venerdì 8 maggio 2015

Religionismi

islam

Perché l'islamismo non può essere spiegato a partire dalla religione
di Norbert Trenkle

Come avviene sempre, dopo un atto di terrorismo islamico, come la strage nella redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato ebraico a Parigi, anche il dibattito pubblico viene indirizzato intorno alla questione di sapere cosa "l'Islam" abbia a che vedere con tutto ciò. Tuttavia, a livello politico ufficiale e nei media, questa domanda stavolta è stata posta con minore aggressività rispetto agli avvenimenti precedenti. La campana dominante è quella che dice che la società non deve lasciarsi dividere, e che nessun punto di vista religioso può giustificare la violenza terroristica. Ma questo, come soffiare in un violino, non serve a niente. Dal momento che purtroppo è chiaro che le azioni mostruose di Parigi portano acqua al mulino del fondamentalismo razzista e nazionalista che si sta diffondendo in tutta Europa e che afferma, a voce sempre più alta, che l'Islam, per sua essenza, sarebbe incompatibile con i valori della "civiltà occidentale" e che, quindi, i musulmani non devono stare qui.
A fronte di questa concezione fondata sul presunto cuore della società, gli appelli all'armonia, fatti dalla politica ufficiale, appaiono impotenti. E questo non attiene soltanto al fatto che gli atteggiamenti razzisti sono del tutto sordi a qualsiasi argomentazione razionale, ma anche al quadro di riferimento del discorso stesso. Quando la politica governativa, ed una gran parte dei media, rispondono allo "scontro di civiltà" propagandato apertamente da Le Pen, Pergida e UKIP, rivendicando un "dialogo fra le culture", essi assumono tacitamente la definizione di conflitto offerta dai loro avversari. Come combattenti culturali (Kulturkämpfer), partono dall'idea che questo scontro sarebbe il risultato del rapporto fra le differenti comunità religiose e fra le "culture" sulle quali tali comunità si basano. Gli uni pretendono che l'islamismo in generale, ed il terrore islamista in particolare, sarebbero inerenti all'Islam, mentre gli altri sostengono che questa è una falsa interpretazione di una religione che, nel "profondo del suo cuore", sarebbe incompatibile con la violenza e con l'intolleranza. Ma tutti quelli che si impegnano in questo quadro di riferimento discorsivo sono già dentro, volontariamente o meno, la trappola del culturalismo.
Un serio confronto col fenomeno del fondamentalismo islamico richiede un cambiamento di prospettiva ed una critica, conseguente, delle speculazioni culturaliste. Per arrivare al punto, voler spiegare l'islamismo a partire dall'Islam è insensato, più o meno quanto tentare di far derivare il nazismo dall'epopea dei Nibelunghi o dall'Edda. Ovviamente, gli islamisti fanatici si richiamano, con insistenza tanto provocatoria quanto noiosa, al Corano ed al profeta, ma in realtà se ne sbattono totalmente delle discussioni e delle speculazioni teologiche; per loro, l'Islam, è quello che essi fanno, cioè a dire esattamente quello che corrisponde al loro bisogno identitario e soggettivo. I racconti religiosi che vengono trasmessi. per loro non sono nient'altro che delle cifre e dei codici culturali di cui si servono per consolidare il loro precario status soggettivo. Gli islamisti sono tutto salvo che dei religiosi tradizionalisti che avrebbero perso il treno della modernità o che avrebbero rifiutato di saltarci sopra. Si tratta piuttosto di individui del tutto moderni, segnati dal capitalismo, che in quanto tali cercano un sostegno in una collettività apparentemente potente, nella quale possano identificarsi.
Queste sete di identificazione in un soggetto collettivo non è affatto nuova. Fa parte dell'equipaggiamento costitutivo di base dell'individuo moderno formato dalla società di mercato, ed accompagna la storia della modernizzazione fin dall'inizio del XIX secolo. Non può sorprenderci. A partire dalla sfida di doversi rendere socialmente attivo in quanto soggetto particolare isolato, sempre ansioso di difendere i propri interessi e di considerare, in fondo, gli altri membri della società solo come strumenti per raggiungere un tale obiettivo; questa sfida fa sorgere il bisogno pressante di fondersi in una comunità immaginaria, in seno alla quale l'isolamento e la strumentalizzazione reciproca verrebbero aboliti in apparenza. Quest'identificazione con un grande soggetto contemporaneamente lenisce il senso d'impotenza riguardo al proprio rapporto con la società, che vede l'individuo come vincolo collettivo reificato, in quanto rappresenta la superficie ideale per la proiezione dei propri fantasmi compensativi di onnipotenza. Se nel corso della storia della costituzione del capitalismo, sono stati