, o due modi di produzione distinti. Questa scissione, molto presente nelle letture successive – specialmente in quella del marxismo sovietico – non corrisponde affatto alla concezione marxiana originaria. Ciò che Marx propone è una distinzione tra due fasi del comunismo: una fase iniziale, ancora segnata da alcune tracce della vecchia società (come il principio distributivo di "uguale diritto" proporzionale al lavoro), e una fase superiore, dove il principio di uguaglianza formale viene superato a partire dal soddisfacimento dei bisogni reali. Entrambe le fasi appartengono al processo di superamento del modo di produzione capitalistico, e alla costituzione della nuova socievolezza comunista. Pertanto, ciò che in Marx viene solitamente chiamato "socialismo", in realtà, no è altro che lo stadio inferiore del comunismo; uno stadio ancora condizionato dalle limitazioni ereditate dalla società borghese. Non si tratta di un sistema autonomo o permanente, quanto piuttosto di una fase necessariamente transitoria, che si completa solo con l'estinzione della forma-valore, dello Stato e della divisione del lavoro così come la conosciamo.
Il socialismo non è la gestione statale del capitale
Uno dei bersagli più duri della critica di Marx, è la concezione lassalliana dello Stato. Per Lassalle e i suoi seguaci, lo Stato poteva essere uno strumento neutrale di giustizia distributiva. Marx, tuttavia, mette in guardia: lo Stato non è un arbitro al di sopra delle classi, bensì una forma politica che corrisponde a certi rapporti di produzione. Nella società capitalista, lo Stato moderno è una forma di riproduzione della dominazione borghese. Aspettarsi che sia esso l'agente dell'emancipazione, sarebbe un'illusione fatale. In tal senso, la Critica del Programma di Gotha anticipa molti di quei dibattiti che sarebbero poi fioriti soltanto nel XX secolo, specialmente tra i marxisti critici dello statalismo sovietico. La denuncia del feticismo di Stato, la difesa dell'autogestione dei produttori associati, il rifiuto della centralizzazione burocratica vista come via al socialismo; tutto questo lo si trova, in embrione, in questo breve testo del 1875. Questo aspetto della Critica del Programma di Gotha appare essere particolarmente scomodo per quei progetti "di sinistra" che ancora ripongono speranze nella conquista dell'apparato statale, visto come via di trasformazione. Marx non solo rifiutava la neutralità dello Stato; ma egli denuncia la sua forma strutturale, in quanto separata e contraria all'autodeterminazione popolare. Lo Stato, nella società capitalistica, esiste per garantire la riproduzione delle condizioni di sfruttamento, per quanto ciò avvenga sotto le spoglie del cosiddetto "interesse generale". La sua burocrazia, le sue leggi e i suoi meccanismi di coercizione non sono strumenti vuoti, bensì forme sociali specifiche che esprimono la scissione tra lavoro e controllo, tra produzione e decisione. Marx anticipa, in questo breve scritto, una delle impasse storiche della modernità politica: la tendenza dei movimenti di emancipazione a istituzionalizzarsi all'interno delle forme statali, che si supponeva che invece essi superassero. La critica di Marx allo Stato non è funzionalista, non si limita a sottolineare che lo Stato è "controllato" dalla borghesia, ma va più a fondo, affermando che lo Stato è - nella sua forma stessa - la negazione dell'autogestione e della libera associazione tra gli individui. Il problema, perciò, non sta solo in chi occupa lo Stato, ma consiste proprio nel fatto che esso separa strutturalmente i produttori dall'esercizio collettivo del potere. Quello che abbiamo visto, in molti casi, è stata solo la sostituzione della borghesia con una nuova élite politico-burocratica, mantenendo intatta la separazione tra popolo e potere. In nome del socialismo, sono stati ricostruiti gli stati autoritari, i partiti unici, la pianificazione verticale e la repressione del dissenso. E tutto questo in nome di un progetto che, per Marx, poteva invece essere realizzabile solo attraverso la fine dello Stato in quanto tale. Il cosiddetto "comunismo di Stato" rappresenta la negazione pratica di tutto ciò che la Critica del Programma di Gotha afferma: la necessità di un'autogestione generalizzata, la soppressione della divisione tra leader ed esecutori, la dissoluzione delle forme sociali ereditate. Leggere oggi la "Critica" significa quindi affrontare una sfida teorica e politica di prim'ordine. In tempi di ricostruzione della critica anticapitalista, la tentazione di salvare lo Stato, visto come strumento di giustizia, riappare in nuove forme: come "Stato sociale", "neo-sviluppismo" o "governo progressista". Ma Marx avverte: senza la trasformazione radicale delle forme sociali che sostengono lo Stato – il lavoro alienato, la proprietà privata dei mezzi di produzione, la divisione tecnica e politica del lavoro – non c'è emancipazione. C'è solo la gestione della barbarie.
