domenica 7 settembre 2025

In che modo produciamo delle differenze?

Per la rivista Ballast, Pierre Madelin ha intervistato l'antropologo messicano José Luis Escalona Victoria, critico delle concezioni sostanzialiste del sociale che oggi tornano così tanto di moda; in particolare sotto la copertura del cosiddetto “decolonialismo”. L'antropologo José Luis Escalona Victoria, nato a Città del Messico, insegna in Chiapas e le sue ricerche, che vertono sulle diverse manifestazioni quotidiane del potere nel Messico rurale, implicano la revisione di alcuni presupposti del discorso antropologico contemporaneo che si è prodotto in America Latina e altrove. In questa intervista, egli affronta i rischi che, a suo avviso, comporta l'adozione di una visione essenzialista del sociale; cosa «che riduce le storie umane e le loro potenzialità a delle forme chiuse». In questo contesto, la domanda da porsi è come fare, nella produzione di conoscenza, a conciliare emancipazione e complessità?

Pierre Madelin: «La tua ricerca si distingue per uno sguardo critico al discorso antropologico prodotto in Messico, in particolare quel che riguarda le concezioni sostanziali del sociale. Soprattutto quelli che tu chiami "argomenti etnici". Di che cosa si tratta?»

José Luis Escalona: Penso soprattutto a quelle narrazioni presenti nello spazio pubblico, le quali spiegano tutta la storia e tutto il presente attraverso il prisma del confronto tra ciò che non è occidentale - o del Sud del mondo - e l'Occidente, o il Nord del mondo. Si tratta di un punto di partenza assai comune a molte discussioni, non solo in antropologia o nelle scienze sociali in generale, ma anche nei dibattiti politici, nell'arte e in altri campi della produzione del discorso pubblico (scritto, orale, plastico, simbolico, cinematografico). Ad esempio, in Messico, di fronte a una storia umana complessa e in continua evoluzione, fatta di diverse traiettorie e varie direzioni potenziali, le versioni narrative che vengono mantenute seguono il canone etno-nazionale, vale a dire, l'idea di un mondo, o di una cultura indigena confrontata con il Messico e portata avanti dalle élite occidentalizzate. Ecco che così, in questa prospettiva, tutto ciò che si muove, che genera molteplici prospettive, che è soggetto a una ricontestualizzazione e a una ridefinizione, a seconda delle circostanze, viene a essere contorto e mutilato in modo che così possa essere adattato a una storia unilineare, a una dicotomia che congela e solidifica ciò che è fluido, presumibilmente in una continuità di 500 anni. In questo modo, diamo qualità essenziali a delle realtà che sono di fatto contestuali. La mia domanda perciò riguarda questo sguardo essenzialista, che riduce le storie umane e le loro potenzialità a delle forme chiuse, incapaci di lasciar sfuggire qualsiasi cosa, e che arriva perfino a congelare il tempo e lo spazio. Un esempio di questo pensiero sostanzialista, consiste in ciò che ho chiamato etno-argomenti. Essi, sono argomenti che possono essere enunciati solo a condizione che noi assumiamo che esista qualcosa che possa essere chiamato... gruppi etnici, etnie o equivalenti. Questi argomenti, si basano sul principio che le storie e le persone che ci interessano sono in qualche modo predefinite, legate a una condizione specifica. Qualsiasi spostamento, o trasformazione, deriverebbe necessariamente da questa condizione di partenza, da questa posizione o situazione. Ciò equivale a considerare i soggetti vedendoli come più legati al passato, piuttosto che alle potenzialità del presente e del futuro. L'assunzione, fin dall'inizio, che certe posizioni o situazioni comuni producano automaticamente un'unità di senso, una risposta comune o un destino collettivo dovrebbe, se del caso, essere oggetto di indagine e di dimostrazione, e non essere una certezza data fin dall'inizio. Postulare che i gruppi etnici, intesi come volontà unitarie, sopravvivano alla colonizzazione, resistano alla modernità e si oppongano al pensiero occidentale (in quanto varianti dell'etno-argomento), è una spiegazione comune che troviamo in gran parte della letteratura antropologica. Il mio lavoro, invece, mi ha portato a mettere in discussione l'origine, la persistenza e la capacità riproduttiva di questa forma di ragionamento, nonché i suoi effetti nella formazione del dibattito pubblico in Messico.

