Renaud Garcia, Il vero problema dei "decostruzionisti" è il loro attacco all'idea di natura, 2022
- Intervista a Renaud Garcia
Nel 2015 ha pubblicato "Il deserto della critica. Decostruzione e politica", il quale ha avuto un certo impatto e alla quale lei hai appena aggiunto una sostanziosa prefazione. Di cosa parla questo libro?
Renaud Garcia: Sono partito dal constatare che un nuovo lessico stava permeando tutti gli ambiti della critica sociale e culturale, e che il concetto di decostruzione, originariamente legato esclusivamente a una tecnica originale di lettura dei testi, stava ora diventando una forma di imperativo militante: bisognava decostruire le cose, e per questo motivo i militanti si stavano dividendo e scannando. L'obiettivo del libro è stato quello di risalire dal sintomo alla malattia. Perciò sono andato a rileggere i filosofi della decostruzione (Derrida in primis, e poi Foucault e Deleuze), visto che, se non venivano citati per nome (cosa che accadeva spesso), il loro pensiero critico veniva scomposto e ridotto a dei "trucchi", a delle procedure che consentono di evidenziare alcune zone d'ombra della critica sociale. Di modo che questo ragionamento è diventato un espediente: ciò che viene considerato originale, fondamentale o addirittura naturale rimane sempre il risultato di una storia, se non addirittura un effetto del discorso. Da qui la possibilità di criticare, meccanicamente, in ogni ambito sociale, perfino in ogni epoca, il "patriarcato", la "etero-normatività", la "bianchitudine", ecc. Sei anni dopo, mi sono reso conto che ciò che avevo circoscritto solo alle correnti di estrema sinistra, oggi passa per essere quasi per un pensiero "emancipatorio" di buon senso. Così ho allargato il campo d'azione del mio lavoro, basandomi su esperienze vissute o studiate in diversi ambiti: scuole d'arte, ambiti cantautorali, serie televisive, social network, ecc.... in modo da mostrare quanto tale registro critico, che nasce da filosofie spesso astruse e rivolte ai non addetti ai lavori, si sia diffuso, non senza una perdita di qualità intellettuale, bisogna ammetterlo.
Come ha fatto il pensiero decostruzionista, tecnico ed esigente, a scomporsi nell'ambito militante, fino a diventare mainstream?
Renaud Garcia: Innanzitutto, soprattutto negli anni Duemila, si è visto chiaramente nascere un "momento decostruzionista" nelle Università, il quale ha contribuito a far dimenticare molte altre correnti filosofiche (la linea Lukacs/Scuola di Francoforte/Henri Lefebvre, il movimento situazionista, la corrente anti-industriale - Lewis Mumford, Simone Weil, Günther Anders, Jacques Ellul, Bernard Charbonneau). Tutta un'intera generazione di studenti si è così trovata di fronte a questo insegnamento che veniva visto come se fosse il massimo del pensiero critico, e hanno quindi contribuito a diffonderlo nelle loro lotte. L'uso della "cassetta degli attrezzi" decostruzionista (per usare un'espressione foucaultiana), è indubbiamente esaltante: una volta venuti in possesso di queste chiavi di lettura, è possibile utilizzarle quasi ovunque, con un effetto apparentemente radicale. Ad esempio, a livello di esperienza ordinaria, si può dimostrare alla persona a cui ci si rivolge che, essendo ciò che è, a causa del suo essere, quindi, reca in sé più o meno consapevolmente tutta una serie di rappresentazioni e atteggiamenti potenzialmente oppressivi. Se voi siete bianchi, potete, ad esempio, "micro-aggredire" una persona di colore chiedendole quale sia il suo Paese di origine. È come se il gesto iniziale attuato da Derrida fosse stato annesso e sistematizzato al fine di scoprire dietro ogni realtà una costruzione, una storia violenta, fatta di omissioni e di occultamenti. È uno strumento piuttosto ammaliante, in grado di far saltare tutto con la dinamite. Vengono evidenziate quelle che sono le dominazioni inosservate, e in tal modo il campo di consapevolezza sembra diventare assai più ampio. Ci dona la sensazione di avere una capacità critica decuplicata.