Perché lo ignoriamo (ancora)?
La domanda che sorge spontanea è: perché questo testo, che possiede una tale densità teorica e politica, viene così poco letto? Una possibile risposta è scomoda: la Critica del Programma di Gotha non offre illusioni, non promette scorciatoie istituzionali, non si fida dello Stato, non addolcisce il lavoro. In tempi di politiche "di sinistra", che generano solo miseria capitalistica con una patina umanista, il testo di Marx suona come una provocazione. Inoltre, la Critica richiede una lettura più rigorosa della teoria del valore, del lavoro e dello Stato; temi che vengono spesso sostituiti da degli approcci moralistici o culturalisti da parte del marxismo contemporaneo. Non c'è modo di leggerlo senza affrontare la radicalità del comunismo, visto come una rottura totale, non solo con il mercato, ma anche con la forma statale, la forma lavoro e la forma legge. Forse è per questo che la Critica del Programma di Gotha rimane, ancora oggi, quasi una sorta di "documento maledetto" all'interno del corpus marxista. A differenza di testi assai più popolari - come il "Manifesto del Partito Comunista" o la Prefazione a "Per la critica dell'economia politica" - questo scritto non si presta a interpretazioni concilianti né a usi istituzionali. Spinge il lettore e il movimento operaio a confrontarsi con le proprie illusioni: sullo Stato, sulla legalità borghese, sul lavoro in quanto virtù morale. È un testo che disarma le fantasie del riformismo. La difficoltà della sua ricezione è legata anche al fatto che esso richiede una rottura non solo politica, ma anche ontologica. Marx propone non solo nuove politiche o nuove istituzioni, ma un nuovo modo di vivere: un mondo senza lavoro alienato, senza valore, senza Stato, senza capitale. Questo radicalismo, ancora oggi, continua a fare paura, spaventa anche quei settori che si dicono marxisti, ma che si limitano a una gestione progressiva dell'esistente. È più comodo parlare di redistribuzione del reddito, o di espansione dei diritti, piuttosto che affrontare ciò che Marx ha effettivamente proposto: l'abolizione delle forme sociali fondamentali del capitalismo. Inoltre, il testo sfugge alle consuete categorie della politica moderna e non si inserisce né nel quadro della socialdemocrazia né in quello del marxismo-leninismo classico. La sua critica allo Stato lo rende indigesto a tutti coloro che credono nella via istituzionale; il suo rifiuto della pianificazione autoritaria lo allontana dalle esperienze del "socialismo reale". Ciò che rimane, è una critica tagliente e una scommessa strategica sull'autorganizzazione dei lavoratori, un'idea che è stata soffocata. tanto dalle armi del Capitale quanto dai decreti del Partito-Stato. Per tutte queste ragioni, rileggere la Critica del Programma di Gotha è più di un esercizio filologico. È un atto di reincontro con la dimensione più radicale del comunismo marxiano: quella che non cerca di migliorare il mondo del capitale, ma di superarlo. Nell'epoca della precarietà strutturale, della finanziarizzazione della vita e dell'automazione gestita dagli algoritmi, Marx ci ricorda che nessuna tecnica o Stato può sostituire l'azione cosciente e organizzata dei lavoratori stessi. L'emancipazione sarà opera loro – o non lo sarà.
