sabato 31 dicembre 2022

Come superare il capitalismo? Con un nuovo Brand !!

Un Rebranding del Capitalismo
- La fine liberale come inizio autoritario: quando gli economisti liberali di sinistra scrivono parlando della fine del capitalismo, si riferiscono alla sua formazione autoritaria -
di Tomasz Konicz

«perché là dove mancano i concetti s'offre, al momento giusto, una parola.
A parole si litiga meravigliosamente, a parole si tracciano i sistemi,
alle parole è un piacere credere, alle parole non si ruba un iota.»

(Dal Faust di Goethe)

Finalmente! Dopo tutti questi anni [*1] in cui i critici del valore - simili a predicatori solitari nel deserto - hanno affrontato l'impulso autodistruttivo del capitale e messo in guardia circa il collasso [*2] del processo civilizzatore, dovuto all'incompatibilità tra capitalismo e salvaguardia del clima [*3], sembra che ad affrontare la questione ora ci sia arrivata anche la parte dominante dell'opinione pubblica. Se consideriamo la crisi sistemica, nei confronti della quale tutti gli approcci che pregano per la salute del capitale [*4] sono destinati a fallire, ciò non dovrebbe sorprendere affatto. Benché il "Partito della Sinistra", opportunisticamente disonesto, all’interno del quale le bande nazional-sociali si contendono l'egemonia[*5] con quelle liberali di sinistra, resta fedele alla sua monotona demagogia sociale, abbiamo visto se non altro che Ulrike Herrmann, economista del quotidiano "Taz", organo della sinistra-liberale del partito dei Verdi che è  al governo, ha scritto un libro su "La fine del capitalismo", il cui sottotitolo dichiara l'incompatibilità esistente tra "crescita" e salvaguardia del clima. [*6]
Non è fantastico tutto questo ? La teoria radicale della crisi di Herrmann, completamente emarginata per anni, e non solo sul "Taz", sembra ora diventare "mainstream"! L'ex keynesiana Herrmann, che fino al 2018, nel suo bestseller "Senza capitalismo non c'è nemmeno una soluzione", si rifiutava di lasciar morire il suo amato capitalismo - arrivando perfino a fraintendere Karl Marx - ora non vede più alcuna alternativa al cambiamento del sistema. Herrmann - a differenza di molti ultraconservatori di sinistra che sono rimasti ancora bloccati nel XIX secolo - sembra che in pochi anni sia riuscita a mettere in atto un enorme cambiamento di idee, passando, da che era una sostenitrice della buona salute del capitalismo, a diventare una post-capitalista. Meglio tardi che mai! Che importa se alcune di quelle che sono le sue affermazioni centrali del nuovo libro possono dare l'impressione di essere state semplicemente copiate da alcuni testi di critica del valore, senza che ne sia stata fatta alcuna citazione delle fonti, o quanto meno un semplice riferimento a dove Herrmann abbia trovato improvvisamente le sue cognizioni, come quella relativa all'inevitabilità della "scomparsa" del capitalismo? Ad esempio, quando scrive che non esiste un'alternativa alla "rinuncia alla crescita", visto che altrimenti questa finirebbe violentemente, dal momento che sarebbe comunque arrivata ad aver «distrutto le basi della vita» [*7], questo appare come una resa - certo alquanto vaga - a quella che è una tesi centrale della critica del valore [*8]. La stessa cosa vale anche per l'osservazione della (ex?) fan di Keynes, secondo la quale i programmi di stimolo keynesiani rilanciano l'economia in tempi di crisi, ma allo stesso tempo alimentano letteralmente la crisi climatica [*9].
Sia nei media che nelle politiche tardo-borghesi, dove la concorrenza e il diritto d'autore sono sacri, il furto intellettuale viene considerato come un reato grave; esso viene combattuto per mezzo di veri e propri "cacciatori di plagi", e può perfino arrivare a porre fine alla carriera di politici o di giornalisti. Herrmann sembra che stia attingendo in maniera sfacciata al background della teoria della crisi della critica del valore, che per anni è stata sistematicamente emarginata, soprattutto nel suo giornale, senza che mai venisse citata. Per quelli che sono gli standard della sua classe media liberale tutto ciò è inaccettabile, si avvicina al furto intellettuale. Ma nell'ambito della sinistra, delle forze progressiste ed emancipatrici, valgono regole diverse. L'ideale è che prevalga un approccio "open source", per così dire. In questo caso, perciò, la conoscenza teorica e le scoperte sono beni comuni che possono e devono essere diffusi, e soprattutto criticati e sviluppati da tutte le parti interessate. La conoscenza è un processo collettivo che matura e si ottiene nella discussione dialettica, nella disputa. E il libro di Herrmann sembra voler soddisfare una rivendicazione progressista che è centrale nella manifesta crisi sistemica - in contrasto con la maggior parte delle emanazioni intellettuali provenienti dal "partito della sinistra": viene sottolineato in maniera chiara che per sopravvivere è necessario superare il capitalismo. Pertanto bisogna anche tener conto del fatto che Herrmann agisce come un fattore "moltiplicatore". Con le sue apparizioni sui media, e con un appoggio mediatico che comprende i verdi e i liberali, come è consuetudine nella scena della sinistra, può raggiungere decine o - se le cose vanno bene - perfino centinaia di migliaia di persone.

E quindi, in tal modo, di fronte a una crisi sistemica manifesta, la lotta per un futuro post-capitalista sta finalmente diventando mainstream? O, per dirla in altre parole: il libro di Herrmann è un contributo avanzato e progressista al dibattito sulla crisi? Certo, qualche dubbio iniziale può anche nascere, a partire dall'elogio sperticato che Herrmann fa del capitalismo per quelli che sarebbero stati i suoi presunti meriti (democrazia! prosperità! comodità!), prima di arrivare a  discutere dei limiti ecologici del suo sviluppo. Qui ovviamente entra in gioco la visione ristretta della classe media bianca tedesca, che ignora assolutamente quali sono le condizioni catastrofiche della periferia del sistema globale e del sottoproletariato dei centri. Ma anche così, si potrebbe qui ancora sostenere che l'elogio del capitalismo avrebbe lo scopo di attenuare quella necessaria frattura che proprio la classe media subirebbe, separandosi mentalmente dalla sua gabbia dorata capitalistica del pensiero. All'opposto, però, diventa più difficile mantenere una valutazione positiva della sua argomentazione nel momento in cui Herrmann, facendo riferimento allo slogan «System Change, not Climate Change», comincia a sviluppare alcune specifiche assai concrete relative a una forma "alternativa" di modello economico; le quali assomigliano in modo assai sospetto al vecchio capitalismo di Stato degli anni Trenta. L'economista del "Taz" fa riferimento, in un modo molto specifico, all'economia britannica del periodo bellico, la quale dovrebbe servire da modello a un'alternativa post-capitalista (per inciso, l'economia nazista del periodo bellico, a parte l'eccezione del lavoro forzato negli ultimi anni di guerra, per le sue caratteristiche di base non si differenzia quasi da quel modello). La pianificazione statale, il razionamento e la rinuncia ai consumi sono i metodi per ridurre rapidamente le emissioni. Insomma, alla fine Herrmann chiede che a ogni cittadino venga assegnato il medesimo limite di CO2, di una tonnellata all'anno, in modo che i ricchi dovranno limitarsi molto più della classe media o dei poveri.

Questo appello al capitalismo di Stato, viene affiancato da alcune idee ecologiche alternative provenienti dall'ambito dei Verdi: il movimento della post-crescita, l'economia di scambio o l'economia del bene comune. L'utilizzo condiviso dei beni, la riduzione dell'orario di lavoro, il reddito di base incondizionato, il riorientamento professionale sono tutte cose che in questo contesto vengono citate come misure di accompagnamento di una "economia di sopravvivenza" pianificata dallo Stato [*10]. Il capitalismo di Stato con una spruzzata di verde, per così dire. La rinuncia al consumo a partire da un razionamento dei beni organizzato dallo Stato, e corsi di yoga comunitari: sarebbe questa la cosiddetta "alternativa sistemica" di Herrmann, la quale può essere venduta come tale solo perché la giornalista si guarda bene dall'elaborare un concetto di Capitale, come nella sua recensione del libro ha osservato anche il settimanale "Freitag" [*11]. Che poi questo Capitale sia un processo illimitato di valorizzazione del lavoro salariato nella produzione di merci - una totalità che modella l'intera società a sua immagine e somiglianza [*12] - Herrmann già lo sospettava almeno a partire dal suo libro precedente, quando discuteva di Marx [*13]. Di tutto ciò, quel che rimane è solo il discorso regressivo e nebuloso sulla "crescita". Semplicemente, non è affatto chiaro cosa Herrmann intenda per capitalismo, facendo in modo che in questo modo le istituzioni, i processi o i fenomeni capitalistici possano essere venduti come post-capitalisti. La rinuncia al consumo auspicata da Herrmann, implica la continuazione del consumo, il quale è solo un'espressione della produzione di merci. Il consumo, a differenza della soddisfazione dei bisogni, è sempre un consumo di merci, vale a dire un sottoprodotto della ricerca del massimo profitto. In una società post-capitalista, però, i bisogni umani dovrebbero essere liberati dal busto compulsivo della forma merce. Herrmann vorrebbe quindi abolire il capitalismo e allo stesso tempo mantenere la «forma elementare» (Marx) del capitale: la merce come portatrice di valore. Tuttavia, la liberazione dei bisogni dalla costrizione a consumare nella forma della merce - cosa necessaria nel post-capitalismo - potrebbe far risparmiare enormi quantità di risorse, senza che questo venga percepito come «rinuncia al consumo».