P.M.: «Questo significa che l'antropologia è prigioniera della questione dell'identità?»

J.L.E.: Ho formulato questa domanda in un articolo, in modo da attirare l'attenzione sul problema dell'etno-argomento vendendolo da un'altra angolazione: quella dell'identità. Fin dai miei inizi in antropologia, ho visto molti colleghi cercare di capire la vita e le storie dei popoli che hanno studiato attraverso la nozione di identità. All'inizio del XX°secolo, in Messico sorse la preoccupazione per la costruzione della nazione e l'integrazione delle varie popolazioni "indigene". Queste popolazioni vennero classificate in gruppi etnici, e divennero così oggetto di particolare interesse per i nuovi studiosi – antropologhi – e per i funzionari dell'indigenismo; una politica questa, che mirava a integrare le popolazioni indigene attraverso la distribuzione di terre coltivabili (quando non ne avevano), la promozione di scuole, cliniche, e graie all'insegnamento della lingua nazionale (fornendo alfabetizzazione nelle lingue originali parlate in questi villaggi). Tuttavia, negli ultimi decenni del XX° secolo - in apparente contrasto con questa prospettiva modernizzante e sviluppista - è emersa anche una nuova narrazione dominante [*], secondo la quale i membri di questi popoli avevano adottato la loro etnia (originariamente imposta dallo Stato) e l'avevano difesa come propria. L'opinione maggioritaria ha stabilito una naturale continuità tra una cultura condivisa e un'identità etnica, percepita come una forma di resistenza all'integrazione. Da quel momento in poi, non c'è più stato spazio per apparenti incongruenze tra gli individui di questi popoli etnicizzati che cercavano qualcos'altro: elezioni con partiti politici, chiese evangeliche, radio, automobili e televisori, colture da reddito invece di mais per l'autoconsumo, andare a scuola e imparare lo spagnolo e l'inglese piuttosto che promuovere le loro conoscenze ancestrali; e, naturalmente, mobilitarsi per vari obiettivi, anziché dedicarsi esclusivamente alle lotte per l'autonomia. Naturalmente ci sono lotte per l'autonomia, o sforzi per rivitalizzare la conoscenza ancestrale, ma non è l'unica cosa che sta accadendo. Non esiste un unico scenario o un'unica traiettoria. È anche rivelatore il notare che queste storie sono spesso apparse in contesti di intensa interazione tra la popolazione indigena mobilitata e funzionari pubblici, sacerdoti, attivisti o antropologi (ruoli a volte combinati in una sola persona). L'identità è così diventata un eufemismo per l'atto discorsivo di confinare la diversità e la variabilità delle attività economiche, politiche o religiose entro i limiti dell'etnia, concepita come passato e destino naturale. Questo è ciò che è accaduto in antropologia, nonostante la ricchezza di esperienze etnografiche. L'uso dell'identità nel dibattito antropologico è quindi diventato per me un oggetto rilevante di riflessione antropologica, per la sua storia e la sua marcata presenza nel dibattito pubblico. Nell'articolo che ho citato, l'unica cosa che ho osato proporre è stata che l'identità sia più simile a una trappola, dalla quale l'antropologia dovrebbe cercare di uscire. E forse, per uscirne, è necessario ripensare l'antropologia stessa, non come studio dell'Altro, o dell'identità (pilastri del sostanzialismo di cui si parlava prima), ma come studio della non-identità, cioè della plasticità umana, e della produzione delle differenze. Perché si tratta soprattutto di chiedersi: come produciamo differenze? E perché la differenza si traduce quasi immediatamente in una differenza di culture o di etnie?

P.M.: «Di recente hai contribuito a un lavoro collettivo, intitolato "Beyond Indigenous Identity". Puoi dirci di più su questo progetto, che intende assumere l'alterità degli indigeni vedendola come "un oggetto da spiegare", e specificare così il tuo contributo?»

