La sinistra, i "gilet gialli" e la crisi della forma soggetto
- Note a proposito di un movimento in atto -
di Clément Homs
1 - Decomposizione del capitalismo e crisi della forma soggetto: Gilet gialli, ideologie di crisi e populismo produttivo trasversale
I gilet gialli che si sono mossi per bloccare le rotatorie, le autostrade, o gli accessi alle zone commerciali - così come è avvenuto per altri movimenti sociali - esprimono fondamentalmente parte di quella multiforme esperienza negativa derivante dalle sofferenze sociali che il processo della valorizzazione in crisi, e la fine della congiuntura che, nel quadro di un «capitalismo inverso» (Trenkle & Lohoff, 2014), può continuare solo grazie al gonfiaggio del capitale fittizio infliggono agli individui rimasti intrappolati nella forma soggetto.
La questione della tassa sui combustibili fossili, vale a dire questa dimensione «anti-fiscale» del movimento dei gilet gialli, è solo apparentemente il motivo dell'azione, perché anche se questo contenuto ideologico non è affatto banale, e ci dice già molto della maniera in cui viene soggettivizzata la «blindatura» del soggetto moderno in crisi che reprime la propria determinazione politico-statale per credere di poter camminare senza stampelle, non è altro che la superficie dell'iceberg dei gilet gialli. Se questo obiettivo anti-tasse esprime già una forma di auto-rappresentazione del soggetto moderno adeguata alla «fine della politica» (Robert Kurz) e alla de-nazionalizzazione dello Stato, e costituisce quindi una delle forme di espressione del soggetto di crisi (homo oeconomicuis forever!), cosa che rende anacronistico ogni raffronto fra i gilet gialli e le rivolte fiscali premoderne dal XV al XIX secolo (cosa che invece non sembra capire Gérard Noiriel nel suo testo «Les gilets jaunes et les leçons de l'histoire» [**1], questa faccenda delle tasse è solo la goccia che fa traboccare il vaso di un'esperienza negativa ancora più vasta di quelle che sono le sofferenze sociali inflitte dalla relazione feticista-capitalista in crisi. Quello che i gilet gialli pongono, al di là della tassa sui prodotti energetici, è la questione più globale del calo del potere di acquisto.
Se i gilet gialli gridano «mi fanno male la tasse, anziché dire che hanno male dappertutto», non si tratta solo di interessi semplicemente «materialisti» (economici), come la rivendicazione economica di un livello di vita e il tener conto dei limiti di spesa che vengono imposte ai gilet gialli. Questa continua sempre ad essere intesa in termini di «questione sociale» e di «propri interessi» che possono essere risolti attraverso la regolazione statale della riproduzione complessiva della società capitalistica (grazie alla riduzione di una tassa, o all'aumento dello SMIC [Salaire minimum interprofessionnel de croissance] e dei salari). Infatti, simultaneamente, nella mobilitazione dei «gilet gialli» quella che si esprime è anche una soggettivazione specifica di questa esperienza negativa delle sofferenze sociali capitalisticamente costituite nelle categorie stesse della crisi della forma soggetto (Jappe, La société autophage, 2017). Una forma apriori, nella quale si vede sempre, individualmente e psichicamente, la stessa esperienza negativa. E il modo in cui viene soggettivata tale esperienza negativa non è a nostro favore. Fra i «gilet gialli» (ma questo non è affatto esclusiva delle persone che si sono mobilitate) le ideologie di crisi prevalenti nel soggetto moderno sono legioni, e minacciano continuamente di essere a loro volta un motore del processo di crisi, anziché contribuire a rimettere in discussione la forma di vita capitalistica sulla base di un'auto-abolizione del soggetto moderno. Quindi, questo «Aver male dappertutto», questo «ne abbiamo piene le palle», questo «rotti le scatole», questo «stufo marcio generalizzato» da parte di un gilet Giallo intervistato sulla BMF-TV il 17 novembre, significa anche soffrire nella propria «dignità». Ma non si tratta di «dignità» in senso morale trans-storico, come crede Noiriel che riesce a cogliere questo desiderio di dignità e questo disprezzo da parte dei potenti assumendolo solo per mezzo della grossolanità di un concetto superficiale come quello del dominio (dominanti e dominati). È la «dignità» dell'individuo intrappolato nella forma soggetto moderna, quella che si esprime durante il processo di auto-contraddizione interna capitalistica, sempre accompagnato dal suo orientamento soggettivo, la crisi del soggetto moderno che si vede realmente sempre più superfluo nel suo ruolo di «maschera di carattere» (Marx) della riproduzione complessiva del capitalismo. Questa indegnità, questo disprezzo esercitato nei confronti degli individui, non viene affatto messo in atto, in ultima istanza, come dice Noiriel, dai «dominanti» (in realtà, per Marx, i dominanti sono solo le personificazioni - negli individui - dei rapporti sociali, diventati autonomi, nella loro reiterazione quotidiana; sono degli «ufficiali e sottufficiali» del capitale, sono, come dice Kurz, un'«élite di funzione», sono in questo senso una classe approfittante, ma non dominante in quanto cavalcherebbe quella tigre del «soggetto automatico» che è la relazione del capitale, ma è il risultato del processo stesso di valorizzazione nella sua «contraddizione in processo», ed è quindi il divenire superflui degli individui che tuttavia hanno incorporato, per autodisciplina, le strutture sociali e le esigenze del processo di valorizzazione. Questo «disprezzo dei potenti» è in realtà il disprezzo che riserva loro la metafisica reale capitalista nella sua fase di decomposizione, e che viene esercitata per mezzo delle sue stesse «maschere di carattere», ma che ha già la sua condizione di possibilità nel mondo realmente capovolto che costituisce la forma della vita sociale capitalista.