Oh certo, la proprietà privata dei mezzi di produzione deve ovviamente essere mantenuta in quello che sarebbe il superamento del capitalismo nella «economia privata pianificata democratica» (è questa la definizione che Herrmann dà del capitalismo di guerra britannico). Ma questa fraudolenta etichettatura post-capitalista che viene usata da Herrmann si applica soprattutto allo Stato, che non è un contro-principio del mercato e del capitale, ma, nella sua veste di «capitalista globale ideale» (Marx/Engels), rappresenta un polo necessario delle società capitaliste, che serve a garantire il funzionamento del sistema nel suo complesso, come istanza correttiva. Storicamente, lo Stato ha svolto anche il ruolo di levatrice del capitale, attraverso la monetizzazione delle tasse feudali nella "gun economy" (Robert Kurz) dell'assolutismo, dipendendo a sua volta dal processo di valorizzazione del capitale attraverso le tasse [*14]. Senza una sufficiente valorizzazione del capitale, non esiste Stato; e viceversa. È questo il motivo per cui molti Stati della periferia sono collassati in serie nei famosi "fallimenti statali"  avvenuti durante i fenomeni di crisi degli ultimi decenni, perché in essi la crisi economica del capitale si è spinta a tal punto che anche gli apparati statali si sono inselvaggiti. In questo suo feticcio di Stato compatibile con la classe media, l'autrice di "Taz" si dimostra quindi ancora una volta completamente keynesiana. E a questo punto ci si deve vergognare che Herrmann abbia copiato dalla critica del valore solo il lato ecologico del processo di crisi del capitale, senza coglierne adeguatamente la dimensione economica [*15]. L'attuale crisi sistemica non è una mera riedizione della crisi di imposizione (Robert Kurz) degli anni '30 e '40, allorché il fordismo fece irruzione scoprendo un nuovo regime di accumulazione attraverso la mobilitazione totale in vista della guerra [*16]. Non esiste alcuna prospettiva di un nuovo regime di accumulazione, ed è per questo che le tendenze all'erosione dello Stato si stanno diffondendo sempre di più, anche nei centri: In Germania, sotto forma di organizzazioni e bande di destra che agiscono con sempre più disinvoltura e sicumera ("Taz", ad esempio, ha riferito sui piani di colpo di stato della Uniter & Co.); e alle quali Herrmann vuole ora affidare il controllo della riproduzione della società nel suo complesso. In molti casi, il capitalismo di Stato è già una realtà di crisi: ad esempio in Cina, oppure nella figura dell'oligarchia di Stato russa, o anche in Egitto, dove l'esercito egiziano sta costruendo una "economia di guerra" senza guerra [*17]. L'espansione dello Stato e l'erosione dello Stato vanno spesso di pari passo [*18]. È ovvio che Herrmann respingerebbe con indignazione le insinuazioni secondo cui la Russia o l'Egitto sarebbero modelli per lei. Ma è questa - così come le reti statali naziste nella Repubblica Federale Tedesca - la dura realtà della crisi, non l'ideale keynesiano dello Stato regolatore imparziale. Anche lo Stato capitalista viene colpito dalla crisi socio-ecologica del capitale. E allo stesso tempo continua a essere un normale riflesso della crisi capitalistica, evidente da quanto detto sopra, il fatto che in tempi di crisi il ruolo dello Stato aumenti. Con il progredire della crisi, lo Stato autoritario e "brutalizzante" giocherà un ruolo maggiore .

Ed è per questo che le osservazioni di Herrmann dovrebbero essere descritte come ideologia, come giustificazione. Forniscono la giustificazione per la prossima era di gestione autoritaria della crisi da parte dello Stato nella crisi capitalistica sistemica, che nel frattempo non sta devastando solo la periferia, ma sta colpendo in pieno anche i centri. Probabilmente, la paura della crisi della classe media tedesca darà a questa fuga autoritaria nelle braccia di uno Stato apparentemente forte, un sostegno massiccio, di cui molto probabilmente beneficerà la destra tedesca (l'AfD è già in ascesa). Questa giustificazione si attua con lo sventramento del concetto di capitalismo, che così degenera e viene reso una mera frase vuota che poi può essere riempita con qualsiasi contenuto. È una strategia mutuata dall'industria pubblicitaria, dove è diventata un'abitudine riempire le parole di contenuti a piacimento: poiché il capitalismo è caduto in discredito a causa della sua crisi economica ed ecologica permanente, ora la sua forma di crisi deve ricevere una nuova denominazione, una nuova etichetta: secondo l'ideologia centrale della redattrice di "Taz", la gestione della crisi capitalista che Herrmann propaganda non sarebbe più capitalismo. Ed è per questo che Herrmann non fornisce una definizione di capitale, e viene criticata da "Freitag": deve rimanere vaga per far funzionare il trucco del giocoliere ideologico. Gli attori del Partito Verde, il partito dei tagli sociali dell'Agenda 2010 e delle guerre di aggressione al diritto internazionale, ora sono alla guida della produzione di ideologia nella crisi climatica: la chimera del "capitalismo verde", propagandata con successo per anni, sta ora cedendo il passo alla mera ri-etichettatura - come post-capitalismo - della minacciosa gestione autoritaria della crisi. Tutto ciò esprime un'astuzia mefistofelica, con cui l'ideologia viene innalzata a un nuovo livello: per mezzo di parole vuote si fa un rebranding del capitalismo, che nel frattempo, a causa della sua crisi permanente, sta godendo di una pessima reputazione.

Ecco perché diventa legittimo anche indignarsi per il fatto che Herrmann, qui assolutamente nelle vesti di soggetto borghese della concorrenza, commette quasi un furto intellettuale, sottraendo da quello che è il loro contesto teorico  le intuizioni centrali della critica del valore, incorporandole in forma distorta nella sua ideologia. Ma un tale modo di procedere, è caratteristico di questo ambiente in rapida brutalizzazione che è costituito dalla classe media nella sua spietata competizione per la crisi, che va giudicata anche secondo i suoi stessi standard di copyright. Per finire, vale la pena notare come questo feticcio dello Stato tardo-keynesiano - anche nella sua versione idealizzata e in gran parte slegata dalla realtà - non abbia nulla a che fare con l'emancipazione, se intesa come superamento del feticismo capitalista e del suo assurdo regime di coercizione che ci sta portando al collasso socio-ecologico. L'emancipazione non è un "discorso vuoto" promosso da "brave persone", ma  è la necessaria e consapevole formazione del processo di riproduzione visto nel contesto di un discorso sociale egualitario globale assolutamente conflittuale. Il prerequisito per l'emancipazione dal capitalismo (e non nel capitalismo; cosa che contraddice qualsiasi emancipazione) consiste nell'avere un concetto di emancipazione. Sfortunatamente, alcuni esponenti della sinistra non sono in grado di abbandonare le loro cattive abitudini per cui non riescono a misurarsi realmente con il livello di critica categoriale richiesto dalla critica del valore [*19].

- Tomasz Konicz - Pubblicato su Exit! il 23/12/2022

NOTE:

1 https://www.konicz.info/2008/07/14/mit-vollgas-gegen-die-wand/
  2 https://konkret-magazin.shop/texte/konkret-texte-shop/66/tomasz-konicz-kapitalkollaps
  3 https://www.mandelbaum.at/buecher/tomasz-konicz/klimakiller-kapital/
  4 http://www.obeco-online.org/tomasz_konicz11.htm
  5 https://francosenia.blogspot.com/2022/10/autunni-caldi.html
  6 https://www.deutschlandfunk.de/ulrike-herrmann-sieht-kapitalismus-am-ende-100.html
  7 https://www.deutschlandfunk.de/ulrike-herrmann-sieht-kapitalismus-am-ende-100.html
  8 https://www.konicz.info/2019/05/27/minimalprogramm/
  9 https://www.nd-aktuell.de/artikel/1147322.klimaschutz-die-weltverbrennungsmaschine.html https://www.heise.de/tp/features/Das-Virus-die-Weltwirtschaft-und-das-Klima-4679329.html
  10 https://taz.de/Kapitalismus-und-Klimaschutz/!5879301/
  11 «Purtroppo, l'autrice non ci fornisce un concetto chiaro di ciò che vuole chiamare capitalismo nella sua essenza, anche se questo sarebbe effettivamente necessario per spiegare la necessità della fine del capitalismo. Fonte: https://www.freitag.de/autoren/der-freitag/das-ende-des-kapitalismus-ulrike-herrmann-will-geplante-kriegswirtschaft
  12 https://francosenia.blogspot.com/2022/10/le-cose-non-continueranno-essere-cosi.html
  13 https://de.wikipedia.org/wiki/Kein_Kapitalismus_ist_auch_keine_L%C3%B6sung#Karl_Marx
  14 https://francosenia.blogspot.com/2016/03/madama-la-bombarda.html
  15 https://www.untergrund-blättle.ch/wirtschaft/schuldenberge-im-klimawandel-7112.html
  16 https://exit-online.org/textanz1.php?tabelle=autoren&index=37&posnr=49&backtext1=text1.php
  17 https://carnegie-mec.org/2022/01/31/retain-restructure-or-divest-policy-options-for-egypt-s-military-economy-pub-86232
  18 https://francosenia.blogspot.com/2022/06/il-tempo-dei-mostri.html
  19 https://www.konicz.info/2022/12/10/das-geruecht-ueber-die-wertkritik/ Em Português

FONTE: EXIT!

giovedì 29 dicembre 2022

Un approfondimento !!

Renaud Garcia, Il vero problema dei "decostruzionisti" è il loro attacco all'idea di natura, 2022
- Intervista a Renaud Garcia

Nel 2015 ha pubblicato "Il deserto della critica. Decostruzione e politica", il quale ha avuto un certo impatto e alla quale lei hai appena aggiunto una sostanziosa prefazione. Di cosa parla questo libro?