J.L.E.: Ho partecipato a questo libro con un testo che riprende un tema già affrontato nella letteratura antropologica: il contributo dell'antropologia, dato dall'Università di Harvard, agli studi dei Maya contemporanei del Chiapas. Mi interessa il modo in cui Evon Vogt, direttore dell'Harvard Chiapas Project, ha stabilito un legame tra un popolo contemporaneo e alcuni elementi materiali e documentari delle popolazioni coloniali e preispaniche. Si tratta di una variante dell'etno-narrazione (che Vogt chiama "etnostoria"), la quale consiste nel selezionare alcuni elementi (oscurandone altri) al fine di produrre un essere collettivo continuo: l'etnicità. La mia ipotesi è che: né questa forma narrativa né il suo referente siano totalmente coerenti; sostengo inoltre che l'etno-narrazione è, forse sorprendentemente, una forma retorica contemporanea. Molteplici, sono le forme materiali, di diversa densità e durata, in una vasta regione che va dall'Honduras allo Yucatán, e che testimoniano una storia complessa e antica. Ma è solo di recente, appena due secoli fa, che abbiamo cominciato a pensare a questa storia in termini di "civiltà", e che convenzionalmente chiamiamo Maya. Ciò che mi avvicina agli altri contributori di questo libro è, a mio avviso, uno sguardo diverso sulla questione dell'etnia: ci proponiamo di considerarla non come un dato di fatto, ma come una nozione in costruzione, una forma instabile per comprendere certe popolazioni nel Messico contemporaneo. Il libro mette in discussione una serie di idee preconcette sull'identità etnica, come l'idea che gli indiani nell'era coloniale e nazionale abbiano sempre vissuto su terre comunali, senza proprietà privata; oppure quella di una resistenza permanente a qualsiasi segno di civiltà o modernità, come la scuola o la scrittura. Al contrario, il lavoro di Emilio Kouri e di Gabriela Torres ci offre una visione ben documentata di quali sono le complesse forme di proprietà, e l'uso della terra nelle comunità coloniali indiane, e nelle popolazioni indigene odierne. Da parte loro, Ariadna Acevedo ed Elsie Rockwell mostrano quale sia la presenza viva della scuola e della scrittura nelle comunità indigene dell'epoca nazionale. Altri contributi rivelano l'isolamento non culturale e le diverse traiettorie di mobilitazione politica delle popolazioni indigene, come avviene nei casi analizzati da Peter Guardino e Michael Ducey. L'identità indigena sembra pertanto essere meno rigida e definitiva di quanto suggerisca gran parte della letteratura antropologica dominante. Il problema è che la nozione di identità indigena, in Messico, ha guadagnato un peso considerevole in aree come quelle della demografia ufficiale, la museografia, l'istruzione di base, il dibattito politico o la letteratura antropologica. Interviene perfino nelle discussioni sulla classificazione delle ossa in medicina o in museografia - come dimostra Laura Cházaro - o addirittura nei dibattiti sulla genetica, come analizza Vivette García. È come se una classificazione di ciò che è "messicano" e "indigeno" fosse stata congelata nel XX° secolo per poter servire come standard per definire chi siamo – anche per il lontano passato – e quale sarebbe stato il nostro destino. Questo, anche se - come mostra Paula López, e come lei e Ariadna Acevedo discutono nell'introduzione - l'etnicità non è sufficiente come spiegazione: si tratta di una nozione di costruzione che appare instabile, mutevole, e complessa anche per gli specialisti.

P.M.: «Qualche mese fa, l'archeologa francese Chloé Andrieu ha pubblicato un libro intitolato "I Maya non sono scomparsi", nel quale postula, in una certa misura, una continuità tra la civiltà Maya preispanica e i parlanti Maya di oggi. Tu, d'altra parte, invece, tendi a pensare che i Maya siano stati in qualche modo "inventati" dall'archeologia. Cosa vuoi dire con questo?»