Il percorso del capitalismo ci espelle sempre più dalla forma soggetto che siamo obbligati ad indossare per poter soddisfare quelle che sono le sue terrificanti esigenze. L'individuo vive, interiormente nella propria carne e nella sua psiche marchiata dal fuoco della dissociazione (R. Scholz), questa crisi del suo proprio essere in quanto soggetto economico, politico, dei diritti sociali, ecc. E malgrado il fatto che ormai questo soggetto giri a vuoto - visto che ora il processo di accumulazione non sta più lì, trionfante, come lo era ai tempi del boom fordista, in modo da poter generare internamente al suo mondo l'individuo che rimaneva intrappolato nella forma soggetto ed interiorizzava una tale abitudine sociale fin dalla sua infanzia attraverso una sorta di polizia interna fatta di sacrifici erogati e di un meccanismo di costituzione di un «Ego astratto» (Jappe, 2017) - nonostante tutto questo l'individuo non può fare altro che isterizzare in maniera affermativa-irrazionale il soggetto, ormai morto vivente, del capitalismo: «io sono quel che sono». Questa forma soggetto si riferisce all'individuo, ma anche a degli aggregati di soggetti. Costituisce sia il soggetto individuale ed il suo «Io astratto» ( è l'homo oeconomicus ed il soggetto della conoscenza portatore di una ragione universale, portatore della volontà, del diritto., della politica, della cittadinanza, della giustizia, del soggetto di imposta, dell'amministrato, del patriota pronto al sacrificio, del soggetto dei diritti sociali, ecc.), sia che i mega-soggetti collettivi (popolo, «razza», nazione e classe) che hanno accompagnato l'interiorizzazione di quelle che sono state le ingiunzioni della socializzazione feticistica. Il capitale, il soggetto automatico, che per il suo «automatismo» si trova ora in procinto di distruggere le basi stesse della vita sulla terra, non è affatto neutro in relazione al genere, all'Altro, alla «razza», al corpo e alle disparità economiche. La pretesa neutralità delle categorie capitaliste si ottiene unicamente a prezzo della dissociazione di quello che in esse non è identico: attitudini, qualità, emozioni e disposizioni che vengono espulse fuori dal soggetto e che si trovano ad essere proiettate ed attribuite, come altrettanti stigmi negativi, al non soggetto femminile e ad altri soggetti minori. Nel capitalismo di crisi, questa forma soggetto conosce il processo-rigido della sua riaffermazione fondamentalista, irrazionale ed isterica, dal momento che i bastioni nei quali, nei rapporti sociali, esiste l'individuo urla riempiendosi di un odio virulento che lo differenzia qualitativamente ancora di più dai suoi simili: «Non entrerete!», «Per voi non ci sarà niente!». Queste sono le grida della sua perdizione. Contro lo «Stato de-nazionalizzato» (Saskia Sassen, 2006), contro il migrante, contro lo straniero, contro tutti gli altri «non soggetti» o contro i soggetti minori (omosessuali, zingari, ecc.), l'individuo isterizza l'affermazione della forma striminzita e rimpicciolita del soggetto moderno, il solo soggetto economico che è rimasto, quell'homo oeconomicus rimasto sulla scena.