Renaud Garcia: Sono partito dal constatare che un nuovo  lessico stava permeando tutti gli ambiti della critica sociale e culturale, e che il concetto di decostruzione, originariamente legato esclusivamente a una tecnica originale di lettura dei testi, stava ora diventando una forma di imperativo militante: bisognava decostruire le cose, e per  questo motivo i militanti si stavano dividendo e scannando. L'obiettivo del libro è stato quello di risalire dal sintomo alla malattia. Perciò sono andato a rileggere i filosofi della decostruzione (Derrida in primis, e poi Foucault e Deleuze), visto che, se non venivano citati per nome (cosa che accadeva spesso), il loro pensiero critico veniva scomposto e ridotto a dei "trucchi", a delle procedure che consentono di evidenziare alcune zone d'ombra della critica sociale. Di modo che questo ragionamento è diventato un espediente: ciò che viene considerato originale, fondamentale o addirittura naturale rimane sempre il risultato di una storia, se non addirittura un effetto del discorso. Da qui la possibilità di criticare, meccanicamente, in ogni ambito sociale, perfino in ogni epoca, il "patriarcato", la "etero-normatività", la "bianchitudine", ecc. Sei anni dopo, mi sono reso conto che ciò che avevo circoscritto solo alle correnti di estrema sinistra, oggi passa per essere quasi per un pensiero "emancipatorio" di buon senso. Così ho allargato il campo d'azione del mio lavoro, basandomi su esperienze vissute o studiate in diversi ambiti: scuole d'arte, ambiti cantautorali, serie televisive, social network, ecc.... in modo da mostrare quanto tale registro critico, che nasce da filosofie spesso astruse e rivolte ai non addetti ai lavori, si sia diffuso, non senza una perdita di qualità intellettuale, bisogna ammetterlo.

Come ha fatto il pensiero decostruzionista, tecnico ed esigente, a scomporsi nell'ambito militante, fino a diventare mainstream?

Renaud Garcia: Innanzitutto, soprattutto negli anni Duemila, si è visto chiaramente nascere un "momento decostruzionista" nelle Università, il quale ha contribuito a far dimenticare molte altre correnti filosofiche (la linea Lukacs/Scuola di Francoforte/Henri Lefebvre, il movimento situazionista, la corrente anti-industriale - Lewis Mumford, Simone Weil, Günther Anders, Jacques Ellul, Bernard Charbonneau). Tutta un'intera generazione di studenti si è così trovata di fronte a questo insegnamento che veniva visto come se fosse il massimo del pensiero critico, e hanno quindi contribuito a diffonderlo nelle loro lotte. L'uso della "cassetta degli attrezzi" decostruzionista (per usare un'espressione foucaultiana), è indubbiamente esaltante: una volta venuti in possesso di queste chiavi di lettura, è possibile utilizzarle quasi ovunque, con un effetto apparentemente radicale. Ad esempio, a livello di esperienza ordinaria, si può dimostrare alla persona a cui ci si rivolge che, essendo ciò che è, a causa del suo essere, quindi, reca in sé più o meno consapevolmente tutta una serie di rappresentazioni e atteggiamenti potenzialmente oppressivi. Se voi siete bianchi, potete, ad esempio, "micro-aggredire" una persona di colore chiedendole quale sia il suo Paese di origine. È come se il gesto iniziale attuato da Derrida fosse stato annesso e sistematizzato al fine di scoprire dietro ogni realtà una costruzione, una storia violenta, fatta di omissioni e di occultamenti. È uno strumento piuttosto ammaliante, in grado di far saltare tutto con la dinamite. Vengono evidenziate quelle che sono le dominazioni inosservate, e in tal modo il campo di consapevolezza sembra diventare assai più ampio. Ci dona la sensazione di avere una capacità critica decuplicata.

E in cosa questo è un problema? Non vi permette di proporre quei temi che vi stanno a cuore in quanto anarchici?

Renaud Garcia: C'è la legittima aspirazione che in una società libera ciascuno possa vivere e affermare ciò che è senza paura. Questo è ovvio. Il problema consiste nel tradurre tale aspirazione in realtà, supportandola con i meccanismi intellettuali di cui abbiamo appena parlato. Spinto all'estremo e trasformato in pensiero riflessivo, il gesto decostruttivo finisce per vaporizzare la realtà e l'alterità. Nel tracciare e inseguire le relazioni oppressive che si nascondono dietro ogni binarietà concettuale (natura/cultura, innato/acquisito, universale/particolare, maschile/femminile, ecc.), con il pretesto del rispetto dell'identità sentita (costruita/decostruita), si arriva a delle situazioni socialmente insostenibili di dissoluzione delle relazioni umane. L'immediata condivisione di una umanità comune svanisce di fronte ai protocolli di riassegnazione dei nomi, ad esempio nel caso delle identità di genere. Oppure dietro l'istituzionalizzazione, nei circoli di militanti, degli spazi "protetti" dalle micro-aggressioni (razziali, di genere, ecc.), dove si richiede l'empatia. È un po' come ordinare alle persone di essere spontanee. Beninteso, tra i pensatori della cosiddetta "French Theory", c'erano cose da scoprire e approfondire (benché resto convinto che sia possibile comprendere la realtà del mondo in cui viviamo senza passare attraverso di loro). Tuttavia, dato lo scarto tra l'originale e le copie, una critica genealogica di quelle che sono state le avventure della decostruzione mi sembra un passo indispensabile al fine di poter recuperare alcune delle nostre capacità di riflessione.

Proprio in quanto proveniente dal socialismo libertario, cosa ne pensa del convegno sulla decostruzione tenutosi alla Sorbona all'inizio dell'anno? Abbiamo visto soprattutto che c'erano persone ideologicamente vicine alla destra portare avanti questo tipo di discorso. In cosa si può distinguere una critica di sinistra del pensiero decostruttivo?

Renaud Garcia: È questo è uno degli scopi della prefazione: su questi argomenti, siamo continuamente costretti a riposizionarci, e a precisare, a volte anche inutilmente. Ciò è deplorevole, ma è così che vanno le cose. Qui, il mio filo conduttore rimane George Orwell. Si pensi all'editoriale per il quotidiano Tribune del 9 giugno 1944, in cui spiega che se si parla dei bassifondi di Londra, si può essere sicuri di venire citati dalle stazioni radio naziste. E per questo motivo si dovrebbe evitare di parlarne? Da parte mia, cerco di svolgere quella che viene definita una critica "interna", a partire dalle virtù della teoria critica. La mia argomentazione si sviluppa dal punto di vista dei movimenti che si oppongono all'attuale società tecnologica, quella che Günther Anders chiama lo "Stato tecno-totalitario" o "il mondo in quanto macchina" (nel suo libro "Noi, figli di Eichmann"). E da questo punto di vista il problema sta nell'attacco portato avanti dalle correnti della decostruzione contro alcuni concetti importanti, come la ragione analitica, il linguaggio, la verità e, in modo significativo, la natura. Quest'ultima viene vista come se fosse il residuo di un pensiero reazionario o fascista: per i decostruzionisti, evocare la natura significa sempre mobilitare l'argomento per cui "è così, e non possiamo farci niente". Oppure significa sempre fissare la realtà in alcuni quadri identificabili, in delle norme, in barba a ogni fluidità ( in gergo, si direbbe che si "essenzializza"). La tradizione a me cara, senza negare gli usi fraudolenti del naturalismo, sostiene che esiste un rapporto liberatorio con la natura, sia esterna che interna (questa "natura umana" così tanto criticata, ma che vale la pena ripensare). Meglio ancora, che la natura e la libertà si chiamano a vicenda. Tanto più nel momento che stiamo vivendo, quello di un capitalismo tecnologico che ci allontana dalla nostra natura, nel senso che distorce, o aliena, l'espressione delle nostre energie vitali: gli individui si riconoscono sempre meno nel loro lavoro, delegano le loro relazioni dirette ai sistemi digitali, fanno fare a un esercito di fattorini e di noleggiatori ciò che hanno disimparato a fare da sé soli, ecc.

Quindi questa critica dell'alienazione tecnica è perciò una grande lacuna nel pensiero decostruzionista?

Renaud Garcia: Sì. La neutralità della tecnologia è postulata nel pensiero degli autori che si dichiarano tali. C'è persino un fascinazione per la tecnologia vista come strumento di potenziale liberazione. Si pensi al testo canonico della filosofa americana Donna Haraway, il "Manifesto Cyborg" (1985), un'opera fondamentale per il femminismo queer, incentrata sull'idea di sovvertire l'identità di genere piuttosto che di rovesciare un sistema di potere. Sulla sua scia, molte pensatrici e attiviste hanno valorizzato il cosiddetto "ibridismo", vale a dire, posture o atti di "de-assegnazione" dell'identità, rifiutando in ultima analisi il soggetto "donna" come base della lotta femminista (in quanto troppo onnicomprensivo, e quindi normativo e discriminante). Per questo motivo, Haraway e i suoi epigoni hanno accolto lo sviluppo tecnologico come supporto materiale per la plasticità della forma umana. Idealmente, le persone che ritengono sia stata loro assegnata un'identità in cui non si riconoscono, potranno utilizzare gli strumenti offerti dalla tecnologia per cambiarla. Così, se ci si "ibrida" con la tecnologia, si può diventare qualcosa di diverso da un soggetto maschile, da un soggetto femminile, da un soggetto umano. Questo immaginario cyborg, esplicitato in Paul B. Preciado, ad esempio, è di fatto il trailer della marcia in avanti della tecnocrazia, l'alleanza tra capitale, conoscenza e potere. Ed è anche in sintonia con l'obiettivo del transumanesimo, sia esso sviluppato nella Silicon Valley o in alcune tecnopoli francesi come Grenoble: sostituire il pianificato al naturale.

Nella sua prefazione, lei porta avanti questa critica del capitalismo visto nella sua versione tecnologica. Stavolta si definisce "naturale"; da dove proviene questo aggettivo, e cosa comprende?

