Blaise Cendrars è stato definito «il grande avventuriero della letteratura moderna». Da quando scappò di casa, a sedici anni, «la sua vita non ha fatto che cambiare rapinosamente scenari». E molteplici, e rapinosi, sono anche gli scenari che attraversiamo in questo romanzo, una boîte à surprises dalla quale vengono fuori, a ogni pagina, orrori e magnificenze. A farci da guida è un doppio dell'autore, che non per caso porta il nome di un anarchico ghigliottinato nel 1913, Raymond la Science. E un doppio diabolico e allucinato dell’autore è lo stesso Moravagine, ultimo discendente di una famiglia reale, che Raymond aiuta a fuggire da una clinica per alienati e in compagnia del quale vivrà le peripezie più mirabolanti: saranno terroristi nella Russia zarista del 1905, prigionieri degli indios blu sulle sponde dell'Orinoco, volontari nel corso della prima guerra mondiale... Moravagine è la «grande belva umana», «amorale», «fuorilegge», un essere che incarna la follia e il male, che uccide «spesso per puro divertimento», di preferenza giovani donne, e teorizza che «tutto quanto è solo disordine» e che chi ha paura del disordine ha paura della vita stessa: la quale non è altro che «delitto, furto, gelosia, fame, menzogna, sborra, stupidità, malattie, eruzioni vulcaniche, terremoti, mucchi di cadaveri», e che non esiste verità, ma solo l'azione, «l'azione effimera», «l'azione antagonista». Tra digressioni fascinose, anse maestose, deviazioni fulminee, veniamo irresistibilmente trascinati da una scrittura che, come rilevò la critica del tempo, possiede una «prodigiosa potenza pittorica, un misto di crudeltà, sensualità e lirismo» – uno stile la cui sfrenata libertà continua a vibrare.
(dal risvolto di copertina di: Blaise Cendrars: Moravagine, Adelphi)
Moravagine, l'ultimo libertino che annichilisce il Novecento
- di Massimiliano Parente -
Ah, quanto erano liberi gli scrittori fino alla seconda metà del Novecento, confrontati con quelli osannati oggi, a maggior ragione se prendono un premio Nobel, così politicamente corretti come sono.
A tal punto che non si ripubblicano certi pamphlet di Céline, perché si ha paura delle parole. Ma se uno scrittore non viola il limite del dicibile, cosa scrive a fare? Solo per intrattenere? E De Sade, allora? E che dire, per esempio, di Blaise Cendrars? Un grandissimo, avventuriero senza freni e folle ispiratore delle avanguardie novecentesche, di cui Adelphi pubblica il suo secondo strepitoso romanzo, Moravagine, uscito nel 1926.
Un'opera molto dostoevskijana, a cominciare dall'essere centrata su un doppio: un narratore, il medico Raymond La Science, e un personaggio strampalato e straordinario, Moravagine, ultimo discendente della famiglia reale austriaca, segregato in una clinica psichiatrica, «traviato, squilibrato, amorale, fuorilegge, nervoso, impulsivo», che nel corso della narrazione farà strage di donne (nel senso letterale) con sadiana nonchalance. Il medico farà fuggire il pazzo, e insieme andranno in giro per il mondo a seminare il panico, fino arruolarsi volontari nella Prima Guerra Mondiale e finendo imprigionati dagli indios. La prima guerra mondiale Cendrars la conosceva molto bene: è lì che perse una mano (come Cervantes sul fronte perse un braccio, due grandi monchi della letteratura), diventando mancino (ci scrisse pure un romanzo, La mano mozza). Ma la parte più bella di Moravagine è quella rocambolesca sul tentativo rivoluzionario nella Russia zarista, una versione pulp de I demoni di Dostoevskij, e in generale le lunghe parti digressive, che farebbero inorridire qualsiasi benpensante di oggi. In ogni caso niente a che vedere con il nichilisti del 1880, loro erano «sognatori, abitudinari della felicità universale», mentre i rivoluzionari di Raymond e Moravagine vogliono solo portare il caos, inappagati di qualsiasi obiettivo. Annientare l'ordine per annientarlo, senza altri fini. «Agivamo come una macchina che gira a vuoto fino a spegnersi, inutilmente, inutilmente, come la vita, come la morte, come un sogno. Nemmeno l'infelicità ci interessava più». Neppure l'amore ha un senso, e il monologo di Raymond sulla natura umana è più estremo di quello del Grande Inquisitore. L'amore è «un'intossicazione grave, un vizio, un vizio che si vuole condividere», e si fonda sul masochismo. Non si salvano le donne, che non sono fonte di vita ma di morte, e non sono vittime ma carnefici (benché carnefici masochisti). «L'amore, in loro, inizia con lo strappo di una membrana per arrivare alla totale lacerazione al momento del parto. Tutta la loro vita non è altro che sofferenza; e infatti tutti i mesi ne sono insanguinate. La donna è posta sotto il segno della luna, questo riflesso, questo astro spento, e di conseguenza tanto più procrea tanto più genera morte». Si arriva, addirittura, alla giustificazione teorica di quello che oggi chiamiamo del femminicidio, per la salvezza dell'uomo («l'omicidio è l'unico mezzo efficace che cento miliardi di maschi e migliaia di secoli di civiltà hanno trovato per non subire l'egemonia della donna»), un romanzo criminalmente misogino (e però, visto come molte donne oggi considerano gli uomini..).
Non si salva neppure Israele, identificato come altra fonte di vittimismo e masochismo, in quanto «solo gli ebrei hanno raggiunto quell'estremo declino sociale a cui tendono oggi tutte le società civili, il quale non è altro che il logico sviluppo dei principi masochistici della loro vita morale». E siamo appena un decennio prima dell'apertura dei primi lager nazisti.
Viene portato all'estremo perfino Darwin: «Distruzione, nulla, ecco cos'è questo scorrere inesauribile delle creature; sofferenze, inutili crudeltà, ecco cosa sono questa diversità delle forme, questo lento, faticoso, illogico, assurdo adattarsi delle creature nell'evoluzione». Tornando di nuovo a puntare il dito sulla donna, perché «l'uomo ne è schiavo, si arrende, rotola ai suoi piedi, abdica passivamente, subisce». Di nuovo, a reggere tutto, c'è il masochismo, l'incontro insensato tra i sessi predisposti a fraintendersi: «ecco perché l'esistenza è stupida, insulsa, futile, e non ha ragione di essere». Un romanzo che qualcuno, di questi tempi, potrebbe voler metter all'indice, quindi un capolavoro.
- Massimiliano Parente - Pubblicato sul Giornale del 22/5/2018 -
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