Nel contesto della sussunzione reale degli individui sotto la forma soggetto, le ideologie di crisi servono da sollievo per la coscienza interna assoggettata che può così essere dispensata dal sottoporre ad un esame critico le proprie condizioni di esistenza. La loro funzione rimane quella di accordare alla coscienza interna subordinata al soggetto, un senso funzionale interno all'esperienza negativa delle sofferenze sociali patite dagli individui. In qualsiasi momento, la «questione sociale» può avere qualcosa a che fare con l'antisemitismo (anche sotto l'aspetto dell'«antisionismo»), con il razzismo, con il nazionalismo, l'antiziganismo, ecc. «Questioni sociali» ed «ideologie di crisi» possono provenire dalle stesse bocche dal momento che questa esperienza negativa delle sofferenze sociali inflitte agli individui attraverso la relazione di capitale feticistica, viene vissuta individualmente ed interiormente all'interno di quella stessa prigione della forma soggetto moderna che è stata indossata dall'individuo in quanto «maschera di carattere» della metafisica reale del lavoro astratto nel suo processo metamorfico.
Come ogni individuo socializzato nel capitalismo, i gilet gialli sono sia altrettanti oggetti di quella «contraddizione in processo» che è il capitale che sega il ramo sul quale si è seduto (Trenkle et Lohoff, 2014), sia i soggetti della sua crisi attraverso la vuota riaffermazione, isterica ed irrazionale, della forma soggetto moderna. Vittima di un travaglio interno e continuo causato dal duplice sentimento sia di potenziale forza («La mia forza è la stessa della forza del denaro», dice Marx) che di impotenza reale riguardo la sua relazione con la società che gli si pone di fronte come se fosse un vincolo collettivo cosificato, in particolare sotto la forma del processo di valorizzazione e della sua dinamica, la quale detta la situazione senza poter intervenire concretamente [*1]; il soggetto intrappolato in una «mentalità survivalista di sopravvivenza» ha interesse solamente alla sua particolare riproduzione economica, e compresa la propria impotenza individuale per mezzo del narcisismo collettivo del populismo produttivo. C'è questa scissione alla base del processo affermativo-apologetico di auto-costituirsi in popolo, riferito direttamente al soggetto individuale, e alla base delle ideologie di crisi che affermano in maniera isterico-irrazionale il soggetto popolo nel capitalismo di crisi: nel senso in cui lo ritroviamo all'origine delle mobilitazioni delle identità collettive funzionali, che sono altrettante fantasie di potenza compensatorie dell'impotenza concreta dei soggetti monetari in quello che è il loro rapporto con la società (che affrontano come se fosse una forza estranea cosificata e naturalizzata), vale a dire, senza che possano intervenire. Il populismo produttivo è qui un'ideologia di crisi politicamente trasversale (di sinistra come di destra, da Mélenchon e Sadri Khiari, a Alain de Benoist e Marine Le Pen), al modo di soggettivazione che avviene attraverso la dicotomia che oppone il popolo degli onesti e dei veri produttori (in questo caso, i gilet gialli) alle élite parassitarie ed improduttive, che, uno ad uno o tutti insieme, possono essere intellettuali, culturali, politiche, burocratiche, industriali o finanziarie, e alle istituzioni monetarie - nella figura dei banchieri, dei finanzieri, del «potere del denaro», ecc. Gli «Altri», che appaiono in questa piccola percentuale «dominante», l'1%, il 3%, il 4%, di «parassiti» non produttori, mentre il resto, i «Noi» che si oppongono a questa «oligarchia», a questa «casta», a queste «200 famiglie», è il noi dei «veri produttori» della ricchezza sociale naturalizzata, che proclama immediatamente lo Stato, il vero Stato, da e per il popolo (non lo Stato de-nazionalizzato, delle élite cosmopolite, ecc.). È la continuità con il vecchio movimento operaio defunto e l'identità operaia, è un movimento che crede e si riconosce nel lavoro, quello vero. Ma nella soggettivazione populista, a causa del processo generale di declassamento che avviene nel processo capitalista di crisi e a causa della ristrutturazione del processo di produzione che ne deriva, il ciclo della lotta è quello di una lotta senza classi (Trenkle, 2019 ; Krisis, 2002 ; Durand, 2017) intorno a quello che rimane del feticcio-lavoro, nel momento in cui si accentua il diventare sempre più superfluo degli individui ai fini della valorizzazione e della loro riproduzione complessiva. Essenzialmente, questa lotta assume la forma dominante di quest'opposizione binaria fra i veri «produttori» ed i «parassiti» improduttivi, ancorandola ad un'ideologia di crisi che attraversa il pianeta capitale in crisi, dove in nome della difesa dei «produttori» unisce tutti i lavoratori (lavoratori produttivi ed improduttivi nel senso di Marx, ma più in generale l'insieme dei soggetti del lavoro, a prescindere dal posto oggettivo che occupano a livello di totalità nella relazione valore-dissociazione) al capitale industriale ed agrario. Sebbene si tratti di una lotta senza classi a causa del processo di declassamento del capitalismo di crisi, è sempre ancora in tutto e per tutto una lotta del soggetto moderno trasversale che ha perduto gli abiti della propria identità operaia per sopravvivere solo attraverso l'affermazione isterizzata del soggetto moderno individuale, e di altri mega-soggetti come la nazione e la «razza», che proprio come la «classe» avevano accompagnato la fase di ascesa del capitalismo e l'integrazione repressiva degli individui nell'ontologia del lavoro.