in primo luogo i grandi soggetti classici come le nazioni, il popolo e le classi che si sono venuti a trovare sul palcoscenico, ora sono le comunità religiose ad avere, da almeno trent'anni, il vento in poppa - e di certo non solo nello spazio con il timbro islamico, ma anche nelle forme del fondamentalismo protestante, delle sette evangeliche in America Latina ed in Africa, o del nazionalismo indù. Al macro livello della società, le cause di tale "megatendenza" globale si trovano certamente nel declino delle grandi religioni secolari dell'epoca borghese, il socialismo ed il nazionalismo innanzitutto. Dal momento che in seguito all'impantanamento della globalizzazione nela crisi, lo Stato è stato in gran parte privato dei suoi poteri di contrappeso regolatore rispetto agli imperativi del mercato, oppure - come è avvenuto in numerose regioni del vecchio Terzo Mondo - si è del tutto frantumato, mentre allo stesso tempo la fede quasi religiosa nel progresso, che regnava dall'inizio fino al momento culminante del capitalismo, si è vista quotidianamente smentita, tanto dalle catastrofi ecologiche sempre più acute, quanto dall'esclusione sociale sempre più in crescita.
A fronte di tutto questo, la fuga nei fantasmi religiosi dell'al di là appare sempre più alla gente comune come un esito praticabile; ma questo non ha assolutamente niente a che vedere con un preteso ritorno a delle forme tradizionali di religiosità, anche se viene sovente interpretato in questa maniera. Abbiamo a che fare piuttosto con un fenomeno assolutamente moderno, che può essere descritto come "religionismo", proprio perché prende il posto dei grandi "ismi" che hanno segnato e determinato l'era borghese. Questo carattere fondamentalmente moderno si esprime proprio nel rapporto degli individui con l'offerta di identità corrispondenti. La loro appartenenza ad una comunità religionista si definisce unicamente per mezzo di un atto di volontà personale degli individui - che può essere effettuato anche in maniera non necessariamente cosciente o razionale. E' proprio attraverso quest'atto che gli individui si manifestano come soggetti moderni di volontà. Essi non nascono in un universo presupposto di valori tradizionali e religiosi determinati, di convinzioni e di pratiche di cui in seguito si appropriano naturalmente; piuttosto essi devono determinarsi a favore o contro una precisa offerta di identità - o, al contrario, rifiutare questa coercizione all'identificazione.
Nei confronti del terrorismo islamico, dobbiamo quindi porci la questione, non di cosa abbia a che vedere con "l'Islam", ma di sapere perché, fra tutti i religionismi che hanno germogliato e che sono cresciuti nel corso degli ultimi decenni, l'islamismo abbia preso una forma particolarmente aggressiva nei confronti dei cosiddetti valori occidentali e perché abbia fatto emergere un'ala terrorista così potente. Una risposta ad una simile questione potrà essere trovata soltanto se la strappiamo dal cielo delle fumose speculazioni teologiche e la riportiamo sul terreno dell'analisi e della critica sociale, e se studiamo da più vicino le condizioni politiche e sociali specifiche che hanno favorito la nascita e la diffusione dell'islamismo.
Una delle condizioni fondamentali è quella del progetto di modernizzazione capitalista di recupero di gran parte del Vicino e del Medio Oriente, un progetto cui, in un primo tempo - sotto l'egida delle lotte di liberazione nazionale, del socialismo e del panarabismo - si sono legate delle grandi speranze, per poi dissolversi con l'entrata in crisi dell'economia mondiale, negli anni 1970. Anche nelle altre regioni del mondo (soprattutto in gran parte dell'Africa e dell'America Latina), questo fallimento ha lasciato il posto ad un vuoto ideologico ed identitario, che in parte è stato riempito in maniera religionista (soprattutto sotto forma di sette evangeliche). Nei paesi contrassegnati dall'Islam, al contrario, si è sviluppata una forma specifica di religionismo, sulla base della sua esigenza universalista (rispetto all'Umma globale) di forgiare un legame sociale assai forte, ed a sostituirsi alle religioni ripudiate del nazionalismo e del socialismo. In relazione a queste, possedeva ugualmente la promessa di un rinnovamento dello Stato, al di là delle forme decomposte degli screditati regimi fascisti e delle loro frontiere nazionali, una promessa che si fondava inoltre sulla base giuridica pretesa come di origine divina della sharia (la quale, tuttavia, può essere interpretata, in maniera completamente arbitraria). Questo tratto politico ed universalista dell'islamismo gli conferiva una forza d'attrazione, una capacità di operare la sintesi ed un'efficacia che i religionismi delle altre parti del mondo non avevano.
