Nel 1971 il "New York Times" pubblicò alcuni stralci dei Pentagon Papers, documenti segreti del Dipartimento della difesa relativi all'impegno americano nel sud-est asiatico dal dopoguerra alla fine degli anni sessanta. Lo scandalo al cuore di quella pubblicazione - che precedette di poco la celebre infrazione al Watergate Building, e che inaugurò la grave crisi di legittimità che caratterizzò la presidenza di Richard Nixon - riguardava l'ammissione, da parte degli esperti del Pentagono, dell'assoluta inutilità strategica dell'impegno americano in Vietnam. Che questa ammissione, nota ormai da anni ai più, venisse addirittura riconosciuta - e tenuta segreta - dai governanti statunitensi fu motivo di profonda indignazione nella pubblica opinione. A partire da queste premesse, Hannah Arendt, nel saggio qui proposto in nuova traduzione, riflette sul rapporto fra politica e menzogna. Il saggio, uscito nel 1972 sulla "New York Review of Books", prende in esame le affinità e le differenze fra la menzogna tradizionale - il mentire per ragion di Stato - e la deliberata falsificazione dei fatti per ragioni di "immagine" o di "reputazione". Ben oltre una mera ricognizione sui metodi pubblicitari, manipolatori del consenso e della pubblica opinione, all'opera nelle moderne democrazie di massa, il saggio di Arendt offre una profonda e originale riflessione sulla natura della politica e il suo rapporto con la verità.
(Dal risvolto di copertina di: "La menzogna in politica. Riflessioni sui «Pentagon Papers»", di Hannah Arendt. Marietti)
Hanna Arendt: La realtà? Non ci riguarda
- di Ermanno Bencivenga -
I Pentagon Papers furono uno studio di settemila pagine commissionato dal segretario della Difesa americano Robert McNamara nel 1967, sulla storia della guerra nel Vietnam dal 1945. Lo studio era tanto segreto che non ne era a conoscenza neanche Lyndon Johnson, allora presidente degli Stati Uniti. Dal 1969 Daniel Ellsberg, che ci aveva lavorato, prese a farne copie, con l’intenzione di rivelare al pubblico le menzogne e i crimini commessi dal governo nella conduzione della guerra, e nel febbraio del 1971 lo consegnò al New York Times, che in giugno cominciò a pubblicarlo. Il nuovo presidente Richard Nixon tentò di bloccare l’operazione e il caso procedette fino alla Corte suprema, che nello stesso giugno si pronunciò a favore del giornale citando il valore e la responsabilità di una stampa libera. La reazione di Nixon, che formò un'unità investigativa deputata a bloccare ogni ulteriore fuga di notizie, avrebbe portato al Watergate e alla definitiva rovina della sua presidenza. Il 18 novembre 1971 Hannah Arendt pubblicò un saggio sulla New York Review of Books dedicato ai Pentagon Papers, intitolato Lying in Politics e particolarmente attuale nel nostro mondo di fake news, che la rinnovata casa editrice Marietti 1820 ha reso accessibile in una ben curata edizione bilingue.
Il saggio di Arendt comincia con un’osservazione inquietante: «La veridicità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche, e le menzogne sono sempre state considerate come strumenti giustificabili nella gestione degli affari politici». Ancor più inquietante è il fatto che Arendt non prende immediatamente le distanze da questa pratica, a differenza, per esempio, di Socrate nel Gorgia platonico, ma la comprende e la approva. La politica, dice, agisce, cambia il mondo, dà inizio a qualcosa di nuovo, e un presupposto per questa sua azione è rinnegare la realtà presente, affermando una realtà diversa che al momento è, e forse rimarrà per sempre, un progetto. «La deliberata negazione della verità fattuale – la capacità di mentire – e la possibilità di cambiare i fatti – la capacità di agire – sono fra loro connesse; devono la loro esistenza a un’unica risorsa: l’immaginazione.» Dunque «la menzogna non è sgattaiolata dentro la politica per un qualche caso dell’umana tendenza a peccare»; le è connaturata e vitale.
Chi mente, però, manifesta con il suo mentire l’esistenza di una verità che vuole occultare o emendare, quindi esprime un intimo riconoscimento e rispetto della verità: «il guaio con il mentire e l’ingannare è che la loro efficacia dipende interamente da una chiara nozione della verità che il bugiardo e l’ingannatore intendono nascondere». Ed è qui che, secondo Arendt, gli impostori denunciati dai Pentagon Papers si rivelano una specie nuova. Sono brillanti intellettuali, problem-solvers, «affascinati dalla mera dimensione degli esercizi mentali» che il compito loro proposto richiede, fieri di portarlo a termine con successo. Qual è il compito? Manipolare l’opinione pubblica, favorire o almeno non deprimere il consenso, vincere le prossime elezioni. Se questo è il compito, che importa se gli esperti non credono all’effetto domino (in base al quale un paese dopo l’altro sarebbe caduto nell’orbita comunista, quindi bisognava evitare che ci cadesse il Vietnam), se Unione Sovietica e Cina sono ai ferri corti, se i guerriglieri sud-vietnamiti sostengono la loro lotta in modo ampiamente autonomo da rifornimenti dal Nord e, soprattutto, se la guerra non può essere vinta: sono notizie scomode che porterebbero il governo a un declino di popolarità e a perdere voti. Dunque diremo il contrario, perché quel che accade davvero non ci riguarda.
I telegiornali americani non di parte insistono da anni sulle menzogne di Trump, che ormai contano a migliaia. Ma la lettura del saggio di Arendt ci fa capire che la parola «menzogna» non è adeguata per descrivere il fenomeno cui siamo di fronte e che, esploso ora in misura devastante, ha però origine nei decenni scorsi e si annunciava già nei Pentagon Papers. Quando Dante, Machiavelli e Leopardi invitano l’Italia alla riscossa sono consapevoli di parlare di un sogno: sanno che l’Italia cui fanno appello non esiste e non è mai esistita. Parlarne, evocarne il fantasma, è un atto politico. Ciò con cui abbiamo a che fare adesso, invece, quando ci si dice che dai tre ai cinque milioni di immigrati clandestini hanno votato per la Clinton, o che due persone furono uccise a Chicago mentre Obama vi faceva un discorso, è il risultato di un isolamento dalla verità, di una dimenticanza della verità, quindi anche della menzogna. Il sogno non è più tale perché non si oppone più alla realtà; sogno e menzogna non esistono più perché realtà e verità non esistono più. E non esiste più la politica, se per essa intendiamo, come Arendt, azione che cambia il mondo. Ormai del mondo basta parlarne, come ci piace e ci diverte, il che vuole anche dire che non lo cambieremo: che ricchi e poveri, potenti e deboli rimarranno ciascuno al proprio posto.
- Ermanno Bencivenga - Pubblicato sul Sole del 23/12/2018 -
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