La questione del modo di soggettivazione delle sofferenze sociali inflitte dal processo metamorfico del lavoro che coinvolge gli individui e le classi, qui è fondamentale, e può costituirsi in qualsiasi momento come un ostacolo ad ogni prospettiva rivoluzionaria ed emancipatrice.
2 - Gilet o non gilet? - Dalla crisi dell'anticapitalismo tronco di sinistra alla sua fusione nel populismo produttivo di crisi.
Abbiamo assistito per una settimana - fra il 17 ed il 24 novembre, e anche nelle due settimane che hanno preceduto l'emergere, in Francia, del movimento polimorfico dei gilet gialli - ad una crescente scissione all'interno della «sinistra» alter-capitalista, fra pro-gilet ed anti-gilet. La sinistra che ha pretese anticapitaliste e rivoluzionarie. è fondamentalmente disorientata nei confronti degli individui che sono delle «vittime», ma che tuttavia per alcuni fra loro possono essere, razzisti, anti-immigranti, omofobi, anti-tasse, ecc. Con i gilet gialli, la sinistra appare essere come strattonata in quello che è il suo commercio ideologico, e non sa come reagire quando le sue mitologie militanti non possono più servire da griglia per identificare un movimento-UFO. A sinistra, nei confronti di questi gilet gialli, troviamo due posizioni:
- Per quanto riguarda gli sprezzanti di sinistra, abbiamo assistito come sempre alla ricopertura preventiva e rapida dei «gilet gialli» sotto uno spesso strato di qualificazioni peggiorative ed essenzializzanti: sono dei «poujadisti», dei «razzisti», degli «xenofobi», dei «fessi manipolati dal padronato», a manovrarli sarebbe l'estrema destra, alle nostre porte sarebbe arrivato il «proto-fascismo», e forse addirittura i «corpi franchi», ecc., e per far questo ci si è largamente basati su tutti gli avvenimenti chiaramente razzisti, omofobi, anti-migranti, ecc. che hanno caratterizzato alcuni settori del movimento.
Questa «reductio ad poujadismus», che in queste ultime settimane è diventata la specialità di quelli che parlano di andare ad istruirli, ha nell'immediato, come contropartita, la riaffermazione abbagliante della metafisica della lotta di classe, pura ed autoreferenziale, soprattutto quando tenta di contenere i gilet gialli all'interno del rassicurante cordone sanitario dell'«interclassismo», il cui rovescio sarebbe l'operazione di salvataggio della vera «lotta di classe», sana, non razzista, non antisemita, non xenofoba (sulla «xenofobia operaia» della metà del XIX secolo, possiamo trovare un richiamo in Noiriel, 2014). A partire da una mitizzazione della classe sana e pura, che li accieca, questi segmenti della sinistra, alla fine si ritrovano in una forma di negazione del tipo populista/operaista, poiché la mitizzazione delle «classi popolari», o del «proletariato», impedisce loro di riconoscere che delle componenti proletarie/di classe popolare possono essere benissimo attraversate, ieri come oggi, da delle soggettivazioni razziste, omofobe, autoritarie, neofasciste, ecc., e più specificamente questo può avvenire proprio nell'attuale ciclo di lotte senza classe, che prende la forma di una soggettivazione populista-nazionalista-cittadinista (cfr. Pascal Perrineau, 2017). Ma il loro schema riesce a comprendere queste soggettivazioni nelle classi popolari solo come il prodotto di una manipolazione da parte dei «dominanti», e non come una teorizzazione critica da parte della forma soggetto moderna. La lotta di classe dev'essere necessariamente pura e sana, e se non lo è ciò avviene avviene solo a causa di una manipolazione esterna. Fondamentalmente, questa insorgenza negli strati cosiddetti «popolari» del movimento dei gilet gialli, si trova in contrasto con questa famiglia di sinistra, che è quella della «grammatica socialista» (Irene Pereira, 2010) - ad esempio, la CGT, con Martinez, la quale finora ha preso le distanze dai gilet gialli - per la quale il soggetto non è il cittadino, bensì il lavoratore, ad affermare l'essenza rivoluzionaria della classe proletaria. Bisognava assolutamente riconoscere nei gilet gialli qualcosa di diverso dalla buona «lotta di classe». Dal momento che in materia il marxismo tradizionale ha sempre svolto la sua confortevole narrazione. Secondo lui, la classe operaia, attraverso