J.L.E.: Questo è un argomento affascinante in sé. Innanzitutto, vorrei chiarire che non significa negare l'importanza della ricerca specializzata a proposito della "scoperta" dei "Maya", e della decifrazione della loro scrittura. Parlare della "costruzione" dei Maya, e mostrare che si tratta di una storia contemporanea, è solo un invito a sfumare il nostro punto di vista, e a porre così domande sul modo in cui la scienza contribuisce alla costruzione di narrazioni che poi vengono ampiamente diffuse nello spazio pubblico; narrazioni che hanno conseguenze molto reali sulla vita delle persone. L'affermazione che i Maya "non sono scomparsi", ad esempio, ha accompagnato, prima, l'immaginazione di esploratori, viaggiatori e poi di archeologi e antropologhi fin dal XIX° secolo. Si tratta di un gesto retorico che mira a valorizzare una storia, e a trasformare la nostra visione di alcune popolazioni, che in tempi diversi si sono confrontate con discriminazioni e rifiuti. Tuttavia, è anche importante chiedersi fino a che punto la narrazione intorno a ciò che è "Maya" non si basi su una visione che oscura e svaluta le traiettorie e le esperienze di esplorazione del mondo, che invece continuano ad esistere tra queste popolazioni. Le persone si trasferiscono, imparano cose nuove, vivono altrove, si appropriano di nuovi spazi, come i molti abitanti della vasta regione Maya che hanno vissuto negli Stati Uniti o in Canada, per esempio. Tuttavia, spesso vengono presi in considerazione solo se essi riaffermano la loro identità Maya.

P.M.: «In Francia, la produzione latinoamericana, e in particolare messicana, nelle scienze sociali è generalmente poco conosciuta. Tuttavia, almeno un libro sull'antropologia messicana, "Deep Mexico", di Guillermo Bonfil Batalla, è stato pubblicato in francese. Come ti relazioni con questo lavoro?»

J.L.E.: Questo libro è uno dei migliori esempi di etno-narrazione, scritto e pubblicato alla fine del XX° secolo. È antropologico, in quanto raccoglie brillantemente vari elementi della narrativa meso-americanista, e, per il grande pubblico, è anche un'opera letteraria che ha saputo ricreare con disinvoltura una duplice visione del Messico: da un lato, il "Messico immaginario", quello delle élite culturalmente disconnesse del paese, quello dei bastardi dell'Europa occidentale; dall'altro, un "Messico profondo", radicato, ancorato a una storia concepita come connessione quasi organica tra la popolazione indigena, il territorio, gli esseri viventi e le antiche cosmo-visioni. Leggere questo testo ti fa sentire - come messicano - un traditore, se hai abbandonato la tortilla, la lingua dei tuoi antenati e i villaggi con le loro feste, i legami familiari e le reti di compagni. Tutto il resto diverrebbe come falso, degradante in un certo senso, artificiale, senza essenza. Ciò che mi preoccupa di queste etno-narrazioni, tuttavia, è la loro profondità emotiva e vitalità nello spazio pubblico. Perché, mentre cercano in buona fede di rivalutare le persone, le pratiche, i saperi e gli oggetti, possono anche produrre forme di rifiuto, basate meno su un'analisi precisa di ciò che le persone fanno, o sul modo in cui essi costruiscono il loro futuro, e più su categorizzazioni generalizzanti. Inoltre, invece di fornirci strumenti per una comprensione più fine e più sfumata dell'esclusione e della disuguaglianza in tutta la loro complessità, queste narrazioni operano secondo schemi rigidi, che circolano facilmente in tutto lo spettro politico, da sinistra a destra. Non va dimenticato che queste forme di discorso, che sono sia essenzializzanti che emotivamente potenti, hanno alimentato anche forme di esclusione e regimi autoritari.

P.M.: «Negli ultimi quindici anni, c'è stato un boom di studi decoloniali nelle scienze sociali latinoamericane, e la maggior parte dei testi latinoamericani tradotti in francese oggi proviene da questo movimento. Come ti approcci,in quanto antropologo?»