Renaud Garcia: Attualmente l'ecologia è onnipresente. Ma in generale, i discorsi che sentiamo più spesso su questo tema riguardano più la crescita verde che la decrescita. Esortano a uscire dalla crisi climatica attraverso l'innovazione tecnica, vale a dire, mobilitare la tecnologia per riparare i disastri causati dalla tecnologia stessa! In effetti, la parola "ecologia" è rimasta intrappolata; proprio come è avvenuto per il termine "vivere", che sta emergendo con i suoi nuovi pensatori, intorno a - e talvolta contro - Bruno Latour e Philippe Descola. Si dice che il vivente sia più "inclusivo" della natura, buona solo per essere gettata nella pattumiera ontologica. Io invece sostengo che è possibile reinvestire in questo concetto. Da qui la denominazione di "naturali". Si tratta di un'idea attorno alla quale ruota il geografo anarchico Élisée Reclus, per il quale "l'uomo è la natura che prende coscienza di sé stesso". In altre parole, noi viviamo insieme alla natura in una relazione di compagneria basata sulle nostre capacità riflessive; non veniamo ridotti a essa, alla natura, ma nasciamo, viviamo e moriamo (contrariamente all'illusione transumanista di abolire la morte, o di ridurla a un semplice crash del sistema) in essa e tramite essa. Ricordare questo rappresenta una liberazione dal capitalismo tecnologico, e non un ripiegamento oscurantista. Se evochiamo la storia puntuale dell'anarchismo, vediamo che i "naturiani" erano quei piccoli artigiani della Belle Époque che tentavano ciò che negli anni '70 sarebbe stato chiamato "ritorno alla terra". Essi, sono stati radicali nel sottolineare l'intreccio tra la salute del corpo e la salute della terra. Una minoranza assai esigua, che veniva derisa dagli anarchici operai e industriali. Si tratta quindi anche di un termine che rende omaggio agli sconfitti della storia, senza però dimenticare i loro fallimenti e le loro sconfitte.

Alla fine, si vuole reintegrare un momento conservativo nel percorso critico. È davvero conciliabile con la sua ideologia di base? Ogni anarchico non è forse essenzialmente progressista?

Renaud Garcia: Storicamente, la maggior parte degli anarchici è stata effettivamente progressista. Ora, il filosofo Aurélien Berlan ha mostrato chiaramente, in "Terre et Liberté" (La Lenteur, 2021), fino a che punto nella nostra tradizione intellettuale classica si oppongano due significati di libertà: liberazione e autonomia. Nel primo caso, mi libero dal peso dell'esistenza materiale facendo fare le cose da altri, o da un sistema di macchine; nel secondo, cerco di recuperare il più possibile i miei mezzi di sostentamento. A ben guardare, mi sembra che gli anarchici siano stati storicamente posseduti dalla fantasia di liberazione. Se si leggono gli ultimi testi del compianto David Graeber, ad esempio (nonostante tutte le altre sue finezze), si può davvero vedere all'opera questa ossessione per la liberazione tecnologica, questa idea che il capitalismo abbia in realtà limitato l'innovazione per lasciarne solo frammenti, sotto forma di gadget come lo smartphone. Questa tendenza ha soffocato l'altra, il che non facilita certo le cose. Ancora una volta siamo costretti a pensare contro la nostra stessa eredità.

La riabilitazione del concetto di natura, da parte sua, in definitiva serve a un progetto socialista riconciliatore delle identità?

Renaud Garcia: Le nozioni di alienazione e spossessamento presuppongono una riflessione minima sulla nozione di natura, considerata come il nostro ambiente vitale devastato dall'impeto del potere tecnologico, insieme a una riflessione su quelle situazioni in cui la nostra natura, le nostre potenzialità, vengono stravolte. Accorgersi di essere diventati zombie in un mondo notevole per la sua bruttezza (superfici di cemento, pannelli pubblicitari animati con colori sgargianti, campi di pale eoliche a perdita d'occhio, plastificazione generalizzata), accorgersi di non riconoscersi più in ciò che si fa, di essere esausti, ripiegati su sé stessi, significa anche accorgersi di essere in declino, di non coincidere più con sé stessi. Si tratta di quella che definirei un'involuzione delle nostre capacità, che ostacola la realizzazione a cui aspiriamo. In tal senso, il registro che in questo momento mi sembra interessante è quello della clinica e delle patologie del lavoro. Perché questo vale per tutti: ognuno di noi, indipendentemente da chi sia o da dove provenga, sperimenta le ingiunzioni a lavorare o a superarsi sul lavoro, così come i vincoli del management che ci spingono a diventare parte della macchina, come un ingranaggio. Ecco che allora, per una via minuscola, la coscienza può alzarsi e capire che la macchina deve fermarsi, perché è in gioco l'integrità della propria vita.

Intervista di Samuel Lacroix per la rivista Philosophie. File speciale "Decostruzione" (5/5) - 15 marzo 2022.

FONTE: Et vous n’avez encore rien vu… Critique de la science et du scientisme ordinaire

Un libro… ogni tanto…

Il Deserto della Critica. Decostruzione e politica
- Edizione riveduta e ampliata con una nuova prefazione dell'autore -
di Renaud Garcia

Decostruire... A partire da un concetto piuttosto esoterico, la sinistra "radicale" ne ha fatto un programma sistematico, che consiste nel sospettare un rapporto di dominio che esisterebbe sotto ogni idea, o comportamento. Le teorie della decostruzione, che oggi vengono veicolate dalla cultura "woke", creano un clima di sospetto e di intimidazione che non ha precedenti. Esse prosperano in quello che costituisce il deserto umano della tirannia delle identità. Malgrado le loro pretese "emancipatorie" o "critiche", rimangono del tutto cieche di fronte al problema principale del nostro tempo: la svolta totalitaria del capitalismo tecnologico.

martedì 27 dicembre 2022

Il terrore di un sogno !!??

« È divertente notare quanto Borges e Gombrowicz si assomiglino nella loro comune celebrazione della grandezza del provincialismo che costringe a costruirsi un proprio universo e una propria lingua. Così Borges ride di sé stesso quando si esprime a proposito di "Trans-Atlantico", un testo per il quale ha scelto un registro linguistico quasi intraducibile, insieme a una tematica che attacca direttamente i valori nazionali di quelli che potrebbero essere alcuni dei suoi rari potenziali lettori. Allorché definisce e classifica la produzione di grandi autori locali, chiamandola «letteratura nazionale», dimostra quanto poco interesse dedichi loro. È ovvio che abbia un rapporto quasi fraterno con Ernesto Sábato, così come una vera e propria ammirazione per Virgilio Piñera, scrittore cubano che tra il 1946 e il 1958, e a più riprese, scelse Buenos Aires come soggiorno, e che ben presto seppe percepire il valore dei testi dell'amico polacco. Tuttavia, in generale, non intrattiene dei rapporti reali con eventuali contraddittori o complici. Così è del tutto comprensibile che non cerchi la compagnia di un Roger Caillois, esiliato come lui a Buenos Aires durante la guerra e simbolo di quella cultura parigina così tanto apprezzata dalle élite locali, mentre invece, per contro, riconosce come fratelli di sangue Macedonio Fernández, Juan Carlos Onetti (il formidabile scrittore uruguaiano visse in Argentina dal 1945 al 1955) e, soprattutto, Roberto Arlt. Macedonio, come lo chiamano gli amici, è uno scrittore eccentrico che ha lasciato il segno in Borges. Poeta e romanziere, verrà apprezzato solo dopo la sua morte, in buona parte grazie al contributo del figlio Adolfo de Obieta, amico di Gombrowicz. Lo scrittore esiliato sembra aver colto lo spirito di Macedonio, e sa chi è. Ad esempio, dice l'eccentrico argentino: «La vita corrisponde al terrore di un sogno». Come il nostro polacco, Macedonio si impegna interamente in un'avventura estrema e senza compromessi. Entrambi sono presi dalla stessa febbre, spinti dalle stesse forze, ma non possono incrociarsi: avanzano, ciascuno, lungo un sentiero solitario, oscuro e ancora inesplorato»

(da: Philippe Ollé-Laprune, "Américas, um sonho de escritores", Estação Liberdade, 2022, p. 102-103)

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 26 dicembre 2022

Si comincia ?!!???

Gran Bretagna: la prima a cadere?
  - Il Regno Unito appare come l'anello più debole della catena dei paesi industrializzati occidentali (Seconda parte di una serie sull'attuale scoppio della crisi; qui la prima parte )-
di Tomasz Konicz [***]

Senza la Brexit tutto questo non sarebbe accaduto: la soddisfazione con cui la stampa tedesca segue il declino economico del Regno Unito, viene a malapena mascherata. È raro che un servizio sulle crescenti turbolenze finanziarie ed economiche nelle isole britanniche, non citi degli economisti [*1] o dei banchieri centrali [*2] che attribuiscano tali turbolenze all'uscita del Regno Unito dall'UE. Secondo il tenore pessimistico della stampa economica di lingua tedesca, quello che si profila a nord della Manica è una recessione prolungata [*3] che lascerà l'economia britannica indietro rispetto ai suoi concorrenti europei [*4], e che vedrà il Regno Unito sempre più emarginato [*5]. In tutto questo c'è molto di vero. Nelle isole britanniche ci sono effettivamente molti salariati minacciati dal collasso sociale. A metà novembre, l'Office of Budget Responsibility (OBR) del Tesoro britannico ha pubblicato una previsione economica a lungo termine per i prossimi anni [*6] che non ne fa affatto mistero: secondo l'OBR, entro la fine del 2024 la popolazione britannica dovrà affrontare un calo del tenore di vita del 7%, che segnerà il più grande calo, da quando è iniziata negli anni '50 la raccolta di materiale statistico corrispondente [*7]. Il reddito disponibile per le famiglie, già nell'anno fiscale 2022/23 appare destinato a diminuire del 4,3%, secondo l'OBR: anche questo è un record storico negativo [*8]. Nel frattempo, i guadagni di produttività che ci sono stati negli ultimi otto anni sono destinati a essere rivisti.