la propria volontà organizzata, è l'unica forza in grado di presiedere al superamento del capitalismo. Ogni tesi che si allontana da tale narrazione mitologica della lotta di classe reale, viene immediatamente considerata come appartenente al campo opposto, e quindi ostile e «controrivoluzionaria». E questa sovrapposizione mitologica della lotta di classe reale, che tratta in maniera immanente quelle che sono le contraddizioni interne al sistema del fine in sé della valorizzazione, si schiera con un marxismo tradizionale che difende un concetto di capitalismo incentrato su una comprensione feticizzata delle classi. Come sempre, quest'ultime vengono scambiate a torto per essere dei soggetti privi di apriorismo sociale, e sembrano perciò assumere tutto l'insieme delle categorie riproduttive del capitale sotto la ragione ultima di una loro soggettività sociologica, mentre in realtà nel Marx della maturità le classi sono delle categorie derivate dalla relazione feticcio-capitale, con il capitale come «soggetto automatico» (Anselm Jappe, Les Aventures de la marchandise, 2017). Questa famiglia del marxismo tradizionale che si è costituita nel XIX secolo, nella sua metafisica classista che doveva sostituire le linee di argomentazione del «Marx esoterico» (Roman Rosdolsky/Kurz) che toccano l'essenza del capitalismo, prendeva la forma fenomenica concreta presa all'epoca dall'antagonismo fra il lavoro ed il capitale, per l'essenza stessa del capitalismo. Gli spregiosi di sinistra che fantasticano sulla classe sfruttata solo a partire dalle motivazioni utilitaristiche-borghesi degli interessi economici, non riescono a vedere le contraddizioni sociali se non nei termini di una mitizzazione della lotta di classe, negando le contraddizioni e le lotte realmente esistenti e le lotte senza classi che ormai fioriscono incessantemente dal processo capitalista di crisi nell'era della terza e quarta rivoluzione industriale, e dal capitalismo che gira globalmente intorno ad un regime di accumulazione ormai incentrato sull'anticipazione della produzione del plusvalore futuro attraverso un gonfiaggio esponenziale del capitale fittizio.
- Dall'altro lato, si è potuto vedere negli altri segmenti della sinistra, e in quello della France Insoumise, e in certi autonomi (come Nantes Révoltée, Lundi.am, ecc.), o in certe tendenze della NPA e perfino della CNT, un appello senza mezzi termini a fondersi con i gilet gialli. Questo sabato 24 novembre, sulle barricate o nelle manifestazioni, abbiamo perciò potuto vedere, per la prima volta dei tempi del Boulangisme della fine del XIX secolo (quando la sinistra radicale comunarda e la destra radicale barresiana-realista si coalizzarono), dei segmenti della «sinistra radicale» con pretese anticapitaliste, ma la cui unica linea di condotta è la violenza soreliana, e l'estrema destra fascista, fianco a fianco, tirare sanpietrini sui poliziotti, lungo le Champs Elysées, sudando per ore insieme all'FN, al GUD, ecc. in un miscuglio di ACAB e di bandiere tricolori, di Internazionale, di canti patriottici e di «On est chez nous».
A sinistra, nelle ultime settimane, questa legittimazione a fondersi senza restrizioni con i gilet gialli è avvenuta in maniere differenti. A volte attraverso la retorica apparente della lotta di classe. Insieme a quella dose di simpatia condiscendente che l'accompagna - il movimento dei gilet gialli non sarebbe altro che un guscio vuoto da riempire - è stato perciò sottolineata la necessità di esserci al fine di evitare l'«egemonizzazione» del movimento dei gilet gialli da parte delle ideologie e dei sentimenti di estrema destra. In realtà, come hanno dimostrato diversi studi (Lazar, 2004 ; Birnbaum, 2012), a partire dagli anni '30 e dopo gli anni '60, la sinistra ed il PCF, riempendosi la bocca di un'apparente retorica della lotta di classe, sono scivolati verso un discorso populista, e non semplicemente marxista, incentrato sul proletariato di fabbrica, allargando così quello che era il soggetto dell'azione a questo mega-soggetto collettivo che è il «popolo», e la cui costruzione ha accompagnato tutta la fase di ascesa del capitalismo. «Popolo», che verrà sempre opposto alle élite parassitarie, «non produttive», ecc.
