giovedì 31 gennaio 2019

Periodi

Keynes: rivoluzionario o reazionario?
- di Michael Roberts - Traduzione a cura di Francesco Delledonne -

Prima parte - Rivoluzionario o reazionario?: L'economia
Keynes era un rivoluzionario nel pensiero e nella politica economica? Era almeno radicale nelle sue idee? O era un reazionario contrario agli interessi dei lavoratori e un conservatore nella teoria economica? Ann Pettifor è una dei principali consiglieri economici dei dirigenti laburisti di sinistra britannici, Jeremy Corbyn e John McDonnell. È direttrice di Prime Economics, una società di consulenza economica di sinistra e autrice di numerosi libri, in particolare il recente The Production of Money. E ha appena vinto il premio tedesco Hannah Arendt per il pensiero politico, concentrandosi su "l'impatto politico e sociale dell'attuale sistema di produzione del denaro, gestito principalmente dalle banche attraverso il credito digitale" e operando un’efficace critica del "settore finanziario globale, che opera al di fuori della portata dell'influenza politica e del controllo democratico". Quindi Ann Pettifor è un’indiscussa combattente contro le politiche economiche di austerità della scuola neoclassica e una promotrice di misure governative per ripristinare i servizi pubblici e rilanciare l'economia. Ma per riuscirci, si basa interamente sulle teorie e sulle politiche di JM Keynes e del "keynesismo". Recentemente ha pubblicato un breve articolo per il prestigioso Times Literary Supplement, intitolato Gli sforzi instancabili di J. M. Keynes. (…) In questo articolo, Pettifor paragona le teorie di Keynes nel campo economico a quelle di Charles Darwin nella biologia, per il cambio di paradigma prodotto da entrambe. Secondo lei, Keynes avrebbe "inventato" la macroeconomia, lo studio delle tendenze nelle economie a livello aggregato, sfuggendo alla soffocante ossessione neoclassica con la microeconomia (lo studio del valore e dei mercati a livello della singola unità). Concorda con la teoria del denaro di Keynes e la sua spiegazione delle crisi sotto il capitalismo come causate dalla eccessiva "accumulazione" di denaro; elogia l’"internazionalismo" di Keynes quando sosteneva che le istituzioni finanziarie internazionali dovessero controllare la speculazione finanziaria ed evitare l'instabilità nel mercato capitalistico. Termina con la preoccupazione che le idee e le politiche di Keynes siano state rinnegate e rifiutate e che ci sia stato un ritorno al capitalismo "decadente", molto lontano dall'età d'oro del periodo post-1945, quando le politiche keynesiane venivano applicate per far funzionare il capitalismo efficacemente per tutti. Conclude con lo slogan: "È tempo di restaurare il rivoluzionario Keynes".
Bene, mi permetto di dissentire da questa visione delle teorie e delle politiche di Keynes e keynesiane. Per cominciare, è davvero eccessivo suggerire che le idee di Keynes siano allo stesso livello di quelle di Darwin. Sì, ci possono essere alcuni creazionisti che ritengono che Dio abbia progettato il mondo e i gli esseri viventi a propria immagine e somiglianza e che l'abbia preservato di conseguenza. Ma nessuna persona sana di mente pensa che questo abbia alcuna validità. L'evidenza è schiacciante sul fatto che Darwin aveva sostanzialmente ragione sull'evoluzione della vita. Ma possiamo dire che Keynes abbia sostanzialmente ragione riguardo le leggi del movimento e delle tendenze nell'economia capitalista? Io non la penso così - e cercherò brevemente di mostrare perché.
Per cominciare, Pettifor ha torto quando afferma che in origine "l'economia classica" fosse microeconomica come la conosciamo ora. Il termine "classico" usato da Keynes riuniva in unico calderone tutti i grandi economisti dell'inizio del XIX secolo come Adam Smith, James Mill e David Ricardo e i loro grandi studi di economia con le teorie marginaliste reazionarie, soggettiviste e di equilibrio della metà del tardo XIX secolo di Jevons, Senior, Bohm-Bawerk, Walrus e Mises. Keynes rifiutava il primo gruppo mentre continuava ad accettare la microeconomia del secondo. Per gli economisti classici del capitalismo d'inizio XIX secolo, non c'era distinzione tra micro e macro. Il compito era di analizzare il movimento e le tendenze nelle "economie" e per questo una teoria del valore era uno strumento necessario ma non un fine in sé.