Sono diversi i fattori che contribuiscono all'incombente crisi sociale: l'inflazione britannica, trainata dall'aumento dei prezzi dell'energia e dei generi alimentari, è particolarmente elevata e ha raggiunto l'11,4% (ottobre 2022) [*9], mentre il Paese dovrà allo stesso tempo affrontare una recessione particolarmente lunga, nel corso della quale l'OBR prevede che circa 500.000 salariati diventeranno probabilmente disoccupati, con un tasso di disoccupazione che passerà dal 3,5% al 4,9%. Si prevede inoltre che entro il 2024 il prodotto interno lordo (PIL) del Regno Unito si contrarrà del 2%, e che il livello di PIL registrato prima della crisi, alla vigilia della pandemia avvenuto all'inizio del 2020, non verrà raggiunto nemmeno alla fine del 2024. La Banca d'Inghilterra ora parla della «più grande recessione dagli anni '30» [*10]. Nelle isole britanniche, il rallentamento economico totale ha effettivamente avuto inizio lo scorso agosto, quando il PIL è sceso leggermente dello 0,3% [*11]. In tutto il terzo trimestre del 2022, il Regno Unito ha visto la produzione economica contrarsi dello 0,2% [*12] Inoltre, malgrado la svolta attuata dalla banca centrale sui tassi d'interesse, si prevede che nel medio termine l'inflazione rimanga elevata: e per il prossimo anno viene stimata al 7,4%. Al calo dei redditi reali indotto dall'inflazione e dalla recessione, si aggiungono le conseguenze della crisi del settore finanziario e del mercato immobiliare, nonché l'impatto della svolta riguardo la politica monetaria della banca centrale. Molti acquirenti di case e molti mutuatari si trovano ora ad affrontare ulteriori oneri finanziari a causa del rapido aumento dei tassi di interesse, mentre il valore reale delle loro case sta rapidamente diminuendo a causa del calo dei prezzi e dell'elevata inflazione. Il previsto calo medio del 10% dei prezzi delle case, dovrebbe così portare a una perdita di valore reale di circa il 25% nei prossimi due anni di crisi, e questo a causa di una dinamica dell'inflazione superiore all'11% [*13].

Un ulteriore fattore di inflazione, è costituito dalla debolezza della valuta britannica, la quale negli ultimi mesi si è deprezzata nei confronti del dollaro USA - la valuta di riserva globale nella quale si svolge gran parte del commercio di beni ed energia - a causa del fatto che anche la Federal Reserve statunitense si sta muovendo rapidamente con la sua svolta sui tassi di interesse [*14]. All'inizio del 2022, la sterlina era ancora a 1,36 dollari, mentre a fine settembre era solo a 1,08 dollari. Solo dopo che Londra ha annunciato una politica di austerità fiscale in ottobre, la valuta britannica si è stabilizzata all'attuale livello di 1,22 dollari. L'apprezzamento del dollaro USA porta pertanto all'importazione di inflazione nel Regno Unito, che non ha quasi nessuna industria di esportazione significativa che possa trarre vantaggio da una valuta debole, mentre l'inflazione costringe anche i guardiani monetari di Londra a "stringere" la politica monetaria. L'aumento del tasso di base, da parte della Banca d'Inghilterra, al 3% all'inizio di novembre [*15] , cui farà seguito un ulteriore inasprimento dei tassi d'interesse, per cercare di contenere l'inflazione sotto le due cifre [*16] , sta a sua volta facendo salire i tassi d'interesse su prestiti e mutui, mentre molti mutuatari e detentori di mutui devono far fronte a un calo dei redditi. Nei prossimi due anni di crisi, circa due milioni di acquirenti di case dovranno affrontare costi ipotecari più elevati, con conseguente necessità di vendita di case e ulteriore pressione sui prezzi del mercato immobiliare. Inoltre, molte delle misure di sostegno e dei programmi di stimolo finanziati dal governo stanno per terminare, mentre la nuova amministrazione del Primo Ministro Rishi Sunak sta attuando misure di austerità e aumenti delle tasse per controllare il deficit di bilancio. Gli aumenti di tasse e i tagli alla spesa del governo britannico ammontano a 55 miliardi di sterline, e comprendono anche un'estensione dell'aliquota fiscale massima da parte dell'amministrazione conservatrice: la soglia dell'aliquota massima scenderà da 150.000 a 125.140 sterline di reddito annuo [*17]. Per inciso, l'ammontare del pacchetto di austerità corrisponde al precedente deficit di bilancio annuale di Londra, dove 30 miliardi di sterline dovevano essere risparmiati attraverso tagli alla spesa, e 25 miliardi di sterline dovevano essere raccolti attraverso l'aumento delle tasse [*18].

Al di là di tutto questo, la politica di austerità è finalizzata a scongiurare una crisi fiscale che, secondo le previsioni dell'OBR - se l'attuale corso della politica economica attiva finanziata dal debito dovesse continuare nei prossimi - sarebbe una minaccia. A partire dal 2026 in poi, il deficit di bilancio del Regno Unito sarebbe aumentato fino ad arrivare a oltre 100 miliardi di sterline. In ogni caso, la maggior parte delle misure di austerità entrerà in vigore solo dopo le «elezioni generali del 2024», le quali - ha osservato il Financial Times (FT) [*19] - dai politici dell'opposizione socialdemocratica (laburista) sono state interpretate come una «trappola». Inoltre, alla politica di austerità esiste un'eccezione: è stata mantenuta la sovvenzionare ai prezzi dell'energia; cosa che dovrebbe garantire ai consumatori un prezzo massimo, ma che ha aumentato il debito pubblico di 13,5 miliardi di sterline a novembre: 4,4 miliardi di sterline in più rispetto allo stesso mese nell'anno precedente [*20]. Tuttavia, questo pacchetto di austerità, insieme all'aumento delle tasse, rappresenta un cambiamento fondamentale della politica, in quanto il precedente governo di breve durata dello sfortunato Primo Ministro Liz Truss avrebbe voluto ancora implementare un programma completo di tagli alle tasse [*21]. I tagli fiscali, soprattutto per i ricchi e le imprese, avrebbero dovuto portare a un calo delle entrate di 45 miliardi di sterline. Lo scorso settembre, Truss voleva addirittura abolire del tutto l'aliquota fiscale massima. Ora, circa tre mesi dopo, Londra sta decidendo di aumentare le tasse di 55 miliardi di sterline. Secondo il FT, il più grande taglio delle tasse in 50 anni è stato ora, sotto il Primo Ministro Sunak, sostituito dal «più grande aumento delle tasse in 30 anni». La patria del neoliberismo sta perciò dicendo addio alla politica dei tagli fiscali e alla famigerata dottrina della Trickle-Down-Economics; secondo la quale le entrate aggiuntive per le imprese e per i ricchi sarebbero finite per «sgocciolare» verso le classi medie e basse. Invece, secondo l'OBR, l'aliquota fiscale salirà al 37,1% del PIL britannico; un record del dopoguerra. E alla fine, in ultima analisi, sono stati anche i «mercati» a segnare la fine di questa politica di crisi, comune ai centri del sistema mondiale, per mezzo della quale finora i governi erano stati in grado di attutire qualsiasi crisi per mezzo di misure di crisi finanziate dal debito e con una politica monetaria espansiva.

Alla fine di settembre, durante i «sette giorni che hanno scosso la Gran Bretagna» - come ha scritto il FT [*22] - Londra è stata letteralmente costretta a una drastica inversione di rotta fiscale. Il mercato dei titoli di Stato britannici ha subito delle gravi turbolenze, in risposta ai tagli fiscali del governo Truss, mostrando così i primi segni di un «crollo nucleare finanziario» (FT), vale a dire, di un collasso del sistema finanziario. Nel giro di pochi giorni, i tassi d'interesse obbligazionari sono letteralmente esplosi, passando dal 3,5% al 5% sulle obbligazioni trentennali, riflettendo in tal modo il calo dei prezzi delle azioni. I prezzi sono scesi solo perché c'era poca domanda di obbligazioni britanniche, visto che a molti operatori di mercato non era chiaro come Londra potesse finanziare i tagli alle tasse a fronte di un debito pubblico in rapido aumento. Un gestore di fondi si è lamentato con il FT, dichiarando che in 21 anni di carriera non aveva mai vissuto una situazione così drammatica, dato che a volte era semplicemente impossibile trovare degli acquirenti per i titoli di Stato britannici, o Gilt [N.d.T: Gilt:titoli di stato emessi dal Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, con scadenze da 1 a 50 anni e prevedono generalmente un tasso fisso, pagato con cedole semestrali. Vi sono anche Gilts irredimibili, che cioè non prevedono data di rimborso]. Anche durante la crisi finanziaria del 2008, «c'è sempre stato un mercato per i gilt». Per porre fine all'emergente «panico del mercato» (FT), la Banca d'Inghilterra è dovuta intervenire e - nel bel mezzo di una fase di inflazione a due cifre - ha acquistato 65 miliardi di sterline di titoli di Stato britannici; cioè ha finito per stampare moneta. Questo «programma di liquidità» della banca centrale britannica è finito solo a metà ottobre, dopo la svolta finanziaria di Londra [*23]. Il nuovo bilancio di austerità, ha pertanto anche lo scopo di stabilizzare il mercato dei gilts, dato che un'«economia del G7» è stata colta dal panico di mercato, secondo il FT. In passato questo genere di cose era più comune nel Sud globale, o nella periferia meridionale dell'UE, ad esempio in Grecia, Spagna o Portogallo all'inizio della crisi dell'euro. Ora la crisi sta esplodendo nei centri del sistema globale. I mercati obbligazionari sovrani sono di solito molto appetibili [*24], poiché vengono considerati una «banca sicura», nella quale gli investitori istituzionali, come le compagnie di assicurazione o i fondi pensione, vogliono investire il denaro in modo sicuro a lungo termine. E sono stati proprio molti fondi pensione britannici quelli che hanno dovuto invece subire una pressione crescente, a causa delle scosse finanziarie del mercato obbligazionario [*25]. Con un collasso del mercato obbligazionario, a perdere i loro soldi non sono solo alcuni speculatori: milioni di pensioni di tutta un'intera generazione di salariati vengono bruciate. Le onde d'urto di una vera e propria crisi del mercato obbligazionario scuoterebbero quindi non solo la sfera finanziaria, ma l'intera economia, attraverso il crollo della domanda e la contrazione del credito. Ed è per questo che la brusca svolta nella politica fiscale di Londra - con la revisione a metà ottobre di quasi tutti i tagli alle tasse - va interpretata come un tentativo di «calmare» i "mercati" agitati, che come hanno detto i media americani quasi non volevano più comprare titoli del debito britannico [*26]. Tuttavia, alla luce della rapida crescita del debito del Regno Unito [*27], queste «rassicurazioni» sembrano essere estremamente necessarie. Attualmente, il peso del debito pubblico britannico equivale oggi a quasi il 101,9% della produzione economica annuale del Regno Unito; mentre prima dello scoppio della pandemia era solo dell'84,4%. Il Regno Unito ha un onere del debito pubblico che è superiore alla media dell'UE, il quale  è pari all'86% del PIL. Anche Francia e Spagna hanno un onere del debito più elevato, rispettivamente al 113 e al 116%.

