martedì 22 gennaio 2019

Libri non tradotti

Recensione di Wiktor Stoczkowski

Questo libro è il risultato di una collaborazione, tanto rara quanto inaspettata, fra un antropologo, specializzato nelle società sahariane e musulmane (Pierre Bonte), e uno storico delle idee che lavora sul pensiero vittoriano e sul darwinismo (Daniel Becquemont). Gli incontri imprevisti fra competenze abitualmente separate, spesso avvengono a partire dalla casualità delle complicità personali; e a volte sfociano in quelle che sono delle ibridazioni fertili. È il caso di questo libro che che fissa lo sguardo di due discipline per poter esaminare il concetto di lavoro,  ancora troppo spesso associato ad una funzione universale che viene attribuita a  tutte le società umane, a partire dal semplice fatto che ciascuna di esse svolge delle attività volte a produrre i beni materiali che sono necessari alla sua esistenza. Tuttavia, la nozione di lavoro, e la rete di significati che trasmette sono un prodotto particolare difficilmente generalizzabile della storia occidentale.
Nel loro tentativo di antropologizzare il nostro concetto indigeno di lavoro, Becquemont et Bonte procedono in due tempi: nel primo, propongono un quadro concettuale comune che possa consentire di collocare in un medesimo campo quello che è lo studio delle differenti occorrenze delle attività umane che noi chiamiamo lavoro; mentre nel secondo testano il valore euristico di un tale dispositivo teorico attraverso molteplici studi di casistica. Questi ultimi vengono suddivisi in due categorie. Innanzitutto, una serie di analisi sincronizzate fra di loro viene dedicata alle società degli allevatori dell'Africa, ai regni sacri della regione africana dei Grandi Laghi e alla cultura dell'antica Grecia.
A questo fa seguito una restituzione diacronica di quello che, nella società occidentale, è stato un lungo processo storico di costruzione del concetto moderno di lavoro, al termine del quale emerge, nella seconda metà del XVIII secolo, una visione assai singolare che finirà per radicarsi profondamente nello strato costitutivo delle idee del nostro senso comune.
Gli autori i interessano principalmente alle rappresentazioni del «lavoro», e si sforzano di comprendere il modo in cui ciascuna società concettualizza ciò che noi concepiamo come «l'intervento dell'uomo sulla natura». Ma le rappresentazioni del «lavoro» non esistono al di fuori di un concetto più vasto che riguarda la vita in società e la visione del mondo che la controlla.  Perciò, l'immaginario del «lavoro» funziona sempre esclusivamente nel contesto di una cosmologia locale. E questo contesto non é esclusivamente ideale - sostengono Becquemont e Bonte - ma è anche associato alla prassi, in quanto le categorie simboliche che lo compongono non sono per niente solamente delle «rappresentazioni», ma sono anche delle forme di organizzazione sociale che danno origine all'insieme del sistema di valori e di pratiche di queste società. Uno dei capisaldi di queste cosmologie pratiche del «lavoro» è il sacrificio, e certi comportamenti o certi prodotti economici prestigiosi possono persino diventare oggetti sacrificali, cosa che conferisce al processo di produzione una finalità estranea al nostro concetto moderno di lavoro.