La microeconomia divenne un fine in se stessa come un modo per combattere il pericoloso sviluppo dell'economia classica verso una teoria del valore che implicava lo sfruttamento del lavoro e delle relazioni sociali in conflitto. Quindi la teoria del valore del lavoro è stata sostituita dall'utilità marginale dell'acquisto da parte del consumatore. "L’Economia politica" è iniziata come un'analisi della natura del capitalismo su una base "oggettiva" da parte dei grandi economisti classici. Ma una volta che il capitalismo divenne il modo di produzione dominante nelle principali economie e divenne chiaro che il capitalismo era un'altra forma di sfruttamento del lavoro (questa volta da parte del capitale), l'economia si mosse rapidamente per negare quella realtà. L’economia convenzionale divenne quindi un'apologia del capitalismo, con l'equilibrio generale che sostituiva la competizione reale; l’utilità marginale che sostituiva la teoria del valore del lavoro; e la legge di Say che sostituiva le crisi.
La macroeconomia appare nel XX secolo come una risposta al fallimento della produzione capitalistica - in particolare, la grande depressione degli anni '30. Qualcosa doveva essere fatto. Keynes mantenne la teoria marginalista dal suo mentore, Alfred Marshall, ma la spostò dinamicamente al di là dell'offerta e della domanda tra singoli consumatori e produttori, verso l’aggregato. L'economia convenzionale "borghese" non poteva più basarsi sulla confortante teoria secondo cui l'utilità marginale andrebbe in pari con la produttività marginale per giungere ad un equilibrio generale di offerta e domanda e quindi un percorso di crescita armonioso e stabile per produzione, investimenti, redditi e occupazione. L'uguaglianza automatica della domanda e dell'offerta, la legge di Say, veniva ora messa in discussione. Doveva essere riconosciuto che il capitalismo era soggetto a boom e crolli, a disequilibri (permanenti?) e quindi a crisi regolari. E queste crisi dovevano essere affrontate - per essere "gestite". Ciò richiedeva un'analisi macroeconomica. In un certo senso, l'economia borghese ha dovuto riportare indietro l'orologio verso l'economia classica - lo studio delle tendenze aggregate - ma senza tornare all'economia politica, che aveva riconosciuto che l'economia riguardava in realtà la struttura sociale e le relazioni sociali (cioè lo sfruttamento di classe) e non una semplice teoria della "scarsità" e dei "prezzi di mercato".
(…) Nell'era d'oro del capitalismo post-1948, la crescita economica era forte, l'occupazione era piena e il reddito elevato. Sembrava quindi che la (macro)economia potesse fornire politiche per "gestire" con successo il capitalismo. Ma questa era solo un'illusione momentanea. L'età dell'oro ha presto perso il suo splendore. La teoria e la politica keynesiana furono sfatate con la prima recessione internazionale simultanea del 1974-5 poi seguita dal profondo crollo del 1980-2. Va tenuto presente che questi importanti crolli nella produzione e negli investimenti avvenivano a livello internazionale durante la messa in atto di politiche keynesiane di gestione macroeconomica, nel resoconto di Pettifor.
Pettifor afferma che le crisi della fine del XX secolo furono il risultato della "decisione delle autorità pubbliche di tutto il mondo di abbandonare la regolamentazione della creazione di credito e della mobilità dei capitali dopo gli anni '60 e i primi anni '70"; in altre parole, la mancanza di regolamentazione sugli sconsiderati banchieri. Ma la domanda a cui non è stata data risposta è: perché gli strateghi del capitale hanno abbandonato la gestione e il controllo in stile keynesiano e hanno optato per la de-regolamentazione, ecc., se tutto funzionava così bene negli anni '50 e '60? La ragione per cui i governi filo-capitalisti si sono rivolti al monetarismo e alle politiche neoliberiste era che il keynesismo aveva fallito. E aveva fallito nel settore più importante per il capitalismo - nel sostenere la redditività del capitale.