Questa legittimazione viene perfino anche rafforzata dal rifiuto assunto a partire dal paradigma della lotta di classe e dalla vecchia teoria dell'essenza rivoluzionaria del proletariato (Lundi.am, Comité invisible, ecc.), con la scusa del superamento di tali lotte incentrate sulla sfera della produzione in favore della nuova legittimità del blocco della sfera della circolazione dove, come pensa il pensiero borghese, si crea valore. In "A nos amis", assumono da parte loro i topos dell'anticapitalismo tronco, del marxismo tradizionale e dell'economia politica critica secondo cui la distribuzione può benissimo diventare il luogo esclusivo di una critica sociale.
In questo modo di vedere il feticismo, il capitalismo viene identificato nella sfera della circolazione (soprattutto nel mercato e nei suoi flussi). Fissarsi sulla circolazione è il fondamento di ogni ideologia militante del blocco dei flussi. Si può quindi leggere che «il processo della valorizzazione della merce, dell'estrazione alla pompa, coincide con il processo di circolazione, che coincide esso stesso con il processo di produzione, che in tempo reale dipende di fatto dalle fluttuazioni finali del mercato. Dire che il valore della merce cristallizza il tempo di lavoro dell'operaio è stata un'operazione politica tanto fruttuosa quanto fallace. In una raffineria, così come in qualsiasi fabbrica perfettamente automatizzata, è diventato il segno di una feroce ironia» (Comité invisible, A nos amis, La fabrique, 2014, p. 92). E perciò si parla della «produzione di valore per mezzo della circolazione di informazioni e di merci» (ivi, p.190), vale a dire il flusso, in accordo con la fissismo circolazionista borghese che farà sempre dello scambio e della sfera della circolazione delle merci, il luogo della produzione del valore (di passaggio, si può notare un errore abbastanza classico, quando si sostiene che per Marx e per i marxisti, «il valore della merce cristallizza il tempo di lavoro dell'operaio», riferendolo qui, all'inverso, all'operaio particolare...).
Così facendo, alcuni collettivi senza bussola sembrano anche realizzare, a fianco dei gilet gialli e dei fascisti presenti, il loro semplice sogno di disordine sociale che spezza il corso del capitalismo, soprattutto attraverso la glorificazione, soreliana e nichilista russa, della violenza come atto di redenzione, di rigenerazione. Questa violenza, che nel corso della dinamica immanente del capitalismo ha contrassegnato cicli differenti di lotta, è caratteristica dei periodi di ristrutturazione in cui si passa da una configurazione del capitalismo ad un'altra [*2]. Perché questa concezione della violenza non è qualcosa di indeterminato a livello storico. Ma essa esprime piuttosto a livello soggettivo, sotto una forma reificata, perfino ontologizzata, qualcosa della dinamica immanente al capitalismo, e che diventa rapidamente politicamente trasversale, rossa, nera e bruna. Questa glorificazione della violenza per la violenza, che all'inizio del XX secolo è già stata il luogo di fusione di una violenza di sinistra e di una violenza di destra, oggi esiste essenzialmente sotto la bandiera di un insurrezionalismo vuoto e postmoderno, così come è stato presente nel corso della dislocazione della configurazione liberale della fine del XIX secolo, fra una parte minoritaria degli anarchici a partire dagli anni 1880, e in George Sorel all'inizio del secolo successivo, e poi in Vilfredo Pareto e in Franz Fanon.
Questa legittimazione che proviene dallo stare con i gilet gialli esiste anche a sinistra sotto la forma di un'accettazione regressiva di numerosi contenuti ideologici. Una parte della stessa sinistra alter-capitalista si riconosce in tutto e per tutto nei contenuti di queste ideologie di crisi, ed in particolare per quel che riguarda il populismo produttivo (comunque politicamente trasversale) e perfino anche la sua variante nazional-populista, il neo-nazionalismo. La crisi del capitalismo è simultaneamente la crisi dell'anticapitalismo tronco della sinistra cosiddetta «di sinistra», la quale digerisce senza problemi un mucchio di melma costituito dalle macerie ammucchiate alla rinfusa, ricavate dal marxismo tradizionale e dalle ideologie di crisi provenienti dalle secrezioni fatte a partire dalla soggettivazione populista del soggetto in crisi. Sinistra e ideologie di crisi diventano sempre più indistinte. È questa la sfera complessiva del populismo produttivo di sinistra che va da Mélenchon a Sarah Wagenknecht passando per Pomedos, ecc., del quale ora sono diventati apertamente i portavoce politici (troviamo anche una sinistra che si fonda con le ideologie di crisi di tipo «religiosa» - si veda su questo concetto, Norbert Trenkle, 2015 - che da parte sua riprende i rifiuti religiosi provenienti dall'Islam, dal cristianesimo, dall'induismo, ecc.). Qui, troviamo quindi una sinistra del tutto a suo agio con una soggettivazione populista presente in maniera latente nei gilet gialli (il leader de La France Insoumise che prima dell'assemblea intona la Marseillaise), e che presenterà quelli che sono i divari razzisti, omofobi, ecc. come inevitabili, dal momento che non si fanno le frittate senza rompere le uova.