E in cosa questo è un problema? Non vi permette di proporre quei temi che vi stanno a cuore in quanto anarchici?
Renaud Garcia: C'è la legittima aspirazione che in una società libera ciascuno possa vivere e affermare ciò che è senza paura. Questo è ovvio. Il problema consiste nel tradurre tale aspirazione in realtà, supportandola con i meccanismi intellettuali di cui abbiamo appena parlato. Spinto all'estremo e trasformato in pensiero riflessivo, il gesto decostruttivo finisce per vaporizzare la realtà e l'alterità. Nel tracciare e inseguire le relazioni oppressive che si nascondono dietro ogni binarietà concettuale (natura/cultura, innato/acquisito, universale/particolare, maschile/femminile, ecc.), con il pretesto del rispetto dell'identità sentita (costruita/decostruita), si arriva a delle situazioni socialmente insostenibili di dissoluzione delle relazioni umane. L'immediata condivisione di una umanità comune svanisce di fronte ai protocolli di riassegnazione dei nomi, ad esempio nel caso delle identità di genere. Oppure dietro l'istituzionalizzazione, nei circoli di militanti, degli spazi "protetti" dalle micro-aggressioni (razziali, di genere, ecc.), dove si richiede l'empatia. È un po' come ordinare alle persone di essere spontanee. Beninteso, tra i pensatori della cosiddetta "French Theory", c'erano cose da scoprire e approfondire (benché resto convinto che sia possibile comprendere la realtà del mondo in cui viviamo senza passare attraverso di loro). Tuttavia, dato lo scarto tra l'originale e le copie, una critica genealogica di quelle che sono state le avventure della decostruzione mi sembra un passo indispensabile al fine di poter recuperare alcune delle nostre capacità di riflessione.
Proprio in quanto proveniente dal socialismo libertario, cosa ne pensa del convegno sulla decostruzione tenutosi alla Sorbona all'inizio dell'anno? Abbiamo visto soprattutto che c'erano persone ideologicamente vicine alla destra portare avanti questo tipo di discorso. In cosa si può distinguere una critica di sinistra del pensiero decostruttivo?
Renaud Garcia: È questo è uno degli scopi della prefazione: su questi argomenti, siamo continuamente costretti a riposizionarci, e a precisare, a volte anche inutilmente. Ciò è deplorevole, ma è così che vanno le cose. Qui, il mio filo conduttore rimane George Orwell. Si pensi all'editoriale per il quotidiano Tribune del 9 giugno 1944, in cui spiega che se si parla dei bassifondi di Londra, si può essere sicuri di venire citati dalle stazioni radio naziste. E per questo motivo si dovrebbe evitare di parlarne? Da parte mia, cerco di svolgere quella che viene definita una critica "interna", a partire dalle virtù della teoria critica. La mia argomentazione si sviluppa dal punto di vista dei movimenti che si oppongono all'attuale società tecnologica, quella che Günther Anders chiama lo "Stato tecno-totalitario" o "il mondo in quanto macchina" (nel suo libro "Noi, figli di Eichmann"). E da questo punto di vista il problema sta nell'attacco portato avanti dalle correnti della decostruzione contro alcuni concetti importanti, come la ragione analitica, il linguaggio, la verità e, in modo significativo, la natura. Quest'ultima viene vista come se fosse il residuo di un pensiero reazionario o fascista: per i decostruzionisti, evocare la natura significa sempre mobilitare l'argomento per cui "è così, e non possiamo farci niente". Oppure significa sempre fissare la realtà in alcuni quadri identificabili, in delle norme, in barba a ogni fluidità ( in gergo, si direbbe che si "essenzializza"). La tradizione a me cara, senza negare gli usi fraudolenti del naturalismo, sostiene che esiste un rapporto liberatorio con la natura, sia esterna che interna (questa "natura umana" così tanto criticata, ma che vale la pena ripensare). Meglio ancora, che la natura e la libertà si chiamano a vicenda. Tanto più nel momento che stiamo vivendo, quello di un capitalismo tecnologico che ci allontana dalla nostra natura, nel senso che distorce, o aliena, l'espressione delle nostre energie vitali: gli individui si riconoscono sempre meno nel loro lavoro, delegano le loro relazioni dirette ai sistemi digitali, fanno fare a un esercito di fattorini e di noleggiatori ciò che hanno disimparato a fare da sé soli, ecc.