Il grande cambiamento dalla metà degli anni '60 in poi fino ai primi anni '80 fu un crollo della redditività del capitale nelle principali economie che portò ad una serie di crolli nel 1970, 1974 e poi nel 1980-2. Questo è ciò che spinse i teorici capitalisti e i responsabili politici a rompere con Keynes. Non ci si poteva più “permettere” i servizi pubblici, lo stato sociale, i buoni stipendi e la piena occupazione e, come dice Pettifor, il keynesismo era considerato come uno "stato interventista, debole verso la spesa pubblica in deficit". Ma tutti questi retrofront di politiche avvennero dopo il crollo degli anni '70, prima del quale il capitale finanziario era "regolato", le valute "gestite", i sindacati avevano diritti, il governo poteva intervenire fiscalmente e c’era poca privatizzazione. Fu il fallimento della produzione capitalista e l'incapacità delle idee keynesiane a funzionare efficacemente che causò il cambiamento di teoria e politica, non viceversa.
Ciononostante, sostiene Pettifor, l'abbandono del keynesismo fu un errore per i "potenti", perché Keynes aveva tutte le risposte per evitare le crisi e far andare avanti le economie capitaliste. Keynes aveva sviluppato una "teoria rivoluzionaria" del denaro: la sua teoria della preferenza per la liquidità. Questa spiegava che le crisi si verificano quando gli investitori o i detentori di denaro non lo spendono, ma lo accumulano. Lo fanno per alcune ragioni soggettive: la mancanza di "spiriti animali", la perdita della convinzione che qualsiasi spesa o investimento fornirà un rendimento sufficiente. Quindi si accumula un surplus di denaro che non viene speso. La risposta, sostiene Pettifor, è che le autorità monetarie intervengano e riducano il costo del prestito "stampando" denaro, in modo che i tassi di interesse sui prestiti si riducano al di sotto del rendimento percepito sugli investimenti. Ciò incoraggerà gli accumulatori di denaro a investire. Tali politiche sono "ancora considerate troppo radicali per essere accettabili oggi". Nel suo libro, The Production of Money, Pettifor ci dice che "il denaro non è altro che una promessa di pagamento" e che dal momento che "stiamo creando denaro tutto il tempo facendo queste promesse", il denaro è infinito e non limitato nella sua produzione, quindi la società può stampare tutto ciò che vuole per investire nelle sue scelte sociali senza conseguenze economiche dannose. E attraverso l'effetto moltiplicatore keynesiano, i redditi e i posti di lavoro possono espandersi. E "non fa differenza dove il governo investe i suoi soldi, se così facendo crea lavoro". L'unico problema è di mantenere il costo del denaro, i tassi di interesse, il più basso possibile, per assicurare l'espansione del denaro (o è credito?) per far progredire l'economia capitalista. Quindi non c'è bisogno di alcun cambiamento nel modo di produzione per il profitto; prendi il controllo della “money machine” per assicurarti un flusso infinito di denaro e tutto andrà bene. Be’, il capitalismo è un'economia monetaria ma non è un'economia di moneta (da sola). Il denaro non può creare altro denaro se non viene creato e realizzato alcun nuovo valore. E ciò richiede l'impiego e lo sfruttamento della forza lavoro. Marx ha detto che è un feticcio pensare che il denaro possa creare altro denaro dall'aria. Eppure questa versione del keynesismo sembra pensarlo. Quando le banche centrali espandono l'offerta di moneta stampando moneta o creando riserve bancarie (depositi), più recentemente il cosiddetto "quantitative easing", questo non aumenta il valore. Lo farebbe solo se questo denaro venisse poi utilizzato in modo produttivo per aumentare i mezzi di produzione o la forza lavoro per aumentare la produzione e quindi aumentare il valore.