Le costose misure anticrisi, adottate da Londra in seguito allo scoppio della pandemia e alla guerra in Ucraina, si trovano ora a essere accompagnate da una recessione che, rispetto alla forza economica in declino, sta facendo crescere una montagna di debiti. Di conseguenza, appare quindi lecito chiedersi se i «pacchetti di austerità» di Londra possano davvero contribuire a ridurre il debito pubblico. Le economie nazionali non sono «casalinghe sveve». I programmi di austerità provocano un calo della domanda che può sfociare in una recessione, e a fronte di un PIL in calo, la cosa rende l'onere del debito ancora maggiore. Inoltre, l'austerità porta a una diminuzione del gettito fiscale e a un aumento della spesa sociale; così come avviene con la sicurezza sociale o con i sussidi di disoccupazione. Il fenomeno di quello che è un vero e proprio «salvataggio nel fallimento» è ben noto già a partire dalla crisi dell'euro, come è stato esemplificato in Grecia dal sadismo dell'austerità dell'allora ministro delle Finanze tedesco Schäuble in Grecia. Ciò che ora si sta manifestando pienamente nel Regno Unito, è semplicemente la trappola della crisi fondamentale [*28] della politica borghese, che ormai non sembra avere più alcuna via d'uscita sistemica per ritardare la crisi. Per quel che riguarda lo sviluppo futuro della crisi, il Regno Unito può scegliere tra due strade: Londra può emulare Schäuble, e imboccare la strada deflazionistica dei programmi di austerità, che potrebbe in ultima analisi portare alla delineata «bancarotta salvifica», oppure il governo britannico può costringere la banca centrale a continuare a stampare denaro fresco attraverso l'acquisto di titoli di debito britannici, cosa che trasformerebbe l'attuale inflazione in iperinflazione. Anche sul Tamigi, l'era neoliberale del capitalismo zombie finanziato dal debito [*29] sta per finire. La grande differenza con la tragedia dell'Europa meridionale - che durante la crisi dell'euro [*30] è stata quasi spinta al collasso sociale da Berlino  - risiede nel fatto che, nel caso della Gran Bretagna, si tratta di un Paese del centro, si tratta di uno Stato del G7 che ora si trova ad affrontare la totale penetrazione delle dinamiche di crisi. La crisi globale del capitale [*31], che negli ultimi decenni ha già devastato ampie zone della periferia del sistema mondiale [*32], sembra perciò aver ora finalmente raggiunto i centri. E in primo luogo, si manifesterà soprattutto nel «declino degli standard di vita» dei salariati - cosa di cui si è parlato all'inizio di questo articolo - contro il quale l'attuale movimento di sciopero nelle isole britanniche [*33] continuerà a essere impotente, almeno fino a quando non svilupperà una prospettiva anticapitalista e trasformatrice [*34].

A seguito della Brexit, la Gran Bretagna è diventata, in un certo senso, l'anello più debole nella catena degli Stati centrali del sistema tardo-capitalista in erosione. L'Italia, che solitamente viene trattata come il grande candidato alla crisi in Europa, ha un debito del 150% del PIL; superiore a quello del Regno Unito. Ma nei suoi sforzi di stabilizzazione, Roma può contare sulle risorse della BCE e dell'Eurozona, a condizione che Berlino conservi un interesse fondamentale a mantenere la moneta unica europea. Le dimensioni dell'area valutaria europea fanno sì che essa possa rimanere stabile per un periodo di tempo più lungo e sia in grado di assorbire meglio gli shock da crisi rispetto alle economie isolate. Dopo la Brexit, Londra rimane solo la Banca d'Inghilterra e un PIL non superiore al 19% di quello dell'UE - e questo non è sufficiente per evitare che nel medio termine si trasformi in una seconda Turchia, dove l'inflazione potrebbe ben presto raggiungere cifre a tre zeri [*35]. Tuttavia, anche la soddisfazione tedesca menzionata all'inizio rischia di svanire presto. La Gran Bretagna, che ora è appena solo più avanti, potrebbe essere forse il primo paese del centro occidentale a cadere, ma è inevitabile che la crisi si manifesterà pienamente anche in tutti gli altri.

- Tomasz Konicz [***] - Pubblicato il 24/12/2022  -


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NOTE:

1 https://www.spiegel.de/wirtschaft/soziales/britischer-ex-zentralbanker-ohne-brexit-muessten-wir-keinen-sparhaushalt-diskutieren-a-7794b387-306e-4da9-8fde-96847cc63deb

2 https://www.welt.de/wirtschaft/article242184557/Grossbritannien-Zentralbank-macht-Brexit-fuer-schlechte-Wirtschaftslage-verantwortlich.html

3 https://www.tagesschau.de/wirtschaft/weltwirtschaft/grossbritannien-industrieverband-rezession-101.html

4 https://www.spiegel.de/wirtschaft/sehr-reale-sorge-dass-grossbritannien-von-wettbewerbern-abgehaengt-wird-a-32d38199-a9c0-44db-81e7-cdff11e3d67a

5 https://www.derstandard.de/story/2000141668233/brexit-rezession-streiks-britische-wirtschaft-geraet-ins-abseits

6 https://obr.uk/overview-of-the-november-2022-economic-and-fiscal-outlook/

7 https://www.theguardian.com/business/2022/nov/17/obr-confirms-uk-enters-year-long-recession-with-half-a-million-job-losses-likely

8 https://www.ft.com/content/5f081f77-ed30-4a06-864e-7e4cc3204017

9 https://www.ft.com/content/1fcc250c-c1c5-4820-a5f4-4e48662a73aa

10 https://www.theguardian.com/business/2022/nov/03/bank-of-england-raises-interest-rates-to-3-percent

11 https://www.tagesschau.de/wirtschaft/weltwirtschaft/grossbritannien-rezession-bip-bank-of-england-101.html

12 https://edition.cnn.com/2022/11/11/economy/uk-economy-recession-europe/index.html

13 https://www.ft.com/content/528500c8-7cfa-4aaf-9fca-7692aafeb9ce

14 https://www.konicz.info/2022/12/09/geldpolitik-vor-dem-bankrott/. In italiano: https://francosenia.blogspot.com/2022/12/al-capezzale-del-capitale.html

15 https://www.theguardian.com/business/2022/nov/03/bank-of-england-raises-interest-rates-to-3-percent

16 https://www.theguardian.com/business/2022/dec/11/bank-of-england-set-to-spoil-the-festive-mood-with-another-interest-rate-rise

17 https://www.faz.net/aktuell/wirtschaft/wie-rishi-sunak-den-britischen-schuldenberg-abbauen-will-18467860.html

18 https://www.ft.com/content/df59e66a-1659-428e-b96a-b0419ed584b1

19 https://www.ft.com/content/5daeca83-dc55-4371-bfe3-b20140cf1fe1

20 https://www.ft.com/content/da60d21b-7fe0-4b1f-85c7-bbf3f4a0b2f6

21 https://www.nytimes.com/2022/09/23/world/europe/uk-tax-cuts-economy.html

22 https://www.ft.com/content/1ace8d42-f3ee-4fdd-a103-5cd4234e8c42

23 https://www.nytimes.com/2022/10/12/business/dealbook/britain-markets-turmoil-gilts-pound-andrew-bailey.html

24 https://www.konicz.info/2022/07/22/schuldenberge-in-bewegung/. In italiano: https://francosenia.blogspot.com/2022/09/tediosi-monotoni-e-mortalmente-noiosi.html

25 https://edition.cnn.com/2022/10/08/investing/uk-pension-funds-market-chaos/index.html

26 https://www.cnbc.com/2022/10/17/uks-new-finance-minister-sets-out-.html

27 https://www.ons.gov.uk/economy/governmentpublicsectorandtaxes/publicspending/bulletins/ukgovernmentdebtanddeficitforeurostatmaast/june2022

28 https://www.konicz.info/2022/12/09/geldpolitik-vor-dem-bankrott/. In italiano: https://francosenia.blogspot.com/2022/12/al-capezzale-del-capitale.html

29 https://www.streifzuege.org/2017/wir-sind-zombie/

30 https://www.konicz.info/2015/07/27/willkommen-in-der-postdemokratie/

31 https://www.konicz.info/2011/11/29/kurze-geschichte-der-weltwirtschaftskrise/

32 https://www.konicz.info/2013/05/27/mad-max-im-zweistromland/

33 https://www.nytimes.com/2022/12/14/world/europe/uk-strikes-winter-discontent.html

34 https://www.konicz.info/2022/10/12/emanzipation-in-der-krise/. In italiano: https://francosenia.blogspot.com/2022/10/le-cose-non-continueranno-essere-cosi.html

35 https://www.statista.com/statistics/895080/turkey-inflation-rate/

giovedì 22 dicembre 2022

Storylandia …

L’essere umano è l’animale che racconta storie. Jonathan Gottschall ha usato questa fortunata metafora in L’istinto di narrare, descrivendo magistralmente quell’ecosistema di finzione narrativa nel quale siamo immersi e che caratterizza in maniera così peculiare la nostra specie. Le storie creano la struttura delle nostre società, fanno vivere a ogni persona migliaia di vite, preparano i bambini alla vita adulta e formano i legami che ci consentono di convivere in pace.
Ma tutto questo ha un lato oscuro che non possiamo più ignorare: le storie potrebbero anche essere la causa della nostra distruzione. Con questo libro Jonathan Gottschall torna sul tema della narrazione con tutto il bagaglio interdisciplinare delle sue conoscenze, attingendo alla psicologia, alla scienza della comunicazione, alle neuroscienze e alla letteratura per raccontarci fino a che punto le storie siano in grado di influenzare il nostro cervello e le nostre vite. E non sempre per il meglio. La narrazione ha agito nel corso della storia come collante delle società, certo, ma è anche la forza principale che disgrega le comunità: è il metodo più efficace che abbiamo per manipolare il prossimo eludendo il pensiero razionale. Dietro i più grandi mali della civiltà – il disastro ambientale, la demagogia, il rifiuto irrazionale della scienza, le guerre – c’è sempre una storia che confonde le menti. Le nuove tecnologie amplificano gli effetti delle campagne di disinformazione, e le teorie del complotto e le fake news rendono quasi impossibile distinguere i fatti dalla finzione, per cui la domanda che dobbiamo porci urgentemente è: «come potremo salvare il mondo dalle storie?».

