venerdì 4 gennaio 2019

noia mortale

jankelevitch

In quest'opera del 1963, Vladimir Jankélévitch mette a fuoco tre registri, o «tempi musicali», all'interno dei quali si articola la dinamica della vita e scorre il ritmo del divenire. Con il caratteristico stile caldo e «parlato» delle celebri conferenze parigine, egli profila l'inaggirabile contraddittorietà dell'essere umano, avvalendosi non solo della consueta magistrale «leggerezza», ma anche di una indomita capacità di penetrare la realtà nelle sue pieghe più nascoste e complesse. Senza mai perdere l'ancoraggio alla grande tradizione filosofica, letteraria e musicale, antica e moderna, che Jankélévitch conosceva come pochi. Consapevole fino in fondo dei limiti del pensiero e del linguaggio, con i quali ingaggia uno strenuo corpo a corpo, la sua riflessione, coraggiosa e intransigente, ne coglie allo stesso tempo l'intima profondità e l'estrema serietà.  (dal risvolto di copertina di: Vladimir Jankélèvitch: L’avventura, la noia, la serietà, Einaudi)

Jankélévitch, la noia rivela il senso della vita
- di Giuseppe Cantarano -

Quante volte abbiamo sentito ripetere che la filosofia è quanto di più lontano possa esserci dalla vita. Dalla nostra quotidiana esistenza. Tante, tantissime volte. Ed è così. Basti pensare alla tendenza autoreferenziale che ha assunto gran parte della filosofia contemporanea. Soprattutto, ma non solo, quella di derivazione analitica. Che rivolgendo lo sguardo su se stessa, ha preso congedo dalla vita. Dimenticandosi di essa. Ma anche i grandi sistemi filosofici della modernità, non solo quello hegeliano, non hanno fatto che pensare la vita all’interno di astrazioni logico-concettuali e metafisiche che l’hanno inaridita, la vita. Riducendola al silenzio. Se poi pensiamo allo stato odierno della filosofia negli insegnamenti liceali e universitari - ridotta a una manualistica, ripetitiva e noiosa 'disciplina' - non possiamo dare torto a chi sostiene che davvero ha fatto esodo dalla vita. E tuttavia, non è stato sempre così. Anzi. Non è forse sulla vita - biologica, sociale, etica, politica, estetica, religiosa - che si interrogano i primi pensatori della Grecia antica? E tutti gli altri o gran parte di essi, che si susseguiranno sino alle soglie della modernità? È soprattutto nell’età contemporanea, invece, che si opera la frattura tra vita e filosofia. Una frattura che è necessario ricomporre. Risanare. Dentro lo stesso pensiero contemporaneo.
È ciò che ha provato a fare Vladimir Jankélèvitch (Bourges 1903 - Parigi 1985 ). Che sulla scorta, soprattutto, della lezione di Simmel, Bergson e dell’intera tradizione filosofica occidentale, ha cercato nelle sue opere di riacciuffare in qualche modo la vita. In tutte le sue più impensate increspature. In tutte le sue più quotidiane, familiari, consuete esperienze. Come quella dell’avventura. O quella della noia. O l’esperienza della serietà. Sulle quali si è soffermato con questo bel libro uscito in Francia nel 1963 e in prima edizione italiana da Marietti nel 1991, ora riproposto da Einaudi L’avventura, la noia, la serietà con l’introduzione di Enrica Lisciani Petrini. Avventura, noia, serietà: si tratta di quotidiane esperienze, che noi tutti facciamo. O abbiamo fatto. Oppure faremo. Sono delle "forme" nelle quali la nostra vita, in alcuni suoi provvisori, transitori passaggi, si determina. Perciò le chiamiamo "forme di vita". Ma come è possibile, si chiede Jankélévitch, che la nostra vita, animata da un costitutivo dinamismo espansivo, si lasci irretire dentro 'forme' che tendono invece a devitalizzarla? Insomma, a negarla? È questa la 'tragedia' della nostra vita, sottolinea Enrica Lisciani-Petrini nell’introduzione.
La vita non può fare a meno delle "forme". Giacché sono le "forme" che le conferiscono espressione. Ma il prezzo che la vita deve pagare per poter essere 'espressiva' è quello di rinunciare alla sua potenza espansiva. Ma questo non intende in alcun modo farlo. Ecco perché la nostra vita tende incessantemente e contraddittoriamente a negare quelle stesse 'forme' di cui non può fare a meno, per potersi esprimere. E questa negazione delle 'forme' la sperimentiamo nell’avventura. Che non si lascia mai predeterminare: che avventura sarebbe, se conoscessimo prima l’esito della sua esperienza? E nella serietà, ci dice Jankélévitch, non facciamo forse esperienza di una 'forma di vita' che la potenza espansiva della vita tende a negare? «Tutto è serio osserva Jankélévitch - e di conseguenza nulla lo è. Le nostre agende dell’anno scorso, con i loro defunti appuntamenti e tutte le crucialissime incombenze che ci agitavano, rendono una malinconica testimonianza di tale insignificanza generale». E coloro i quali hanno trascorso annoiandosi tutta la vita a sbadigliare, non saranno forse i primi a chiedere di poter avere un giorno ancora di vita, quando la morte busserà alla loro porta? Ci annoiamo, scrive Jankélévitch, «soprattutto nell’età in cui siamo convinti di avere in mano tutta l’immensità dell’avvenire, nell’età in cui immaginiamo che la vita sia senza fine… No, la vita non è lunga, la vita è breve come un sogno e, a conti fatti, ancor più breve che noiosa; infatti la morte è in definitiva ben più importante della noia».

- Giuseppe Cantarano - Pubblicato sull'Avvenire del 20 aprile 2018 -

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