Ma, come sosteneva Marx negli anni Quaranta dell'Ottocento contro la "teoria quantitativa del denaro", l'espansione in sé dell'offerta di moneta non aumenterebbe il valore e la produzione, ma è più probabile che aumenti i prezzi e quindi svaluti la valuta nazionale, e / o gonfi i prezzi delle attività finanziarie. È quest'ultimo che si è verificato soprattutto nel recente periodo di stampa del denaro. L'allentamento quantitativo non ha posto fine all'attuale depressione globale, ma ha solo provocato nuove speculazioni finanziarie. Questa versione dell'economia keynesiana non è affatto "rivoluzionaria" o "radicale", poiché è stata adottata da tutte le banche centrali dopo la Grande recessione del 2008 e non è riuscita a ripristinare la crescita economica, gli investimenti produttivi e i redditi medi. In realtà, durante la Grande Depressione degli anni '30, mentre la situazione economica peggiorava, lo stesso Keynes fece a meno delle soluzioni monetarie alle crisi e optò per uno stimolo fiscale, proponendo persino la "socializzazione degli investimenti", una politica molto più radicale rispetto alla produzione di più i soldi. Nel suo Trattato sulla moneta, scritto nel 1930 all'inizio della Grande Depressione, Keynes sosteneva che le banche centrali avrebbero dovuto intervenire con quelle che ora chiamiamo "politiche monetarie non convenzionali" volte a ridurre il costo del prestito e a raccogliere liquidità sufficiente per gli investimenti. Il solo tentativo di abbassare il tasso ufficiale non sarebbe stato sufficiente. Ma ora del 1936, dopo altri cinque anni di depressione (simile al periodo attuale successivo alla Grande Recessione), Keynes divenne meno convinto che "le politiche monetarie non convenzionali" avrebbero funzionato. Nella sua famosa Teoria generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta, Keynes andò oltre. Perché la produzione di più denaro di per sé è fallimentare, secondo Keynes? (…) "Ora sono piuttosto scettico sul successo di una politica meramente monetaria diretta ad influenzare il tasso di interesse (…) poiché sembra probabile che le fluttuazioni nella stima del mercato dell'efficienza marginale dei diversi tipi di capitale, calcolate sulla base dei principi che ho descritto sopra, saranno troppo ampie per essere compensate da eventuali variazioni praticabili del tasso di interesse ". E così Keynes passò a sostenere la spesa fiscale e l'intervento statale per integrare o dare linfa agli investimenti privati fallimentari. Pettifor si è aggrappato a quella parte della teoria e della politica macro keynesiana, l'allentamento monetario, trascurando gli stimoli fiscali, per non parlare della politica più radicale della "socializzazione degli investimenti" (nemmeno menzionata da Pettifor). Quindi il resoconto di Pettifor sull'economia di Keynes è il meno 'rivoluzionario' possibile.

Seconda parte - Keynes: internazionalista o nazionalista?
Keynes era davvero il grande internazionalista che mirava a rendere il capitalismo un sistema stabile attraverso la gestione macroeconomica su scala mondiale? Questa è l'affermazione di Ann Pettifor nella sua recente lode a Keynes. Keynes è diventato famoso dimostrando che le politiche di austerità inflitte alla Germania dopo la prima guerra mondiale sarebbero state controproducenti per gli interessi di Francia e Gran Bretagna. E pare sia stato il promotore della "costruzione dell'architettura finanziaria internazionale a Bretton Woods nel 1944. I politici e gli economisti (se non i banchieri) avevano infine appoggiato la sua teoria e le sue politiche" (Pettifor). Certo, voleva creare istituzioni “civilizzate” per assicurare pace e prosperità a livello globale attraverso la gestione internazionale delle economie, delle valute e del denaro. Ma queste idee di un ordine mondiale per controllare gli eccessi del capitalismo sfrenato si sono alla fine concretizzate in istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Consiglio delle Nazioni Unite, principalmente utilizzate per promuovere le politiche dell'imperialismo, con gli Stati Uniti alla guida. Invece di un mondo di leader “civilizzati” che risolvono i problemi del mondo, abbiamo avuto un'aquila terribile che impone la sua volontà sul pianeta. Gli interessi materiali decidono le politiche, non gli economisti intelligenti. Keynes, l'internazionalista, ci ha dato l’austerità del FMI sulle economie emergenti in difficoltà.