(dal risvolto di copertina di: Jonathan Gottschall, "Il lato oscuro delle storie". Bollati Boringhieri, pagg. 274, € 24)

Racconti da paura
- L’arte dello storytelling non è mai neutra, anzi può fare molto male: l’analisi impietosa dello studioso   Jonathan Gottschall -
di Roberto Esposito

Dopo tutto non aveva torto Platone a espellere poeti e narratori dalla città ideale. Anzi aveva capito prima degli altri che le storie non sono innocui passatempi, ma strumenti velenosi usati per influenzare gli uomini. Non per nulla ne racconta lui stesso una, quella del re filosofo, anch’essa fatta per catturare i lettori. A differenza di Aristotele che riteneva gli esseri umani animali politici, o di Freud che li voleva animali desideranti, Platone li considera animali narranti, impegnati a raccontare, e ad ascoltare, storie. Non perché alieni dal desiderio di potere, ma per esercitarlo meglio. Con armi più affilate e veleni più letali.

Questa è la tesi, originale e brillante, avanzata da Jonathan Gottschall ne Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge, edito da Bollati Boringhieri. Come le cementa, l’autore lo aveva spiegato nel libro precedente L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani, sempre da Bollati. Adesso si concentra su come le distrugge. Le due facce — luminosa e oscura — delle storie non si escludono a vicenda. Sono anzi complementari. I racconti possono salvare o perdere coloro cui si rivolgono, a seconda di come vengono recitati e soprattutto ascoltati. Le parabole di Gesù di Nazareth hanno avuto un potente effetto salvifico, facendo di una storia di persecuzione la più influente religione del mondo. Il racconto dei Savi di Sion ha prodotto il massacro più terribile di tutti i tempi. Eppure, nonostante l’abissale differenza, hanno qualcosa in comune — la capacità di condizionare gli uomini, facendoli agire in una determinata direzione. Non importa quanto sia verosimile quel che ci viene raccontato. Anzi, quanto più fantastiche, tanto più le storie colpiscono e catturano l’attenzione. Altrimenti non si capirebbe il numero, non proprio esiguo, di coloro che credono alla terra piatta o perfino che siamo schiavi inconsapevoli di lucertole provenienti da un’altra dimensione. La forza irresistibile di queste fandonie sta proprio nel distacco dalla realtà, che ci trascina lontano dalla noia di tutti i giorni e perfino da noi stessi, risucchiandoci in un universo incantato che immobilizza il nostro sguardo.

La lotta per il potere passa anche per questo strumento. Oggi lo sappiamo, le grandi potenze lavorano per orientare l’opinione pubblica non solo del proprio paese, ma anche di quelli altrui. Del resto dietro ogni leader in ascesa c’è una macchina narrativa per farlo crescere a scapito degli altri. Senza arrivare alle tesi estreme di Vance Packard, che ipotizzava una persuasione occulta capace di penetrare nel nostro inconscio mediante messaggi subliminali, basta girarsi intorno. Siamo immersi in una girandola di storie — “storilandia”, la definisce Gottschall — che si contendono la nostra mente. L’autore non si tira fuori da questa dinamica. Ne fa parte, ma con l’onestà di dichiararlo. Anche chi scrive libri crea una realtà parallela in cui cerca di attrarre i lettori, seducendoli con un’ipotesi quanto possibile convincente. Ciò non vuol dire predicare un assoluto relativismo, declinare ogni responsabilità. Intanto perché le storie — alle quali comunque non possiamo sottrarci — non sono tutte eguali. Possono creare empatia o rancore, unione o divisione, spingere alla solidarietà o alla violenza. Essere tigri o principesse. Ma soprattutto la loro efficacia è molto diversa. Per essere avvincente, una storia deve avere determinate caratteristiche. Essere drammatica, rappresentare un conflitto radicale, mettere in scena personaggi negativi. Inutile illuderci: a storilandia il male attrae più del bene, come diversamente sostiene Arturo Mazzarella ne "Il male necessario. Etica ed estetica sulla scena contemporanea", ancora da Bollati. Perciò se raccontiamo che c’è qualcuno che vuole drogarci con il vaccino muoviamo più interesse che se diciamo che vogliono semplicemente curarci. E sostenere che l’allunaggio è stato prodotto a Hollywood è più interessante che ammettere sia avvenuto realmente.

La conclusione, un po’ inaspettata, dell’autore è che, rispetto allo scambio tra realtà e finzione non dobbiamo rimanere inerti. Conoscere il potere delle fake news o dei racconti complottisti ci impegna a reagire. Come? Non fuggendo da storilandia — sarebbe impossibile. Ma abitando in essa con maggiore consapevolezza. A farlo — egli afferma — dovrebbero essere l’accademia e i media. Ma non si nasconde la difficoltà dell’impresa. Non fosse altro per il nuovo conformismo che, soprattutto in America, sta montando. Basti pensare alla cancel culture e all’ostracismo diffuso nei confronti di ogni pensiero scomodo e contro-corrente. La conclusione, non incoraggiante, di Gottschall è che mentre si rivendica fedeltà assoluta alla libertà, si fa di tutto per scoraggiarla.

- Roberto Esposito - Pubblicato su Robinson dell'8/10/2022 -

martedì 20 dicembre 2022

Ben scavato vecchia talpa !!

Il tasso di profitto statunitense nel 2021
- di Michael Roberts -

Ogni anno, analizzo il tasso di profitto del capitale negli Stati Uniti. E questo perché i dati statunitensi sono i più esaurienti e i migliori, dal momento che gli Stati Uniti sono la più importante economia capitalistica, la quale spesso delinea quali sono le tendenze del capitalismo globale. Ora abbiamo i dati per il 2021 (limite a cui arrivano i dati nazionali ufficiali). Per misurare il tasso di profitto, ci sono molti modi (alla maniera di Marx: vedi http://pinguet.free.fr/basu2012.pdf). Io preferisco misurarlo guardando al plusvalore totale di un'economia, visto in relazione al capitale privato totale che viene impiegato nella produzione; per cercare di avvicinarmi il più possibile alla formula originale di Marx di s/(C+v) - dove s = plusvalore; C = capitale costante – il quale dovrebbe includere sia le attività fisse (macchinari, ecc.) sia il capitale circolante (materie prime e componenti intermedi); e dove v = salari o costi dei dipendenti. I miei calcoli possono essere replicati e verificati facendo riferimento all'eccellente manuale che spiega il mio metodo, gentilmente compilato dallo svedese Anders Axelsson. Definisco il mio calcolo come una misurazione «di tutta l'intera economia», a partire dal fatto che essa,  per calcolare il plusvalore (s), si basa: sul reddito nazionale totale al netto degli ammortamenti e delle retribuzioni dei lavoratori; sul capitale fisso privato non residenziale al netto del capitale costante (e pertanto non include il governo, le abitazioni e gli immobili) (C); e sulle retribuzioni dei lavoratori per quel che riguarda il capitale variabile (v).

Ma, come detto in precedenza, il tasso di profitto può essere misurato solo sul capitale aziendale, o solo sul settore non finanziario del capitale aziendale.  Inoltre, i profitti possono essere misurati al lordo o al netto delle imposte, e la parte fissa del capitale costante può essere misurata in base al suo «costo storico» (il costo originario di acquisto) oppure al «costo corrente o di sostituzione» (cioè, quanto vale ora o quanto costerebbe sostituire il bene ora). In esso possiamo anche includere il capitale circolante (materie prime e componenti utilizzati in un periodo di produzione) oltre che alle immobilizzazioni (macchinari, uffici, ecc.).
C'è stata un grande dibattito a proposito di quale misura di capitale fisso utilizzare, per meglio avvicinarsi alla visione marxiana. Per una spiegazione di questo dibattito, si possono vedere i miei post precedenti e il mio libro "La lunga depressione" (appendice). Le immobilizzazioni possono essere misurate in quanto costi storici (HC) o in quanto costi correnti (CC). La differenza è causata dall'inflazione. Se l'inflazione è elevata, come tra gli anni '60 e la fine degli anni '80, la divergenza tra le variazioni della misura HC e della misura CC sarà maggiore - si veda http://pinguet.free.fr/basu2012.pdf.  Quando l'inflazione diminuisce, si riduce anche la differenza tra le variazioni delle misure HC e CC. Nel corso del periodo dell'intero dopoguerra (fino al 2021) si è registrato un calo secolare del tasso di profitto statunitense del 27%, se misurato sull''HC, e del 26% se misurato sul CC. Pertanto, per una misurazione empirica del tasso di profitto sul lungo periodo, non c'è da scegliere tra le misure HC e CC. Più o meno coincidono!