Le diverse società, la cui analisi permette agli autori di poter testare la portata delle loro ipotesi, sono al tempo stesso altrettante configurazioni culturali che potrebbero essere considerate indipendentemente le une dalle altre. Becquemont e Bonte, tuttavia, fanno la scommessa di inscriverle in uno schema comune, che avrebbe potuto essere benissimo scambiato per una sequenza evolutiva «vecchio stile», se gli autori stessi non avessero escluso in partenza una tale interpretazione. Le configurazioni culturali attuale e storiche, vengono quindi qui disposte lungo un continuum che viene dispiegato fra due poli. Il primo polo rappresenta le società ostili, nelle quali le categorie cosmologiche del «soprannaturale» unificano la società e la natura in un solo medesimo cosmo vivente, dove i prodotti e le attività economiche sono eterogenei , dal punto di vista della carica simbolica e da quello della loro capacità di stabilire - attraverso il sacrificio - il legame con il «soprannaturale» e con altri gruppi umani. Il secondo polo è quello delle società individualistiche moderne, industriali e utilitaristiche, nelle quali la scomparsa del «soprannaturale» induce la rottura definitiva fra natura e cultura, dove le attività e i prodotti economici si trovano ad essere perfettamente omogeneizzati, tutti esclusi dalla pratica sacrificale e tutti ridotti ad una sostanza comune, che è quella misurabile del valore.
Gli allevatori dell'Africa orientale incarnano il modello della società olistica di primo tipo. Nei regni sacri dei Grandi Laghi, l'immanenza del soprannaturale nella sua funzione regale induce una prima omogeneizzazione delle attività umane, risultante dalla loro relazione comune con questa funzione; l'insieme delle attività umane viene interpretata in funzione del necessario intervento reale. Nell'antica Grecia, la distinzione fra quella che era la parte degli dei e quella che era la parte degli uomini, come viene testimoniato dalla pratica del sacrificio, introduce un nuovo grado di omogeneizzazione delle attività umane, accompagnato da una concezione strumentale del lavoro e dei suoi prodotti che erano propri dell'istituzione della schiavitù.
A partire dal terzo capitolo, il libro assume un carattere più apertamente diacronico, applicando lo schema generale come quadro interpretativo di una ricostruzione storica che offre una vera e propria genealogia del concetto di lavoro in Occidente. Il processo ha inizio a partire dall'emergere della cosmologia cristiana, la quale fa del lavoro la conseguenza del Peccato originale e lo strumento morale della Redenzione. Il ruolo del sacrificio viene ad essere modificato: ormai non c'è più alcun prodotto che disponga di un valore che lo colleghi al soprannaturale, dal momento che i beni realizzati attraverso la sofferenza degli uomini non sono altro che i segnali di un'offerta, che viene fatta a livello interiore, dell'anima alla divinità. Non essendo più i prodotti materiali destinati ad essere offerti a Dio,  verranno riservati alla soddisfazione dei bisogni umani. La configurazione sacrificale cristiana ha come effetto una omogeneizzazione parziale dei beni esteriori, e ha reso possibile l'esercizio della ragione riguardo l'assegnazione dei beni per l'utilizzo da parte degli uomini. In questo modo, venne aperta una porta all'etica puritana del protestantesimo, con il suo razionalismo economico secolare posto al servizio della salvezza trascendente che esigeva un «sacrificio interiore». In seguito a ciò, l'individualismo utilitarista si costituiva in questa nuova etica sacrificale, e sarebbe divenuto, verso la fine del XVIII secolo, il rifiuto dell'ascetismo esercitato dai primi protestanti. Separato dal cosmo delle cause trascendentali, il mondo sensibile, nel quale agiscono le cause secondarie, da quel momento in poi diventava il dominio del libero esercizio della conoscenza razionale. Alla fine di     questo lungo processo, emerge quella che è la grande sintesi economica di Adam Smith, la quale completa l'omogeneizzazione delle attività umane in una morale utilitaristica, in cui tale attività vengono ridotte ad un valore comune del lavoro, fonte ultima della ricchezza. Nella storia della nostra tradizione culturale, l'omogeneizzazione del lavoro passa attraverso diverse tappe che segnano una serie di metamorfosi della cosmologia occidentale: omogeneizzazione del soggetto sotto i concetti della ragione strumentale e della razionalizzazione dei bisogni; omogeneizzazione della natura, distinta dal cosmo e vista come un mondo di cose minimali conoscibili; definizione di una proporzionalità fra l'azione umana e i prodotti di questa azione, riduzione del lavoro ad una sostanza comune di valore.

È difficile rendere la dovuta giustizia all'erudizione e alla sottigliezza delle analisi che si possono trovare in questo libro: qualsiasi riassunto che se ne possa fare, riesce ad offrirne solo una pallida caricatura. Gli autori si sono impegnati in un'impresa ambiziosissima, riuscendo a realizzarla benissimo. Il concetto di lavoro a cui si sono riferiti, rimane una componente importante di quelle che sono le nostre rappresentazioni occidentali della cosa umana. Avrebbero potuto lasciarsi tentare di mettere in atto una decostruzione, seguendo la facile moda della «critica culturale», alla quale certo non mancano adepti, né in Antropologia né in Storia. Becquemont e Bonte si sono spinti ben al di là rispetto alla dimostrazione del carattere locale e «socialmente costruito» del concetto moderno di lavoro: compiendo una scelta difficile, mostrano in dettaglio come sia stato costruito questo concetto. E dov'è l'Antropologia in questa dimostrazione? Un lettore precipitoso potrebbe pensare che essa giochi un ruolo solamente sussidiario, critico, servendo esclusivamente ad illustrare lo status non generalizzabile del concetto di lavoro; mentre verrebbe riservato alla Storia, lo sforzo costruttivo di renderne il suo processo di elaborazione. Fare questo, significherebbe dimenticare quella che è la funzione cruciale della competenza antropologica nell'elaborazione del quadro teorico che - ponendo le rappresentazioni del «lavoro» in relazione con le pratiche sacrificali e con il contesto cosmologico - ha offerto alla competenza storica un dispositivo interpretativo altamente originale e fertile. I rapporti, già di lunga data, fra la Storia e l'Antropologia hanno il loro bagaglio di malintesi, di mancanza di fiducia, perfino di disprezzo. Tuttavia avvengono anche degli incontri felici, di cui il libro di Daniel Becquemont  e Pierre  Bonte può essere un esempio incoraggiante sia per gli antropologhi che per gli storici.

- Wiktor Stoczkowski - Pubblicato nel novembre 2005 su gradhiva.revues.org -

( Riferimento: Daniel Becquemont & Pierre Bonte, "Mythologies du travail. Travail nommé", Paris, L’Harmattan (« Logiques sociales »), 2004, 308 p.)

fonte: Gradhiva - Revue d'anthropologie et d'histoire des arts

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