Inoltre, Keynes fu sempre più un rappresentante degli interessi dell'impero britannico che un internazionalista. Dopotutto, era stato nel servizio civile britannico in India. Il biografo di Keynes, Lord Skidelsky, intitolò il terzo volume della sua biografia Keynes: Fighting for Britain. Durante gli incontri di Bretton Woods nel dopoguerra, Keynes rappresentò non le masse mondiali o un ordine mondiale democratico, ma i ristretti interessi nazionali dell'imperialismo britannico contro il dominio plateale americano. Dopo l'accordo, Keynes disse al parlamento britannico che l'accordo di Bretton Woods non era “un'asserzione del potere americano ma un ragionevole compromesso tra due grandi nazioni con gli stessi obiettivi; ripristinare un'economia mondiale liberale”. Solo due nazioni erano importanti, gli interessi degli altri erano ignorati.
Keynes era un internazionalista quando si trattava di economia? Ha iniziato come un fautore del libero scambio seguendo la tradizionale visione neoclassica secondo cui il mercato libero nel commercio avrebbe giovato tutti. Da studente prestò servizio come segretario dell'Associazione di libero scambio della Cambridge University e ne sostenne le posizioni in diversi dibattiti. “Dobbiamo mantenere il libero scambio, nella sua interpretazione più ampia, come un dogma inflessibile, a cui non è ammessa alcuna eccezione, ovunque sia una nostra scelta. Dobbiamo attenerci a ciò anche quando non riceviamo reciprocità di trattamento e anche in quei rari casi in cui violandolo potremmo in effetti ottenere un vantaggio economico diretto. Dovremmo attenerci al libero scambio come un principio della morale internazionale, e non semplicemente come una dottrina del vantaggio economico”. Nel 1928, tuttavia, Keynes aveva cambiato la sua posizione suggerendo che”"la difesa del libero commercio deve essere basata sul futuro, non su principi astratti del laissez-faire, che pochi ora accettano, ma sull'opportunità e sui vantaggi effettivi di una tale politica".
La terribile esperienza della Grande Depressione cambiò ulteriormente le sue opinioni. In dichiarazioni private fornite nel 1930 davanti al Comitato Macmillan per le finanze e l'industria, istituito per offrire consulenza economica al governo britannico all'inizio della Grande Depressione, Keynes propose dazi sull’importazione di beni esteri e sussidi per gli investimenti interni. Alla domanda se l'abbandono del libero scambio valesse i potenziali effetti migliorativi della protezione, Keynes rispose: "Non ho raggiunto un'opinione chiara su dove sia l'equilibrio del vantaggio", ma vedeva il merito dei dazi come un sollievo dal crollo economico. “Ho una paura spaventosa del protezionismo come una politica a lungo termine", dichiarò, "ma non possiamo permetterci di avere sempre lunghe vedute… la domanda, a mio parere, è fino a che punto siamo disposti a rischiare svantaggi a lungo termine per ottenere un aiuto nella situazione immediata”.
In poco tempo, si spostò sempre più verso misure protezionistiche. In risposta alle domande del primo ministro, Keynes dichiarò di essere “stato riluttante a convincersi che alcune misure protezionistiche andavano introdotte”. In un memorandum preparato nel settembre 1930 per il Comitato degli economisti dell’Economic Advisory Council, Keynes studiò i benefici dei dazi, che ora descriveva come “semplicemente enormi”. Questi benefici comprendevano la soluzione del problema fondamentale del disallineamento dei costi del denaro e del tasso di cambio: una tariffa doganale aumenterebbe i prezzi interni e ridurrebbe i salari reali verso il loro “valore di equilibrio”, al contempo evitando una caduta dirompente dei salari nominali (quindi i salari reali cadono senza che la classe lavoratrice se ne accorga). Una tariffa “ripristinerebbe la fiducia delle imprese e creerebbe un clima favorevole per nuovi investimenti”, affermava, “ma non dovrebbe (se non progettata in modo inadeguato) suscitare richieste da parte dei sindacati per retribuzioni più elevate o avere effetti negativi sull'occupazione”.