Bisognerebbe portare nel ciclo delle lotte senza classe un altro punto di vista, al fine di fare emergere e tracimare, rispetto al trattamento immanente delle contraddizioni del sistema, tutto quello che rimaneva bloccato anche prima nella lotta di classe, criticando insieme alla prima e alla seconda reazione di sinistra nei confronti dei gilet gialli anche l'«anticapitalismo» feticista e spesso regressivo che nasce all'interno della coscienza interna soggiogata del soggetto moderno. È evidente che quel che oggi dobbiamo esercitare è la critica spietata di tutto ciò che esiste. «Non si tratta di chiedere l'inclusione degli esclusi nella sfera del lavoro, del denaro e dello status di soggetto, ma si tratta di farla finita con una società in cui solo la partecipazione al mercato dà il diritto di essere "soggetto".» (A. Jappe). Sottolineando quindi che uno dei compiti principali della teoria critica, e della critica radicale del valore in particolare, è la critica intransigente delle ideologie di crisi, la quale non può essere altro che la critica della forma soggetto in quanto tale. Per far sì che queste ideologie di crisi non occupino la soggettivazione dell'esperienza negativa delle sofferenze imposte agli individui. Per impedire che questa soggettazione cada nelle mani sporche della coscienza interna soggiogata dal soggetto moderno. Affinché le porte dell'emancipazione non vengano definitivamente chiuse nel momento stesso in cui il capitalismo agonizza.
- Clément Homs - Pubblicato il 27/11/2018 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -
BIBLIOGRAFIA
Pierre Birnbaum, La genèse du populisme. Le peuple et les gros, Fayard, 2012.
Anselm Jappe, Les Aventures de la marchandise ; Pour une critique de la valeur, La découverte, 2017.
Jean-Pierre Durand, La fabrique de l’homme nouveau. Travailler, consommer et se taire, 2017.
Anselm Jappe, La société autophage. Capitalisme, démesure et autodestruction, La découverte, 2017.
Groupe Krisis, Manifeste contre le travail, Lignes/Léo Scheer, 2002.
Robert Kurz, « La fin de la politique », revue Cités, PUF, 2014
Robert Kurz, Impérialisme d’exclusion et état d’exception, éditions Divergences, 2018.
Marc Lazar, « Populisme et communisme : le cas français », dans Taguieff (dir.), Le retour du populisme, éditions encyclopédie universalis, 2004.
Gérard Noiriel, Immigration, antisémitisme et racisme en France, Fayard, 2007.
Gérard Noiriel, « Les gilets jaunes et les ‘‘leçons de l’histoire’’ » (novembre 2018)
Irène Pereira, Les grammaires de la contestation : un guide de la gauche radicale, La découverte, 2010.
Pascal Perrineau, Cette France de gauche qui vote FN, Seuil, 2017.
Norbert Trenkle & Ernst Lohoff, La Grande dévalorisation. Pourquoi la spéculation et la dette de l’Etat ne sont pas les causes de la crise, Post-éditions, 2014.
Norbert Trenkle, « Pourquoi l’islamisme ne peut être expliqué à partir de la religion ».
Norbert Trenkle, « Lutte sans classes. Pourquoi le prolétariat ne ressuscite pas dans le procès capitaliste de crise » (Krisis, n°30, 2006).
Saskia Sassen, Critique de l’Etat, Demopolis, 2006.