Di solito, la maggior parte delle misurazioni marxiste esclude qualsiasi misurazione del capitale variabile, dal momento che la «retribuzione dei dipendenti» (salari più benefit) non rappresenta uno stock di capitale investito, quanto piuttosto un flusso di capitale circolante che si trasforma più di una volta all'anno; e questo tasso di turnover non può essere misurato facilmente a partire dai dati disponibili. Perciò la maggior parte delle misurazioni marxiste relative al tasso di profitto sono solo s/c.  Ma tuttavia, alcuni marxisti hanno fatto dei tentativi per misurare il turnover del capitale circolante e del capitale variabile in modo da poterli includere nel denominatore, ripristinando così la formula originale di Marx s/(C+v). Tra questi, Brian Green ha svolto un importante lavoro di misurazione del capitale circolante e del suo tasso di rotazione per l'economia statunitense, al fine di incorporarlo nella misura del tasso di profitto. Egli ritiene che ciò sia fondamentale per poter stabilire il corretto tasso di profitto, e come indicatore di probabili recessioni.  Ecco il post di Green a proposito del suo metodo: https://theplanningmotivedotcom.files.wordpress.com/2021/11/1997-2020-various-rates.pdf. Il lavoro svolto da Green, è prezioso poiché mostra le variazioni a breve termine dei tassi di plusvalore e di profitto causate dai cambiamenti del capitale circolante. Green considera queste variazioni a breve termine come un importante indicatore dei cicli di boom e di crollo in un'economia capitalista. Tuttavia esse non alterano in modo significativo le tendenze a lungo termine del tasso di profitto. Se includiamo il capitale circolante e il capitale variabile nella misurazione del tasso di profitto, questo farà la differenza sul livello del tasso di profitto, ma non la farà molto sull'andamento e sulle variazioni del tasso di profitto dal 1945. Precedentemente, ero solito fare i miei calcoli annuali del tasso di profitto statunitense, per l'intera economia e per il solo settore aziendale. Ma ora possiamo utilizzare l'eccellente database prodotto da Deepankur Basu e Evan Wasner (https://dbasu.shinyapps.io/Profitability/) relativo solo al settore delle imprese, e che è simile al mio metodo di misurazione del tasso di profitto. Ho quindi replicato i loro risultati, evidenziando dove il tasso di profitto è diminuito e dove è aumentato. La misurazione di Basu-Wasner esclude dal denominatore il capitale variabile.  È possibile però includerlo utilizzando il loro database, ma non fa molta differenza per quanto riguarda le tendenze e i punti di svolta del tasso di profitto dal 1945.  Il grafico in apertura mostra il tasso di profitto statunitense nel settore delle imprese fino al 2021.

Leggendo tale grafico, la prima cosa da notare è che la legge di Marx sulla tendenza al ribasso del tasso di profitto viene confermata dall'andamento del tasso di profitto statunitense: nel periodo 1945-2021 esso è sceso del 27%. Può anche essere notato l'enorme calo della redditività, dal 1965 al 1982, dal 23,2% al 13,5%. E si può individuare una ripresa durante il cosiddetto periodo neoliberista, a partire dal 1982, che arriva fino al 17,5% nel 2006. In seguito, il tasso di profitto scende gradualmente, ma lo fa seguendo una serie di boom e di crolli, in quello che io chiamo il periodo della Lunga Depressione, e he scende fino al 16,3%. A partire da questa misurazione, si nota anche che il tasso di profitto delle imprese statunitensi è aumentato, dal 1982 fino al picco del 2006. Si potrebbe pertanto sostenere, come hanno fatto alcuni, che se il tasso di profitto statunitense ha raggiunto un massimo di 25 anni nel 2006, allora la legge di Marx non andrebbe considerata come la spiegazione della Grande Recessione del 2008-9. Ma se però guardiamo solo al settore delle imprese non finanziarie (NFC), il quale costituisce una rappresentazione di quella che potremmo definire la parte «produttiva» dell'economia capitalista (nella quale i lavoratori creano nuovo valore per i capitalisti), ecco che allora la storia comincia a essere diversa. Nella teoria marxiana del valore, il settore finanziario non crea nuovo valore: ma si appropria di una parte del profitto estratto dal lavoro nel settore non finanziario (produttivo). Ed è proprio l'aumento dei profitti del settore finanziario, in particolare a partire dal 1997, che fino al 2006 distorce il tasso di profitto aziendale fino (si veda il grafico seguente).

Pertanto, l'analisi del tasso di profitto del settore non finanziario appare essere più rilevante di quella che è la salute complessiva dell'economia capitalistica statunitense. Se escludiamo dai dati l'aumento dei profitti finanziari, allora ecco che si scopre che la redditività del settore non finanziario ha raggiunto il suo picco molto prima del 2006, ovvero nel 1997.

Il grafico delle imprese non finanziarie (NFC) mostra anche come negli Stati Uniti, negli ultimi 75 anni, si sia verificata una caduta secolare del tasso di profitto del capitale non finanziario; alla maniera di Marx.  Basu-Wasner ha calcolato il calo medio annuo del tasso di profitto a -0,42%. Tra il 1945 e il 2021, il tasso di profitto delle NFC è sceso del 32%.  Nella cosiddetta «età dell'oro» del capitalismo statunitense del dopoguerra, il tasso di profitto delle NFC era assai elevato, con una media superiore al 20% e con un aumento del 6% nel periodo 1945-1965. Ma poi, tra il 1965 e il 1982, è arrivato il periodo di crisi della redditività, quando il tasso di profitto è sceso del 44%. Ciò ha provocato due grandi crolli, nel 1974-5 e nel 1980-2, e a partire dai primi anni Ottanta ha spinto gli strateghi del capitalismo a tentare di ripristinare il tasso di profitto per mezzo delle politiche "neoliberiste" di privatizzazione, attraverso l'annientamento dei sindacati, deregolamentazione della finanza e globalizzazione. Il periodo "neoliberista" 1982-97 ha visto il tasso di profitto nel settore non finanziario aumentare del 34%, anche se al picco del 1997 il tasso era ancora inferiore alla media dell'età dell'oro. Poi è arrivato un nuovo periodo di crisi della redditività, che ho ribattezzato la Lunga Depressione. In questo periodo, che comprende la Grande Recessione del 2008-9 e, naturalmente, il crollo del COVID del 2020, il tasso di profitto è sceso del 15%. Nel 2020, il tasso di profitto degli Stati Uniti nel settore non finanziario ha raggiunto il minimo da 75 anni a questa parte, per poi riprendersi nel 2021, ma ancora sempre al di sotto del tasso pre-pandemia nel 2019. Questo ci porta alle cause delle variazioni del tasso di profitto. Secondo Marx, le variazioni della redditività dipendono principalmente dal movimento relativo di due categorie marxiane nel processo di accumulazione: la composizione organica del capitale (C/v) e il tasso di plusvalore o sfruttamento (s/v). Quando C/v supera s/v, il tasso di profitto diminuisce e viceversa. Sulla base della misurazione dei costi correnti di Basu-Wasner, dal 1945 si è registrato un aumento secolare della composizione organica del capitale (OCC) del 40%, mentre il principale «fattore di contrasto» alla legge di Marx della tendenza alla diminuzione del tasso di profitto - il tasso di plusvalore (ROSV) - è diminuito leggermente del 5%. In questo modo, dal 1945 il tasso di profitto è sceso del 32% (vedi grafico sotto).

Nella crisi di redditività del 1965-82, il tasso di profitto delle NFC è sceso del 44%, mentre la composizione organica del capitale (OCC) è aumentata del 29% e il tasso di plusvalore (ROSV) è sceso del 28%. Al contrario, nel cosiddetto periodo "neoliberista" dal 1982 al 1997, il tasso di plusvalore è aumentato del 14%, mentre la composizione organica del capitale è diminuita del 15%, quindi il tasso di profitto è aumentato del 34%. Dal 1997, il tasso di profitto statunitense è diminuito di circa il 15%, perché la composizione organica del capitale è aumentata del 28%, superando l'aumento del tasso di plusvalore (8%).  In altre parole, nei primi due decenni del XXI secolo i capitalisti statunitensi del settore non finanziario hanno sfruttato ancora di più la forza lavoro, ma non abbastanza da fermare la caduta del tasso di profitto.  La legge di Marx sulla redditività è quindi confermata dai risultati in ciascuno di questi periodi, così come per l'intero periodo 1945-2021. Ho sostenuto in molti luoghi che la redditività del capitale è fondamentale per valutare se l'economia capitalista si trova in uno stato di salute o meno. Se la redditività continua a calare, alla fine la massa dei profitti inizierà a diminuire, e questo è il fattore scatenante di un crollo degli investimenti e di un collasso. Uno dei risultati più interessante dei dati, è quello secondo cui ogni recessione economica del dopoguerra, negli Stati Uniti, è stata preceduta da (o ha coinciso con) un calo del tasso di profitto e con un rallentamento della crescita dei profitti, se non da una vera e propria caduta della massa dei profitti. Ed è questo ciò che ciclicamente ci si aspetterebbe dalla legge di Marx sulla redditività. La Grande Recessione e il crollo pandemico del 2020 sono stati preceduti (o accompagnati) da dei cali particolarmente marcati della redditività e della crescita dei profitti.

Oramai sembra molto probabile che entro la fine di quest'anno, il 2022, le principali economie entreranno in un nuovo periodo di crisi, e questa volta solo tre anni dopo il crollo pandemico del 2020. Secondo gli ultimi dati pubblicati, nel terzo trimestre del 2022, gli utili societari statunitensi sono diminuiti. Infatti, nel trimestre i profitti delle imprese non finanziarie sono scesi di quasi il 7%.  Gli utili societari statunitensi sono rallentati al 4,4% su base annua rispetto al 7,7% su base annua del secondo trimestre, e in netto calo rispetto al picco di crescita annua del 22% registrato alla fine del 2021.  Gli utili non finanziari sono rallentati al 6,4% tendenziale.

All'inizio di quest'anno, c'è stata una contrazione dei profitti, e questo perché i salari, i prezzi delle importazioni e i costi degli interessi stanno aumentando più rapidamente dei ricavi delle vendite. I margini di profitto (per unità di prodotto) hanno raggiunto un picco (ad un livello elevato) mentre i costi unitari non legati al lavoro e i costi salariali per unità sono in aumento, e la produttività ristagna. La bonanza dei profitti post-pandemia è finita.  Quando avremo i dati completi sulla redditività delle imprese per il 2022, ci aspettiamo che sia scesa di nuovo, mentre entreremo in un nuovo crollo negli Stati Uniti nel 2023.

- Michael Roberts - Pubblicato il 18/12/2022 su Michael Roberts blog. Blogging from a Marxist economist