Le tariffe doganali avrebbero quindi aiutato il capitale britannico contro i suoi concorrenti comprimendo i redditi reali delle famiglie britanniche. Keynes preferiva la svalutazione della moneta, ma considerava come necessari anche i dazi. Iniziò quindi a sostenere le politiche economiche cd. del “rubamazzo” (ovvero che producono benefici unicamente al Paese che lo adotta e danni agli altri, ndT) per aiutare il capitale britannico contro i suoi rivali. Nel 1933 scrisse della sua simpatia “verso coloro che volevano ridurre al minimo, piuttosto che con quelli che avrebbero massimizzato, i legami economici tra le nazioni. Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che dovrebbero essere di carattere internazionale. Ma lascia che le merci siano fatte in casa quando è ragionevole e convenientemente possibile; e, soprattutto, lascia che la finanza sia principalmente nazionale”.
Tuttavia, una volta che la depressione e la guerra finirono, Lord Keynes nel suo ultimo discorso tornò a sostenere la teoria del “libero scambio” (…). Penso che tutto questo ci dica che Keynes era un internazionalista e un fautore del libero commercio quando pensava che questo sarebbe stato nell'interesse del capitale britannico, ma a favore della protezione e di politiche del “rubamazzo” quando pensava che sarebbe stato nell'interesse dello stesso capitale britannico. Per lui c'erano solo due nazioni “civilizzate”, Stati Uniti e Regno Unito (come partner minore), che potevano guidare il mondo. Keynes non ha mai criticato il ruolo dell'Impero britannico, al contrario, l'ha visto come una cosa buona e da preservare.
L'Europa come una rivale dell'imperialismo americano arrivò dopo la morte di Keynes. Con l'ascesa dell'Europa, il capitale britannico iniziò a muoversi verso il continente, entrando a far parte del mercato unico e dell'UE. Ma il capitale britannico rimaneva diviso su dove allinearsi. All'interno della psiche dell'élite dirigente britannica (principalmente quella del capitale più piccolo e locale), rimaneva una nostalgia per l'Impero e uno sguardo fisso oltre lo “stagno” atlantico. Con la caduta delle economie europee dopo la Grande recessione, i lealisti dell'impero reazionario hanno spinto per una rottura con l'Europa e un ritorno al “vecchio ordine” come partner minore dell'imperialismo americano che esisteva ai tempi di Keynes.
Come avrebbe reagito Keynes a questo? Dal mio punto di vista, com'era ai tempi di Bretton Woods, Keynes sarebbe stato generalmente favorevole al commercio più libero e ai flussi di capitali internazionali, poiché pensava che sarebbe stato vantaggioso per il capitale anglo-americano. Quindi potrebbe aver sostenuto l'ingresso del Regno Unito nell'UE, ma non nell'euro, perché ciò avrebbe portato via il controllo sulla valuta e l'opzione della svalutazione. Quale sarebbe stata la visione di Keynes sulla Brexit? Keynes sarebbe stato un "leaver" o un "remainer"? Probabilmente il primo, dove risiedono le sue inclinazioni nazionaliste. Ma forse anche il secondo, dal momento che come diceva il suo rivale economico degli anni '30, Friedrich Hayek, Keynes cambiava le sue idee come cambiava le sue camicie. Keynes era un internazionalista solo finché non era in conflitto con gli interessi del capitale britannico (o dell'imperialismo americano) - praticamente la stessa posizione di Churchill.
Keynes si opponeva con veemenza all'internazionalismo socialista. Keynes vedeva tutti suoi interventi come progettati per salvare il capitalismo da se stesso e per evitare la temuta alternativa del socialismo. Come ha chiarito: “Per la maggior parte, penso che il Capitalismo, saggiamente gestito, possa probabilmente essere reso più efficiente così da raggiungere i fini economici di qualsiasi altro sistema alternativo, ma che di per sé è in molti modi estremamente discutibile. Il nostro problema è di elaborare un'organizzazione sociale che sia il più efficiente possibile senza offendere le nostre nozioni di uno stile di vita soddisfacente”. Così “la guerra di classe mi troverà dalla parte della borghesia istruita”.
Ha mai combattuto per una maggiore uguaglianza? Questo è quello che ha detto. “Per parte mia, credo che ci sia una giustificazione sociale e psicologica per significative disuguaglianze di reddito e ricchezza, ma non per le grandi disparità che esistono oggi. Ci sono attività umane preziose che richiedono il motivo del profitto e l'ambiente della proprietà privata della ricchezza per la loro piena fruizione”. Questo è il rivoluzionario di Pettifor. Keynes calcolava che con l'espansione del capitalismo, attraverso una maggiore tecnologia, avrebbe creato un mondo di abbondanza e svago. A causa di questa abbondanza, il rendimento dei prestiti destinati agli investimenti sarebbe caduto e quindi banchieri e finanzieri non sarebbero più stati necessari; sarebbero potuti essere eliminati (“l'eutanasia del rentier”). Bene, non sembra che stia succedendo. I seguaci di Keynes ora sostengono che il capitalismo viene distorto dalla “finanziarizzazione” e dal capitale finanziario - e questo è il vero nemico. Cosa è successo alla graduale eliminazione delle finanze nel tardo capitalismo a la Keynes?
Al contrario, la teoria del capitale finanziario di Marx non prevedeva una graduale rimozione della finanza; Marx ha descritto l'accresciuto ruolo del credito e della finanza nella concentrazione e centralizzazione del capitale nel tardo capitalismo. Sì, le funzioni di gestione e investimento diventano più separate dagli azionisti delle grandi aziende, ma ciò non modifica la natura essenziale del modo di produzione capitalistico - e certamente non implica che i tagliatori di cedole o gli speculatori nel mondo degli investimenti finanziari scompaiano gradualmente.
Keynes, il presunto oppositore radicale dell'economia neoclassica, secondo Pettifor, tornò sui suoi passi. In uno dei suoi ultimi articoli sull'economia capitalista alla fine della Grande Depressione e all'inizio della seconda guerra mondiale, Keynes osservò che “la nostra critica alla teoria classica dell'economia accettata non consisteva tanto nella ricerca di errori logici nella sua analisi quanto nel fare emergere che i suoi taciti presupposti sono raramente o mai soddisfatti, con il risultato che non può risolvere i problemi economici del mondo reale. Ma se i nostri controlli centrali riescono a stabilire un volume aggregato di produzione il più vicino possibile alla piena occupazione, la teoria classica torna a essere di nuovo vera da questo punto in poi”. Quindi una volta ottenuta la piena occupazione, possiamo fare a meno della pianificazione e dell’“investimento socializzato” per far ritorno ai mercati liberi e alla tradizionale politica e politica neoclassica: “il risultato di colmare le lacune nella teoria classica non è quello di disporre del “Sistema di Manchester” (mercati "liberi”- nota dell’autore), ma di indicare la natura dell'ambiente che richiede il libero gioco delle forze economiche per realizzare le piene potenzialità della produzione”.
Effettivamente, dal punto di vista della teoria economica, nei suoi ultimi anni Keynes ha elogiato il capitalismo 'liberale' molto laissez-faire che i suoi seguaci condannano ora. Nel 1944, scrisse a Friedrich Hayek, il principale 'neo-liberista' del suo tempo e mentore ideologico del thatcherismo, per lodare il suo libro The Road to Serfdom, che sostiene che la pianificazione economica conduce inevitabilmente al totalitarismo: 2moralmente e filosoficamente mi trovo d'accordo praticamente con tutto questo; e non solo in accordo con esso, ma in un accordo profondamente commosso”! E Keynes ha scritto nel suo ultimo articolo pubblicato, “mi trovo commosso, non per la prima volta, a ricordare agli economisti contemporanei che l'insegnamento classico incarnava alcune verità permanenti di grande significato .... Ci sono in queste cose correnti sotterranee profonde, forze naturali, come si possono chiamare, o anche la mano invisibile, che operano verso l'equilibrio. Se non fosse così, non saremmo potuti andare avanti così bene come abbiamo fatto per molti decenni”. Così l'economia (neo)classica della “mano invisibile” e dell’“equilibrio” è tornata dopo tutto - l'opposto per cui i seguaci keynesiani ora si battono. Una volta passata la tempesta (di crollo e depressione) e quando “l'oceano” è tornato di nuovo piatto, la società borghese poteva tirare un sospiro di sollievo. Quindi Keynes il radicale si trasformò in Keynes il conservatore.