NOTE:
[**1] - Gérard Noiriel cerca di far derivare la mobilitazione dei gilet gialli da una storia cosiddetta «popolare», indicando dei «punti comuni a tutte le grandi rivolte popolari che si sono succedute nel tempo». Scrive: «La cosa principale riguarda l'oggetto iniziale delle rivendicazioni: il rifiuto di nuove tasse sul carburante. Le lotte anti-fiscali hanno giocato un ruolo estremamente importante nella storia popolare della Francia. Arrivo a pensare addirittura che il popolo francese si sia costituito grazie alle tasse contro di esso. Il fatto che il movimento dei gilet gialli sia stato motivato dal rifiuto di nuove tasse sul carburante non ha perciò niente di sorprendente. Questo genere di lotte anti-fiscali ha sempre raggiunto il suo apice quando le persone hanno avuto la sensazione che dovesse pagare senza ottenere niente in cambio». In realtà, Noiriel commette un grossolano errore che rivela in maniera fondamentale quale sia l'oggetto rispetto al quale vuol dimostrare di essere specialista - scrivere una «storia popolare». Secondo quella che alla fine è una concezione ana-storica della temporalità storica (parla di «grandi rivolte popolari che si sono succedute nel tempo»), Noiriel sussume un concetto in fondo trans-storico di «rivolta fiscale» che rientra sotto la categoria di «popolare» o di «popolo» rimuovendo i differenti contesti sociali-storici, e arrivando perfino a mostrare il carattere storicamente costruito di questo stesso «popolo». Le rivolte anti-fiscali che vanno dal XV alla fine del XVIII secolo, o perfino alla prima metà del XIX secolo, con la guerra di Demoiselles en Ariège, sono iscritte nelle forme sociali che rivelano una costituzione sociale premoderna, e possono essere comprese solo attraverso delle categorie storicamente specifiche di «economia morale della folla» (E. Thompson, anche se questo concetto dovrebbe essere discusso criticamente) che non possono essere affatto proiettate, in alcun modo sulla rivolta anti-fiscale moderna, e non hanno niente a che vedere con le rivolte fiscali avvenute in seno alla forma di vita sociale capitalistica, una volta che essa è stata posta a partire dai suoi presupposti. Ora qui, Noiriel, trascinato dalla sua storia trans-storica del «popolare» (una categoria problematica nella sua dimensione trans-storica), viene preso con le mani nella marmellata dell'anacronismo storico. Ci troviamo in ciò che, diversamente, Noiriel dice di voler combattere: un utilizzo fatto a colpi di costruzioni «neo-tradizionaliste» (É. Hobsbawm) della storia. La rivendicazione anti-fiscale fatta dai Croquants nel XVIII secolo, nel contesto delle «guerre della costruzione dello Stato» (Robert Kurz, 2018), e in quello della forma sociale premoderna del mondo rurale, analizzata nella famosa opera di Jean Nicolas, "La rébellion française", non ha alcuna relazione con la rivendicazione anti-fiscale dei gilet gialli, che esiste in seno alla sintesi sociale capitalista mediata dal lavoro astratto già posto sulle proprie fondamenta, e nel cui contesto, diversamente da quello del Croquant premoderno, il gilet giallo ha già pienamente indossato la forma soggetto moderna. Inoltre, nel periodo di transizione al capitalismo, segnato dalle rivolte anti-fiscali premoderne, lo Stato, nelle sue funzioni, non è ancora lo Stato funzionale capitalista. I regimi fiscali statali, oggetto di critica/opposizione, non sono quindi paragonabili in niente. Il regime fiscale statale moderno si inscrive in prelievo attuato sul processo di valorizzazione, mentre il regime fiscale premoderno si inscrive ancora nei due mondi dell'accumulazione primitiva. E le produzioni agricole de mondo rurale premoderno non hanno ancora indossato le forme di base capitaliste, il lavoro astratto, il valore ed il denaro. Quindi, Noiriel nuota nell'anacronismo più completo e inganna inconsapevolmente il suo lettore, quando afferma un «punto comune» che non viene messo in discussione nel seguente modo: «La cosa principale riguarda l'oggetto iniziale delle rivendicazioni: il rifiuto di nuove tasse sul carburante».
[*1] - Su questa dialettica della potenziale onnipotenza e dell'impotenza del soggetto moderno si veda il secondo capitolo «Narcisismo e Capitalismo», in Anselm Jappe, La société autophage. La Découverte, 2017.
[*2] - «L'ironia di questa formula "radicale", l'ironia dell'idea di violenza creatrice, purificatrice e rivoluzionaria», osserva Postone, «consiste nel fatto che essa esprime e afferma una caratteristica centrale del capitalismo: la sua tendenza a rivoluzionare in maniera permanente il mondo per mezzo di ondate di distruzione che possano permettere la creazione, l'espansione» (Moishe Postone, Critique du fétiche-capital, PUF, 2013, p. 48).
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
Nessun commento:
Posta un commento