J.L.E.: Le forme del discorso sostanzialista vengono riprodotte in diverse versioni. Ad esempio, c'è la versione etno-nazionale, in Messico e in altri paesi, spinta in particolare dall'interesse del XX° secolo per la costruzione di una cultura nazionale omogenea. La si ritrova anche nel multiculturalismo, il quale pretende di difendere la diversità, ma poi finisce per ridurla a una dualità tra Occidente e non Occidente, senza andare oltre le omogeneità essenzializzate chiamate culture o etnie. Questa logica appare anche nelle teorie decoloniali, per le quali il "colonialismo" – concepito come un trauma o come un punto di origine vecchio di cinque secoli – è la condizione fondamentale che determina la struttura, la forma e il destino di ogni storia sociale. Anche il prospettivismo antropologico – questa ricerca tra i popoli indigeni dell'America contemporanea di forme di ontologia radicalmente opposte all'Occidente – condivide con il pensiero etnico, culturalista, identitario e decoloniale il medesimo punto di partenza: l'idea di un'alterità amerindia essenziale, propria di quello che sarebbe un pensiero indigeno originale e puro. Naturalmente, si può esplorare questo pensiero non occidentale, e studiare gli effetti del colonialismo, ripetendo le formule già consolidate. Ma mi sembra che dobbiamo porci anche altre domande. Ad esempio: possiamo davvero postulare un "pensiero occidentale" così inequivocabile e lineare, come quello che viene spesso descritto in questa letteratura? Possiamo dire che c'è davvero un solo pensiero amerindio? E se invece, d'altra parte, le forme di produzione della conoscenza fossero assai più fluide, instabili e circolassero da secoli attraverso comunicazioni capillari e "sinapsi planetarie", che noi non siamo in grado di comprendere o percepire, proprio perché ci ostiniamo a bloccarle in dicotomie semplicistiche e narrazioni lineari? Allora, in questo senso, non sarebbe più fruttuoso uscire dalla contrapposizione tra pensiero decoloniale e pensiero occidentale? Oltre tutto, questi postulati hanno anche una loro storia, e noi dovremmo applicare ad essi la stessa curiosità critica che applichiamo ad altri oggetti. Dovremmo allora chiederci perché - per alcune società o gruppi umani - la storia assume molteplici forme, mentre invece per altre si mobilitano le etno-narrazioni, se si tratta di una presunta continuità culturale inalterata o di un riflesso di resistenza. Perché riserviamo questo tipo di argomenti a certe popolazioni del mondo, come se fossero fondamentalmente non occidentali? E da quando lo facciamo? Mi sembra che queste narrazioni etniche siano più un'eredità coloniale e un rigido occidentalismo, nonostante le loro intenzioni sinceramente decoloniali. È necessario riesaminare i presupposti sostanzialisti ed essenzialisti di questi discorsi, e riformulare i nostri problemi antropologici in un modo diverso così come, più in generale, quelli che sono i dibattiti pubblici sulla nostra storia e sulla nostra società condivisa. Negli spazi di produzione e ricezione delle narrazioni, l'antropologia potrebbe contribuire a dislocare le finzioni politiche ed estetiche, portandole oltre il canone essenzializzato di quelle figure retoriche come l'etnia, il Sud del mondo, o la resistenza. Potrebbe rilanciare, in termini nuovi, le questioni sulla variabilità e sulla plasticità umana, anche in termini di discriminazione o di colonialismo.

- Intervista pubblicata IL 3/9/2025 su https://boutique.revue-ballast.fr/produit/n12-revue-ballast/ -

NOTA: Ad esempio: Rodolfo Stavenhagen, L'emergere dei popoli indigeni, Springer-E Colegio de México, 2012; Miguel Alberto Bartolomé, Gente de costumbre, gente de razón. Identidades étnicas en México, México, Siglo XXI, 1997; Guillermo Bonfil Batalla, Messico Profondo. Une civilisation niée, Bruxelles, Zones sensible, 2017 (1987); June Nash, "La riaffermazione dell'identità indigena: risposte Maya all'intervento statale in Chiapas", Latin American Research Review, vol. 30, n. 3 (1995), pp. 7-41.

Nessun commento: