domenica 20 gennaio 2019

Il corsivo è mio!

Nell'aprile 1944, nel pieno della Seconda guerra mondiale, Viktor Krav?enko, addetto alla missione commerciale sovietica negli Stati Uniti, rompe i rapporti con il suo Paese e abbraccia lo stile di vita occidentale. Per spiegare le cause di questo "tradimento" scrive un libro, pubblicato in America nel 1946, in cui denuncia il regime staliniano e racconta al mondo intero com'è davvero vivere in Unione Sovietica. Un anno dopo, il libro viene pubblicato in Francia, diventando subito un caso; tanto che il settimanale politico-letterario «Les lettres françaises» inizia una martellante campagna diffamatoria contro l'autore, che intenta quindi causa al periodico. Il processo si svolge nel 1949 e per due mesi Nina Berberova, redattrice di una rivista per emigrati russi, lo segue come cronista. Questo libro racconta quell'esperienza memorabile, descrivendo l'eccezionale numero di testimoni dell'accusa (profughi, rifugiati politici, uomini e donne perseguitati dal regime sovietico) e della difesa (funzionari e militari russi, comunisti francesi), personaggi dipinti dalla Berberova con tratti brevi e precisi, senza perdere nessuna sfumatura delle diverse testimonianze. In questo modo l'autrice fornisce un resoconto vivissimo, completo e credibile di quanto è accaduto in aula senza però rimanere impassibile davanti allo spettacolo di intolleranza che gli intellettuali filocomunisti vogliono inscenare. Perché è russa, ed è una scrittrice. E così, accanto all'agghiacciante rappresentazione della cecità degli intellettuali di allora e dell'inevitabile violenza delle ideologie, abbiamo oggi uno straordinario racconto-verità. Introduzione di Marco Belpoliti.

(dal risvolto di copertina di: "Il caso Kravcenko", di Nina Berberova. Guanda.)

Margarete dal gulag al lager
- di Mirella Serri -

«Prima di sistemarla su un vagone ferroviario diretto in Germania, le dettero nuovi indumenti, un buon pasto e arrivò pure un parrucchiere per farla bella». Così la scrittrice e giornalista russa Nina Berberova riassume uno dei momenti più drammatici nella vita di un personaggio d’eccezione, Margarete Buber-Neumann. Si tratta delle terribili ore del gennaio 1940 in cui la quarantenne Margarete, dopo essere stata ben pettinata e nutrita, viene consegnata ai nazisti dai sovietici che l’avevano tenuta prigioniera nel gulag di Karaganda. Nel clima di amicizia creato dal patto Molotov- Ribbentrop del 23 agosto 1939, Stalin consegnò a Hitler un migliaio di ebrei e di comunisti dissidenti, tra cui la Buber-Neumann. I tedeschi la destinarono al campo di concentramento di Ravensbrück. Il racconto di questo passaggio, dal gulag di Stalin al lager di Hitler, la Berberova lo raccoglie dalla viva voce della protagonista nel 1949 in uno dei suoi reportage per la Russkaja Mysl’, rivista destinata agli emigrati del suo Paese.
Il giornale aveva incaricato la scrittrice di seguire quello che sarà definito il processo del secolo. Il dibattimento in cui la donna tedesca rivelò tutti i suoi atroci patimenti si svolse a Parigi e il principale protagonista fu l’ingegnere Viktor Andrijovyč Kravčenko fuggito dalla Russia e approdato in America. In quell’aula di tribunale venne resa nota la realtà del sistema concentrazionario sovietico per la prima volta con enorme risonanza mediatica. Le udienze, molto seguite dai giornali di tutto il mondo, s’iniziarono il 24 gennaio di 70 anni fa e adesso la raccolta degli articoli della Berberova esce con la prefazione di Marco Belpoliti nel volume Il caso Kravčenko (il 10 gennaio da Guanda, pp. 304, € 18,50).

«Ho scelto la libertà»
Kravčenko, che era stato mandato a New York dal governo russo per trattare l’import-export di materie prime, nel 1944 decise di chiedere asilo politico negli Stati Uniti e due anni dopo di rivelare nel libro Ho scelto la libertà quello che accadeva in Urss: la povertà dilagante, il massacro dei contadini ucraini, le torture, i processi farsa e i gulag. In Italia è Mario Pannunzio, direttore di Risorgimento liberale, a pubblicare a puntate, nel 1947, con grande scandalo, il libro di Kravčenko sul suo quotidiano. Ma il caso mediatico esplode quando l’esule russo fa causa alla rivista comunista Les lettres françaises. Da questa testata viene accusato di raccontare falsità, di essere al soldo degli americani e di essere stato arruolato dai fascisti.
La Berberova, che era approdata a Parigi dopo aver abbandonato la Russia dei Soviet a metà degli Anni Venti, nei suoi resoconti sul processo è asciutta, diretta e imparziale. Però riceve minacce per i suoi articoli antistaliniani e teme di avventurarsi da sola a tarda sera per le strade della capitale francese. Ad assistere alla deposizione dell’ingegnere, della Buber-Neumann e di altri detenuti scampati all’inferno della Kolyma sono presenti calibri da novanta della cultura francese, Jean-Paul Sartre, Louis Aragon, Simone de Beauvoir e altri. L’intellighenzia parigina è in gran parte schierata contro Kravčenko. Così lo scrittore Vercors e l’intellettuale Roger Garaudy, deputato e senatore del Partito comunista francese, cercano di dimostrare, come scrive la Berberova, che i gulag sono un’invenzione di Margarete e di Kravčenko. Un’analoga opinione la condivide il famoso scienziato Jean-Frédéric Joliot-Curie, scopritore del neutrone e Nobel per la chimica. Due anni dopo non a caso si aggiudicherà il premio Stalin.
Nel numeroso pubblico, tra le schiere di poliziotti e di giornalisti accorsi da tutto il globo, cala però il silenzio, commenta la Berberova, quando arriva il momento in cui Margarete, dall’aspetto dimesso e dalla voce flebile, prende la parola. In prime nozze la comunista nata a Potsdam aveva sposato Rafael, figlio di Martin Buber, noto filosofo ebreo. Poi unisce il suo destino a quello di Heinz Neumann, consigliere personale di Stalin. Heinz osa criticare il dittatore russo dopo la sua scelta di solidarizzare con Hitler. Viene imprigionato e tenuto in ostaggio all’hotel Lux con Margarete. La notte del 27 aprile 1937 è arrestato. Poi non si hanno più sue notizie.

Con la Milena di Kafka
Margarete è la moglie, anzi la vedova a questo punto, di un «deviazionista»: questa la sua colpa. Ed è destinata al carcere femminile di Mosca. Nel ’38 viene inviata nel gulag kazaco, luogo gelido in un bacino carbonifero dove, dopo quattordici ore al giorno di estenuanti fatiche, le viene concessa una minestra di acqua tiepida. «Le condizioni di vita e di lavoro erano peggiori di quanto non le abbia trovate poi a Ravensbrück. Ma debbo anche dire che nei lager di Stalin non ho trovato il sadismo e la crudeltà individuale dei lager nazisti», ricorda Margarete.
Dopo essere stata consegnata agli uomini di Hitler e trasferita nelle baracche di Ravensbrück, la Buber-Neumann ha un incontro assai speciale con Milena Jesenská, giornalista ceca e membro della resistenza che era stata legata a Franz Kafka da un amore intenso e appassionato. Milena, che con il suo affetto e la sua solidarietà aiuta Margarete a sopravvivere, muore il 10 maggio ’44. La Berberova non manca di rilevare il tono impietoso con cui l’avvocato difensore delle Lettres françaises rimprovera Margarete di non mostrare nessuna riconoscenza per i sovietici che nel 1945 hanno spalancato le porte del campo di concentramento e le hanno restituito la libertà.

Il silenzio degli Alleati
Il resoconto reso al processo parigino dalla Buber-Neumann sulla sua tremenda prigionia sovietica (a cui dedica anche la propria autobiografia) colpisce profondamente l’opinione pubblica internazionale e rappresenta una tappa fondamentale per la conoscenza di quello che stava accadendo all’Est. Durante il periodo bellico gli Alleati avevano deciso infatti di seppellire sotto una coltre di silenzi le purghe staliniane degli Anni Trenta a causa delle quali erano morte milioni di persone. Alla fine del 1942 Stalin fu addirittura dichiarato uomo dell’anno sulla copertina di Time.
Kravčenko, grazie al quale era emersa la verità sul rispetto dei diritti umani nella patria del socialismo, vincerà la causa. La verità si era affermata, però, anche grazie all’impegno di due donne: la Buber-Neumann, ex fervente comunista che seppe sfidare con la sua denuncia un mondo che le era pregiudizialmente ostile, e la Berberova che con i suoi articoli e con il suo libro dedicato al Caso Kravčenko continuò negli anni a mantenere vivo il ricordo delle sofferenze di Margarete.

- Mirella Serri - Pubblicato sulla Stampa del 7/1/2019 -

La Prefazione di Marco Belpoliti

Nell’estate del 1947 Nina Berberova è a Parigi dove vive da molti anni. Non ha più né una casa né una stanza in affitto, e neppure i soldi per cercare entrambe. Si sistema da un’amica che sta ristrutturando la sua abitazione. L’appartamento non ha il tetto. Alla mattina arrivano gli operai per i lavori, e lei se ne va. La notte invece si addormenta guardando le stelle nel cielo sopra di lei. Quando tutto è finito, Nina se ne va altrove in un minuscolo appartamento vicino al Trocadéro, come racconta in "Il corsivo è mio", la sua autobiografia.
Comincia a vendere poco a poco i propri libri per mantenersi. Nel contempo inizia a scrivere per Russkaja Mysl’, un settimanale russo, che esce proprio quell’anno, quando i comunisti vengono esclusi dal governo francese e gli emigrati ottengono il permesso di pubblicare un loro giornale. Nina Berberova ne è di fatto la redattrice letteraria.
Nel clima di quel secondo dopoguerra la situazione di coloro che sono usciti dall’URSS negli anni Venti, rifugiandosi in Germania e Francia, non è ancora molto chiara; la guerra ha mescolato le carte e dirottato molte vite. Berberova cerca di mettersi in contatto con gli emigrati che non sono tornati nella Russia di Stalin; sono rimasti in Germania, a Berlino, dove lei stessa ha sostato, e dove ha conosciuto Vladimir Nabokov, prima che questi andasse a Parigi e da lì in America. La giovane poetessa, protetta da Aleksandr Blok e Anna Achmatova, ha lasciato la Russia post-rivoluzionaria nel 1922 insieme al poeta Vladislav Chodasevič, suo compagno. Ora sono trascorsi ventitré anni ed è una scrittrice, per quanto non ancora pienamente rivelata al mondo. Ha già scritto in Francia i romanzi brevi e i racconti che la renderanno celebre più di trent’anni dopo: L’accompagnatrice (1934), Roquenval (1936), Il lacche´ e la puttana (1937), la raccolta Le feste di Billancourt (1925-1940), dal nome del quartiere dove vivono i fuoriusciti russi.
Nel 1949 accade un fatto imprevisto: l’affare Kravčenko. Si tratta dell’autore di Ho scelto la libertà. Pubblicato in America nel 1947 e subito tradotto in numerosi paesi, il libro racconta per la prima volta al pubblico occidentale la condizione dei campi di concentramento, le purghe staliniane e l’assenza di libertà in Unione Sovietica. Si scatena immediatamente un attacco contro di lui. Kravčenko è un addetto ai rifornimenti di materie prime e tecnologie per conto del governo sovietico distaccato a New York. Ha abbandonato il suo incarico e chiesto asilo al paese dove si trova nell’aprile del 1944. Nei due anni seguenti scrive il suo libro e lo dà alle stampe. Viene accusato di essere un impostore, di essere al soldo dei nemici dell’Unione Sovietica, colluso coi fascisti e anche con i servizi segreti americani, manovrato dai menscevichi rifugiati in quel paese. Una rivista d’area comunista, redatta da intellettuali e scrittori francesi, Les lettres françaises, è particolarmente dura nel denigrarlo. Kravčenko gli fa causa per diffamazione e il processo ha inizio nell’aula del tribunale di Parigi nel gennaio 1949.
Nina Berberova segue tutte le udienze per conto di Russkaja Mysl’. Così la scrittrice e poetessa, che all’epoca ha quarantotto anni, si trova nel gruppo dei giornalisti che affollano l’aula. Siede, come racconterà con dovizia di dettagli in seguito, tra il corrispondente del Times e quello della Izvestija, vicino ai rappresentanti d’importanti giornali canadesi e francesi. Quando ha lasciato l’URSS, all’inizio del decennio decisivo per la fine del sogno rivoluzionario, non ha sicuramente immaginato che le sarebbe accaduto d’ascoltare il racconto delle persecuzioni e deportazioni di massa attuate da Stalin nella sua Russia in un’aula di tribunale straniero e che ogni giorno avrebbe raccontato l’andamento di quel processo sulle pagine di un settimanale, che per merito dei suoi resoconti è diventato un quotidiano.
Ogni giorno Nina Berberova, che conosce il russo e il francese, e che non ha bisogno delle traduzioni degli interpreti, redige un articolo sul dibattimento durante la notte, prima che alle sette del mattino arrivi il fattorino del giornale per ritirarlo e portarlo in redazione.
Sino a quel momento l’esistenza degli immensi campi di lavoro russi non è nota al grande pubblico. Le notizie sono trapelate, ma in modo generico, poi la guerra contro la Germania ha di fatto messo a tacere quanto era occorso negli anni Trenta nel paese. L’URSS è alleato degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Ne parla Kravčenko nel suo libro. Nell’aula del tribunale francese sfilano gli ex prigionieri di Kolyma e Karaganda. La medesima cosa è accaduta per le vicende dei lager nazisti, la cui esistenza era nota sulla stampa internazionale; c’erano state pubblicazioni, ma sino all’arrivo degli Alleati e dei sovietici in Germania nel 1945 si era trattato di poche e inascoltate persone, scampati e testimoni.