In più, l'islamismo possedeva, in confronto agli altri religionismi, l'enorme vantaggio ideologico di poter essere mobilitato contro "l'Occidente", e non solo di poter essere consolidato attraverso la costruzione di una rappresentazione collettiva del nemico, ma anche di raccogliere l'eredità del nazionalismo e del socialismo, così come quella dell'anti-imperialismo. A livello ideologico, è un vantaggio concorrenziale che non possedevano, ad esempio, le sette evangeliche in America Latina o in Africa, non solo perché erano state in gran parte create da dei predicatori provenienti dagli Stati Uniti e dall'Europa, ma proprio perché si definivano propriamente come appartenenti alla cosiddetta "comunità cristiana occidentale". L'islamismo, di contro, nella sua costruzione identitaria, può facilmente ritornare sulla precedente aperta ostilità storica fra "Ponente" e "Levante", che ha giocato un ruolo costitutivo nella formazione dello "Occidente" e che ha rappresentato, e rappresenta tuttora, uno sfondo ideale per definire un'identità collettiva, distinguendosi dall' "altro". Ciò che aggrava ulteriormente le cose, è il fatto che anche in "Occidente" questo confronto culturalista è stato ripreso con entusiasmo, in parte per "spiegare" il fallimento della modernizzazione di recupero, che ovviamente non deve avere niente a che vedere con la logica interna del grandioso sistema capitalista globale che, conseguentemente al suo processo di crisi fondamentale, dichiara "superflue" delle intere regioni del globo insieme alle loro popolazioni; in parte, anche, per il semplice bisogno ideologico, dopo la fine della Guerra Fredda, di affermare la sua propria identità collettiva attraverso l'invenzione di un nuovo nemico mondiale. Non è un caso che la pubblicazione del testo incendiario paradigmatico di Samuel Huntington, che reca il titolo di "Scontro di civiltà", avvenga nei primi anni che seguono il collasso del socialismo reale, che ha costituito esso stesso un anello centrale nel processo di fallimento della modernizzazione capitalista di recupero (si può inoltre constatare come sul territorio della vecchia Unione Sovietica, i religionismi, tanto l'islamista che il russo-ortodosso, si sono vivacemente diffusi).
Quest'ostilità identitaria aperta si è vista ulteriormente rafforzata dal fatto che numerose regioni del globo abitate da musulmani siano state particolarmente toccate dalla guerra e dalla violenza, in quanto si trovavano, e si trovano ancora, al centro di interessi geostrategici. Questo, riguarda naturalmente tutte le riserve petrolifere, ma anche, nel corso della Guerra Fredda, la lotta delle grandi potenze per loro zone d'influenza, come nel caso dell'Afghanistan, che è stato letteralmente fatto a pezzi dal conflitto Est-Ovest e che in seguito è diventato uno dei punti nevralgici dell'islamismo militante. Si aggiunga a questo il conflitto israelo-palestinese, che è stato caricato, in seno al mondo arabo e dell'ideologia anti-imperialista, di un enorme significato simbolico largamente al di là del suo vero carattere di problema territoriale limitato e relativamente minore, e trasformato in uno sfondo di risentimento antisemita, di cui l'islamismo ha anche raccolto l'eredità. Su questo particolare problema, si vede ancora una volta assai chiaramente che l'islamismo non ha niente a che vedere con l'Islam tradizionale, il quale non conosce né antisemitismo né antiebraismo; questo è piuttosto un prodotto importato dallo "Occidente illuminato" che ha potuto impiantarsi nel cosiddetto spazio musulmano solo sulla scia della modernizzazione capitalista di recupero.
Le guerre e le guerre civili incessanti nel Vicino e nel Medio Oriente, legate ai corrispondenti interventi delle grandi potenze, non hanno solo contribuito a destabilizzare profondamente tutta la regione, e a distruggere le condizioni di uno sviluppo capitalista e di un'integrazione in seno al mercato mondiale più o meno coerente, preparando così il terreno alla forza di convinzione delle promesse di salvezza islamiche, ma hanno inoltre portato, allo stesso tempo, alla brutalizzazione delle generazioni, soprattutto dei giovani, che sono stati socializzati in uno stato di guerra permanente, a volte aperto a volte larvato, ed hanno interiorizzato la disposizione alla violenza che a tale stato si accompagna. E questo i fin dei conti fornisce il quadro per la creazione di personaggi eroici mitizzati, ai quali dei giovani, soprattutto (e non solo provenienti dalle regioni in questione), potrebbero e possono identificarsi. Così come Bin Laden era già stato ampiamente celebrato come un nuovo Che Guevara, lo Stato Islamico ha perfezionato la messinscena mediatica e l'eorizzazione delle sue atrocità. L'islamismo militante è riuscito così ad acquisire lo statuto di una cultura di contestazione radicale, che gli fornisce un'enorme affluenza di adepti provenienti da tutto il pianeta, pronti a sacrificarsi.