Un Manifesto oltre il Manifesto
Definendo la Critica del Programma di Gotha il «secondo Manifesto del Partito Comunista», Chattopadhyay non suggerisce una ripetizione, bensì un approfondimento. Il Manifesto del 1848 era un grido di battaglia, scritto nel pieno della rivoluzione. D'altra parte, la Critica, quasi trent'anni dopo, è una sintesi riflessiva e matura dell'esperienza del movimento operaio e delle insidie della prima istituzionalizzazione. Se il Manifesto proclamava che «i proletari non hanno nulla da perdere se non le loro catene», la Critica mostrava dove ora si nascondono queste insidie: nel lavoro alienato, nello Stato burocratico, nell'ideologia dell'uguaglianza formale. Ecco perché va letto, studiato, dibattuto e riportato al centro delle formulazioni socialiste del XXI secolo. Nell'era dell'automazione e dell'intelligenza artificiale, quando la promessa della liberazione dal lavoro nasconde l'intensificazione della sorveglianza e dello sfruttamento, il gesto di Marx ci interpella nuovamente: non basta ridistribuire i frutti del lavoro, ma è necessario trasformare il lavoro stesso, abolire la sua forma alienata e liberare il tempo umano dall'orologio della produzione di valore. Gli ingranaggi del capitale, si adattano rapidamente: gli algoritmi sostituiscono i capi, le piattaforme frammentano i legami e l'illusione dell'autonomia nasconde il controllo totale del tempo, del corpo e della soggettività. In un simile scenario, la Critica del Programma Gotha riemerge come un faro concettuale. Non è nostalgia, ma necessità: ci ricorda che l'emancipazione non riguarda l'espansione dei consumi, ma la distruzione dei meccanismi sociali che ci costringono a vivere per produrre. Una società comunista, come quella delineata da Marx, è una società in cui il fare cessa di essere uno strumento di sopravvivenza, e diventa espressione di una vita piena, nel corso della quale il tempo libero non è solo tempo di ozio, ma diventa tempo per sé stessi, per gli altri, per il creato. L'intelligenza artificiale, lungi dall'essere un nemico in sé, potrebbe essere un'alleata di un'umanità liberata dalla costrizione produttiva. Ma questo sarà possibile solo se si spezzerà la forma sociale che converte tutta l'innovazione in un’intensificazione dello sfruttamento. Ciò che è in gioco, quindi, non è la tecnologia in sé, ma la struttura sociale che la comanda. E questa struttura – fondata sull'estrazione del plusvalore, sulla separazione tra produttori e mezzi di produzione, sulla concorrenza e sulla proprietà privata – è precisamente ciò che la Critica ci insegna a identificare e combattere. Svuotando il lavoro di ogni significato, il capitalismo digitale ci dà paradossalmente l'impulso a pensare al suo superamento. Se le macchine svolgono già parte del lavoro necessario, perché mai continuiamo a essere sottoposti alla logica della scarsità e del sacrificio? Perché non riorganizzare la vita sociale sulla base dei bisogni umani e dei poteri collettivi? Questa è la domanda alla base della Critica del Programma di Gotha, che ritorna con forza in un'epoca in cui il lavoro perde centralità economica mentre acquista, simultaneamente, centralità esistenziale. Senza tale rottura non ci sarà alcuna rivoluzione. E non ci sarà rottura senza ascoltare, ancora una volta – e con la radicalità che richiede – il secondo manifesto. Un manifesto silenzioso, senza slogan, ma che pulsa in ogni riga della critica marxiana: liberarsi dal lavoro del capitale, liberare il tempo dalla merce, liberare la vita dall'astrazione della legge del valore. Leggere oggi la Critica del Programma di Gotha significa aprire, ancora una volta, la possibilità di Comunismo; non come un progetto di governo, ma come uno stile di vita a venire.
- Gabriel Teles - Pubblicato il 9/9/2025 su https://blogdaboitempo.com.br/
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