Dodici anni dopo, in un altro processo, che si può considerare parallelo di questo francese, svoltosi in un altro clima politico, verrà alla luce in modo eclatante lo sterminio degli ebrei d’Europa. Si tratta del processo ad Adolf Eichmann, il principale organizzatore della macchina di smistamento dei deportati ebrei nell’Europa occupata dalle truppe naziste. Il dibattimento contro il criminale nazista si tiene a Gerusalemme, e curiosamente è un’altra donna, una filosofa, a suo modo una scrittrice, Hannah Arendt, a rendere conto del processo del gerarca, sequestrato in Argentina dai servizi segreti dello Stato di Israele per processarlo nel 1961.
La differenza tra il resoconto di Nina Berberova e quello di Hannah Arendt è palese dal punto di vista stilistico, ma anche la prospettiva entro cui le due donne seguono i due dibattimenti è ben diversa. Per quanto entrambe scrivano per una rivista, nonostante il coinvolgimento diretto nei fatti – Berberova è uscita dall’URSS prima delle purghe staliniane che avrebbero potuto travolgerla, così come l’ebrea tedesca Arendt è scampata per un soffio all’internamento nel lager fuggendo in Francia e poi negli Stati Uniti d’America –, il loro resoconto ha una forma e un contenuto differente.
Hannah Arendt cerca di ricostruire il contesto entro cui è avvenuto lo sterminio degli ebrei, e per questo si inoltra in questioni complesse come la responsabilità dei Consigli ebraici delle zone occupate dai tedeschi, suscitando con i suoi resoconti, e poi con la pubblicazione del volume La banalità del male (titolo originale Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil), un dibattito feroce in seno al mondo ebraico americano, e non solo.
Nina Berberova non racconta cosa è accaduto in URSS, non cerca di spiegare la trasformazione della Rivoluzione d’ottobre in una sanguinaria dittatura personale; racconta piuttosto il processo nudo e crudo. Di sicuro anche lei ha degli avversari: la sinistra francese, gli antifascisti, gli ex-resistenti al nazismo, molti dei quali legati al Partito comunista francese, che non credono all’esistenza dei campi di concentramento e di lavoro, o almeno così dichiarano. Nell’aula del tribunale sono presenti Sartre, Mauriac, Aragon e altri illustri intellettuali dell’epoca. Alcuni di loro testimonieranno contro Kravčenko.
La scelta stilistica che Nina Berberova compie è quella del resoconto quasi stenografico. Trascrive e deposizioni, i dibattiti, le discussioni, i furibondi scontri che avvengono in aula. Non ricostruisce dunque la storia delle deportazioni nei gulag, ma dà voce ai testimoni a favore di Kravčenko, e anche ai suoi denigratori. La sua posizione è precisa; si capisce da come rende i toni e descrive le persone che si siedono sul banco dei testimoni. Usa l’ironia nel raccontare gli avversari di Kravčenko, cita le risate del pubblico, gli applausi, il vociare e le richieste di autografo rivolte all’autore di Ho scelto la libertà. La sua partecipazione non è distante, bensì contenuta, resa sul filo di quella saggezza che è anche uno dei caratteri principali di Il corsivo è mio. Saggezza che è intelligenza delle cose, sottigliezza, capacità di non farsi travolgere dal partito preso delle proprie idee o dalla malinconia, peggio ancora dal rancore. Le sue frasi sono secche e dirette, lontane dal risentimento.
Nina Berberova non è stata in un campo di concentramento sovietico, è una scampata alla strage degli intellettuali e scrittori sancita da Stalin. La chiave di volta del suo reportage – perché di questo si tratta, di un testo giornalistico al limite dell’asciuttezza – è la domanda di giustizia. Non per sé, ma per Kravčenko prima di tutto, e anche per gli ex deportati nei gulag. Si tratta della medesima asciuttezza ricca di sfumature che c’é nei suoi libri degli anni Trenta, della sua sottigliezza psicologica, per cui basta un piccolo accenno, uno spostamento di tono, l’uso di un aggettivo o di un sostantivo, per far capire tutto. Economia di stile e di attenzione rivolta ai personaggi di questo processo. Lo stesso sguardo che permea le sue novelle o anche i libri biografici che scriverà successivamente.