E' in questo che si rivela, ancora una volta, il carattere altamente moderno, ed in nessun modo religioso e tradizionale, correlato a questo movimento. Esso gli fornisce il materiale per una costruzione identitaria di demarcazione di individui interamente formati dal capitale (soprattutto giovani uomini, ma non solo), i quali spesso non hanno il minimo legame familiare o culturale con 'Islam, e che si contraddistinguono per il modo aggressivo in cui hanno effettuato la loro "conversione", contro l'ambiente che li circondava. Ma nonostante la quantità significativa di "convertiti", ci sono sempre dei giovani migranti con dei legami familiari nel cosiddetto arco di crisi islamica che costituiscono i gruppi più numerosi di sostegno islamisti nei paesi capitalisti del centro. Na questo non attiene per niente al fatto di provenire da una certa tradizione religiosa, che essi avrebbero ora riscoperto, dal momento che si spiega più spesso come una reazione contro l'esclusione sociale e razzista (*). Non significa affatto che si tratta di marginali senza avvenire che non avrebbero più niente da perdere. L'esclusione spesso avviene in maniera molto più sottile e viene soprattutto percepita come particolarmente umiliante da quegli stessi che posseggono assolutamente le qualità personali per una riuscita sociale, come di solito viene definita nella concorrenza, ma che non di meno continuano ad andare a sbattere contro delle barriere non direttamente visibili, erette dalla società maggioritaria, e che richiedono ben più grandi sforzi per essere attraversate. La situazione è simile nei paesi del Vicino e del Medio Oriente, dove sono spesso le classi medie rancorose ad orientarsi verso l'islamismo, dal momento che le loro speranze di riuscita sociale sono state deluse. Quel che diventa determinante, allora. non è più sapere se qualcuno si trovi in una situazione di "povertà oggettiva", ma il sentimento soggettivo di far parte dei perdenti o di vedersi minacciati dalla relegazione sociale. E queste paure, che il sistema di concorrenza capitalista produce in ogni maniera in modo permanente, vengono tutte particolarmente alimentate nel contesto del processo di crisi globale.
In tal senso, esiste un punto comune fondamentale fra i fanatici islamisti ed i loro avversari militanti di Pegida e del Front National. In entrambi i casi, la forza motrice è l'impulso regressivo ad eliminare, per mezzo della discriminazione nei confronti di un nemico immaginario, la pressione sociale prodotta dalla crisi. Di fronte a questo, è completamente fuorviante fare appello ad una comprensione "interculturale" o "interreligiosa"; poiché qui non è affatto questione di un conflitto fra "culture" differenti, ma di una polarizzazione aggressiva fra diverse identità collettive regressive nel seno stesso del sistema capitalista mondiale, un confronto che diventa esso stesso un fattore di crisi globale, nel senso che genera una sorta di stato di guerra permanente. E' anche del tutto vano, in questa situazione, anteporre i valori repubblicani o democratici di libertà ed uguaglianza. Tali valori hanno perduto da tempo la loro forza di ragionamento, dal momento che l'esclusione sociale e razzista, la monetarizzazione di ogni sfera della vita e le incessanti campagne statali di controllo, anche nelle democrazie occidentali, li hanno svuotati di ogni contenuto. E' invece indispensabile trovare un nuovo orientamento emancipatore volto al superamento della logica capitalista de della sua soggettività, ormai senza senso.

- Norbert Trenkle - 2015 -

(*) - Nel verbale di una conferenza sul salafismo, si può leggere, a proposito dei giovani che si uniscono a questo movimento: "I giovani ammirano nei predicatori salafisti il fatto che non si lascino intimidire dal rifiuto aperto che li colpisce. Al contrario: essi difendono apertamente il loro punto di vista e non si lasciano zittire." La linea di demarcazione nei confronti dei loro genitori, che si comporterebbero, secondo la percezione dei giovani, in maniera difensiva di fronte ad una situazione di emarginazione sociale e di ascesa sociale bloccata, gioca un ruolo importante. Il salafismo offre qui una possibilità di riprendere l'offensiva, di acquisire una capacità di azione e poter superare così, in maniera regressiva, il sentimento di impotenza. (Alevitische Gemeinde - Deutschland e.V. 2013)

fonte: Critique de la dissociation-valeur. Repenser une théorie critique du capitalisme

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