Eppure il mito di Keynes, radicale e rivoluzionario, è preservato e promosso dalla sinistra keynesiana e continua ad influenzare il movimento operaio (in particolare i suoi leader) come l'alternativa al neoliberalismo, all’austerità, all’economia di mercato.
Perché succede? Bene, ci sono ragioni teoriche. La macroeconomia keynesiana presuppone che il capitalismo lavori per sviluppare le forze produttive e per soddisfare i bisogni delle persone. Il problema è che occasionalmente c'è un “malfunzionamento tecnico” (Paul Krugman). Per qualche ragione (perdita di fiducia o spiriti animali?), l'investimento capitalista rimane bloccato in una modalità di “accumulo di denaro” da cui non può uscire (trappola della liquidità). Quindi è necessario che le autorità governative diano una “spinta” con stimoli monetari e/o fiscali, e poi tutto tornerà di nuovo come prima - fino alla prossima volta! Keynes amava considerare gli economisti come dentisti che risolvono un problema tecnico di mal di denti nell'economia (“Se gli economisti riuscissero a farsi considerare come persone umili e competenti ai livelli dei dentisti, sarebbe magnifico”). E i keynesiani moderni hanno paragonato il loro ruolo a idraulici che riparano le falle nella conduttura dell'accumulazione e della crescita.
Quello che l'analisi marxista del modo di produzione capitalista rivela è che in definitiva il capitalismo non può porre fine alla disuguaglianza, alla povertà, alla guerra e non può consegnarci un mondo di abbondanza per il benessere comune a livello mondiale, o neanche può evitare la catastrofe del disastro ambientale (qualcosa che viene ignorato da Keynes). Questo perché il capitalismo è un modo di produzione guidato dal profitto superfluo; dallo sfruttamento e non dalla cooperazione; e ciò genera contraddizioni inconciliabili che non possono essere risolte dalla “macro-gestione tecnica” dell'economia. Possono essere risolte solo sostituendo il capitalismo. In questo senso, Marx, piuttosto che Keynes, è vicino a Darwin come rivoluzionario in economia.
Ma c'è un'altra ragione. Geoff Mann, nel suo eccellente libro ‘Sul lungo periodo siamo tutti morti’, ha offerto una spiegazione. Keynes governa a sinistra perché offre una presunta terza via tra la rivoluzione socialista e la barbarie, cioè la fine della civiltà come 'noi' (in realtà la borghesia come Keynes) la conosce. Negli anni '20 e '30 Keynes temeva che il “mondo civilizzato” affrontasse la rivoluzione comunista o la dittatura fascista. Il socialismo come alternativa al capitalismo della Grande Depressione avrebbe potuto benissimo abbattere la 'civiltà' e liberare la 'barbarie' - la fine di un mondo migliore, il crollo della tecnologia e dello stato di diritto, più guerre ecc. Quindi Keynes mirava a qualche modesto intervento di riparazione del “capitalismo liberale”, per farlo funzionare senza la necessità di una rivoluzione socialista. Non ci sarebbe bisogno di andare sul terreno dove gli angeli della “civiltà” temono di camminare. Questa era la narrativa keynesiana. Questo è un appello (che ancora fa presa) ai leader del movimento operaio e ai "liberali" che vogliono il cambiamento. La rivoluzione è rischiosa e potremmo tutti andare giù con lei: “la sinistra vuole la democrazia senza il populismo, vuole una politica di trasformazione senza i rischi della trasformazione; vuole la rivoluzione senza rivoluzionari” (Mann p.21).
Ma saremo davvero tutti morti se non poniamo fine al modo di produzione capitalistico. E ciò richiederà una trasformazione rivoluzionaria. Armeggiare con i presunti malfunzionamenti del capitalismo “liberale” non “salverà” la civiltà sul lungo termine.

- Michael Roberts - Pubblicato nel mese di ottobre 2018 su Michael Roberts Blog blogging from a marxist economist -
- Traduzione a cura di Francesco Delledonne, pubblicato su La Città futura -

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