Roger Garaudy, il giovane deputato comunista che diventerà noto negli anni Cinquanta e Sessanta, per poi convertirsi all’Islam – cosa che Berberova non potrà sapere – è «un uomo ancor giovane dai capelli neri, mal rasati, con occhiali di tartaruga » e parla come « un oratore di professione ». Anche lo scrittore Vercors non esce bene dalle pagine del reportage. Sono stilettate, come quelle che la voce narrante dell’Accompagnatrice infligge ai personaggi nel suo monologo. Nina Berberova possiede l’arte dell’entomologo: infilzare i suoi personaggi con pochi tocchi di penna. Resta piuttosto scandalizzata, cosa che ricorderà ai suoi interlocutori decenni dopo, davanti alla testimonianza di un uomo di scienza come Jean Frédéric Joliot-Curie, scopritore del neutrone, Premio Nobel per la chimica nel 1935, comunista fervente, che nega l’esistenza dei campi; nel 1951 lo scienziato riceverà il Premio Stalin. Gli intellettuali francesi appaiono, con rare eccezioni, ipnotizzati dalla sirena sovietica. Nessuno leva la sua voce nel processo a favore di Kravčenko. Sarà invece la gente comune, venuta da vari paesi, a testimoniare l’esistenza di campi di lavoro con centinaia di migliaia di deportati, campi lunghi ottocento chilometri, come dirà uno di loro davanti all’esterrefatto presidente della corte.
A deporre viene una donna che ha sperimentato l’orrore dei campi staliniani e di quelli nazisti, Margarete Buber-Neumann. Sposata con il figlio del filosofo ebraico Martin Buber, aderente al partito comunista tedesco, è riparata con il secondo marito, Heinz Neumann, a Mosca; scomparso lui, è stata portata in un gulag e successivamente consegnata ai nazisti nel 1940, dopo il patto Molotov-Ribbentrop tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica. I tedeschi la destinano a Ravensbrück, cui sopravvive; lì incontrerà Milena Jesenská, l’amica di Franz Kafka, la sua prima scopritrice. Un incrocio curioso che prende forma nelle pagine di questo resoconto. Nina Berberova dedica una particolare attenzione alla deposizione di questa donna, che racconta con le sue esperienze dirette l’intreccio tra i due paesi totalitari del XX secolo. Uno dei passaggi centrali del processo, segnato dalla presenza di uno straordinario avvocato difensore di Kravčenko, Georges Izard, ex deputato socialista, delegato della Resistenza all’Assemblea consultiva, Croce di Guerra della Resistenza, riguarda la discussione intorno al manoscritto del libro dell’ex ingegnere russo. Accusato di non essere il vero autore del libro, Kravčenko esibisce in aula il manoscritto. I suoi calunniatori eccepiscono dettagli delle pagine, riscritture, correzioni, interpolazioni, parti soppresse. Nina Berberova, ben esperta in manoscritti, racconta con precisione cosa significa scrivere e riscrivere un’opera e ironizza sulle obiezioni degli avvocati di Les lettres françaises: così lavorano gli scrittori del presente e del passato.
Nel clima infuocato del processo, in un’epoca in cui ancora non esistono i cosiddetti «dissidenti russi», la denuncia dei crimini staliniani è ancora un tabù per la sinistra politica. Nina Berberova racconterà in seguito di aver provato persino paura la sera tornando verso la sua casa al Trocadéro; evitava le strade buie dal momento in cui il quotidiano del grande Partito comunista francese, L’Humanité, aveva pubblicato una sua caricatura.
La raccolta dei pezzi usciti sulla rivista russa diventerà, dopo la fine del dibattimento, a sua volta un libro, con il resoconto delle arringhe finali e il ricorso contro la sentenza di condanna da parte dei calunniatori di Kravčenko, per la seconda volta stigmatizzati dal tribunale. Un libro stampato su pessima carta, dirà la Berberova, che si disfa ben presto e viene presto dimenticato. Ristampato sulla scia della notorietà internazionale raggiunta negli anni Ottanta dalla sua autrice, anche per merito della casa editrice Actes Sud di Hubert Nyssen, Il caso Kravčenko è diventato, a partire dalla ristampa del 1990 in francese, un’opera importante per raccontare cosa è stato nel dopoguerra il sonnambulismo della sinistra e del Partito comunista nei confronti del Grande Fratello sovietico.
Un volume che si legge tutto d’un fiato, scoprendo, o riscoprendo, una narratrice di grande talento, che sa raccontare la storia di sconosciuti personaggi, uomini e donne che transitano nell’aula del tribunale per narrare le loro tragiche storie. Questo è il libro di una scrittrice, prima di tutto, che parla di qualcosa che l’Occidente non vuole sentire, un resoconto redatto con la massima sobrietà, esattezza e convinzione.

- Marco Belpoliti - Fonte: www.illibraio.it

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