Quindi questa critica dell'alienazione tecnica è perciò una grande lacuna nel pensiero decostruzionista?
Renaud Garcia: Sì. La neutralità della tecnologia è postulata nel pensiero degli autori che si dichiarano tali. C'è persino un fascinazione per la tecnologia vista come strumento di potenziale liberazione. Si pensi al testo canonico della filosofa americana Donna Haraway, il "Manifesto Cyborg" (1985), un'opera fondamentale per il femminismo queer, incentrata sull'idea di sovvertire l'identità di genere piuttosto che di rovesciare un sistema di potere. Sulla sua scia, molte pensatrici e attiviste hanno valorizzato il cosiddetto "ibridismo", vale a dire, posture o atti di "de-assegnazione" dell'identità, rifiutando in ultima analisi il soggetto "donna" come base della lotta femminista (in quanto troppo onnicomprensivo, e quindi normativo e discriminante). Per questo motivo, Haraway e i suoi epigoni hanno accolto lo sviluppo tecnologico come supporto materiale per la plasticità della forma umana. Idealmente, le persone che ritengono sia stata loro assegnata un'identità in cui non si riconoscono, potranno utilizzare gli strumenti offerti dalla tecnologia per cambiarla. Così, se ci si "ibrida" con la tecnologia, si può diventare qualcosa di diverso da un soggetto maschile, da un soggetto femminile, da un soggetto umano. Questo immaginario cyborg, esplicitato in Paul B. Preciado, ad esempio, è di fatto il trailer della marcia in avanti della tecnocrazia, l'alleanza tra capitale, conoscenza e potere. Ed è anche in sintonia con l'obiettivo del transumanesimo, sia esso sviluppato nella Silicon Valley o in alcune tecnopoli francesi come Grenoble: sostituire il pianificato al naturale.
Nella sua prefazione, lei porta avanti questa critica del capitalismo visto nella sua versione tecnologica. Stavolta si definisce "naturale"; da dove proviene questo aggettivo, e cosa comprende?
Renaud Garcia: Attualmente l'ecologia è onnipresente. Ma in generale, i discorsi che sentiamo più spesso su questo tema riguardano più la crescita verde che la decrescita. Esortano a uscire dalla crisi climatica attraverso l'innovazione tecnica, vale a dire, mobilitare la tecnologia per riparare i disastri causati dalla tecnologia stessa! In effetti, la parola "ecologia" è rimasta intrappolata; proprio come è avvenuto per il termine "vivere", che sta emergendo con i suoi nuovi pensatori, intorno a - e talvolta contro - Bruno Latour e Philippe Descola. Si dice che il vivente sia più "inclusivo" della natura, buona solo per essere gettata nella pattumiera ontologica. Io invece sostengo che è possibile reinvestire in questo concetto. Da qui la denominazione di "naturali". Si tratta di un'idea attorno alla quale ruota il geografo anarchico Élisée Reclus, per il quale "l'uomo è la natura che prende coscienza di sé stesso". In altre parole, noi viviamo insieme alla natura in una relazione di compagneria basata sulle nostre capacità riflessive; non veniamo ridotti a essa, alla natura, ma nasciamo, viviamo e moriamo (contrariamente all'illusione transumanista di abolire la morte, o di ridurla a un semplice crash del sistema) in essa e tramite essa. Ricordare questo rappresenta una liberazione dal capitalismo tecnologico, e non un ripiegamento oscurantista. Se evochiamo la storia puntuale dell'anarchismo, vediamo che i "naturiani" erano quei piccoli artigiani della Belle Époque che tentavano ciò che negli anni '70 sarebbe stato chiamato "ritorno alla terra". Essi, sono stati radicali nel sottolineare l'intreccio tra la salute del corpo e la salute della terra. Una minoranza assai esigua, che veniva derisa dagli anarchici operai e industriali. Si tratta quindi anche di un termine che rende omaggio agli sconfitti della storia, senza però dimenticare i loro fallimenti e le loro sconfitte.
Alla fine, si vuole reintegrare un momento conservativo nel percorso critico. È davvero conciliabile con la sua ideologia di base? Ogni anarchico non è forse essenzialmente progressista?
Renaud Garcia: Storicamente, la maggior parte degli anarchici è stata effettivamente progressista. Ora, il filosofo Aurélien Berlan ha mostrato chiaramente, in "Terre et Liberté" (La Lenteur, 2021), fino a che punto nella nostra tradizione intellettuale classica si oppongano due significati di libertà: liberazione e autonomia. Nel primo caso, mi libero dal peso dell'esistenza materiale facendo fare le cose da altri, o da un sistema di macchine; nel secondo, cerco di recuperare il più possibile i miei mezzi di sostentamento. A ben guardare, mi sembra che gli anarchici siano stati storicamente posseduti dalla fantasia di liberazione. Se si leggono gli ultimi testi del compianto David Graeber, ad esempio (nonostante tutte le altre sue finezze), si può davvero vedere all'opera questa ossessione per la liberazione tecnologica, questa idea che il capitalismo abbia in realtà limitato l'innovazione per lasciarne solo frammenti, sotto forma di gadget come lo smartphone. Questa tendenza ha soffocato l'altra, il che non facilita certo le cose. Ancora una volta siamo costretti a pensare contro la nostra stessa eredità.
La riabilitazione del concetto di natura, da parte sua, in definitiva serve a un progetto socialista riconciliatore delle identità?
Renaud Garcia: Le nozioni di alienazione e spossessamento presuppongono una riflessione minima sulla nozione di natura, considerata come il nostro ambiente vitale devastato dall'impeto del potere tecnologico, insieme a una riflessione su quelle situazioni in cui la nostra natura, le nostre potenzialità, vengono stravolte. Accorgersi di essere diventati zombie in un mondo notevole per la sua bruttezza (superfici di cemento, pannelli pubblicitari animati con colori sgargianti, campi di pale eoliche a perdita d'occhio, plastificazione generalizzata), accorgersi di non riconoscersi più in ciò che si fa, di essere esausti, ripiegati su sé stessi, significa anche accorgersi di essere in declino, di non coincidere più con sé stessi. Si tratta di quella che definirei un'involuzione delle nostre capacità, che ostacola la realizzazione a cui aspiriamo. In tal senso, il registro che in questo momento mi sembra interessante è quello della clinica e delle patologie del lavoro. Perché questo vale per tutti: ognuno di noi, indipendentemente da chi sia o da dove provenga, sperimenta le ingiunzioni a lavorare o a superarsi sul lavoro, così come i vincoli del management che ci spingono a diventare parte della macchina, come un ingranaggio. Ecco che allora, per una via minuscola, la coscienza può alzarsi e capire che la macchina deve fermarsi, perché è in gioco l'integrità della propria vita.
Intervista di Samuel Lacroix per la rivista Philosophie. File speciale "Decostruzione" (5/5) - 15 marzo 2022.
FONTE: Et vous n’avez encore rien vu… Critique de la science et du scientisme ordinaire
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