Anti-economia ed antipolitica - 3
- Sulla riformulazione dell'emancipazione sociale dopo la fine del "marxismo" -
di Robert Kurz
3.Il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione
Il concetto modificato, o "superato", di forze produttive e del loro legame con le relazioni di produzione è, ovviamente, solo la condizione perché si dia soluzione al vero problema: il superamento della forma valore feticista nelle relazioni sociali. Qui è anche necessario, in primo luogo, aprire la strada attraverso la concezione ridotta, immanente al sistema, del marxismo del movimento operaio e del movimento alternativo o delle cooperative. Sull'esempio della questione delle forze produttive, troviamo anche un collegamento speculare e complementare alle strutture feticistiche. Tanto il marxismo politicista quanto il movimento alternativo, riducono il loro obiettivo ad una critica e ad un superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione, seppure in modo differente. Ora, quando si parla dell'istituzione "proprietà privata", è chiaro che si tratta di un momento del sistema produttore di merci, cioè a dire, della sua forma giuridica. Con ciò è chiaro che questo momento non può essere superato isolatamente, senza superare gli altri momenti della forma valore, inclusa essa stessa come tale. Il tentativo di eliminare la proprietà privata dei mezzi di produzione e mantenere, allo stesso tempo, le forme di mediazione della merce e del denaro, può solo condurre a dei paradossi sociali.
Il fatto per cui la proprietà privata, in tal modo, possa essere pensata come un fattore isolato, e che le venga imputata la responsabilità per ogni male capitalista, si basa su un tipico ingenuo equivoco dell'illuminismo: la proprietà privata viene dichiarata, erroneamente, come semplice "forza soggettiva" a disposizione dei possessori e dei "dominanti" - l'apparenza della sovranità e del supposto arbitrio da parte dei personaggi al comando viene accettato come un dogma. Questo spesso si accompagna alla nozione, ugualmente ingenua ed affermativa, della ricchezza capitalista che sarebbe solamente "distribuita in maniera disuguale ed ingiusta". Alcuni elementi di questo concetto ridotto della "proprietà privata" si trovano anche in Marx ed Engels, seppure sia lo stesso Marx a fornire, allo stesso tempo, gli strumenti per la critica di questo concetto.
Di fatto, l'istituzione della proprietà privata è ben lungi da risolversi in una "forza soggettiva". Una simile nozione vede soltanto il calcolo soggettivo dei possessori dei mezzi di produzione, e non vede la sua determinazione formale oggettivata, che si impone ai supposti "potenti" come principio esterno di coazione e che punisce in un attimo qualsiasi deviazione dalla legge di forma e di movimento del valore. I mali del capitalismo, pertanto, non vanno imputati alle decisioni soggettive dei suoi agenti funzionali, ma alla forma stessa, feticista e senza soggetto, di riproduzione e di mediazione. Forzatamente, tale esperienza è stata, e viene fatta da coloro che occupano le fabbriche nel tentativo di prendere nelle proprie mani un'impresa sull'orlo dell'abisso economico. Nel decennio 1980, quando ebbe inizio la crisi dell'industria tedesca di costruzioni navali, una pubblicazione del vecchio marxismo seduceva col titolo: "Immaginatelo, il cantiere navale appartiene a noi!". E cosa ci avremmo guadagnato con questo? Assolutamente niente, poiché le leggi della concorrenza di mercato sarebbero rimaste in vigore - i lavoratori avrebbero dovuto sfruttare sé stessi, mettere mano alla demagogia lavorista, della razionalizzazione ecc. oppure, con tutta la bellezza che accompagna la proprietà collettiva, decretare il proprio fallimento.
Entrambe le forme di proprietà, proprietà cooperativa e proprietà statale, che appaiono, nella concezione ridotta ed in buona parte legata alla produzione di mercato, come superamento della proprietà privata, si lasciano ingannare da quell'equivoco illuminista del "potere soggettivo". In realtà, però, qualsiasi forma di proprietà che si basi sulla "valorizzazione del valore" e la cui produzione, pertanto, può essere mediata socialmente soltanto per mezzo delle relazioni di mercato, è già per definizione proprietà privata. La divisione funzionale ampiamente diffusa e profondamente scaglionata della riproduzione sociale, che non si manifesta, dall'inizio, attraverso la comunicazione e attraverso vincoli comuni, ma si manifesta solo a posteriori, mediante lo scambio di prodotti, forma la matrice di una socializzazione feticista modellata sul valore, ossia, sulla qualità metafisica apparente dei prodotti, e non sulla comunicazione diretta fra le persone. Tale matrice impone a priori lo statuto della proprietà privata alle unità produttive coinvolte.
La matrice del valore ha solo remotamente qualcosa a che vedere con le relazioni merce-denaro pre-capitalistiche. In realtà, nelle antiche società agrarie (per non parlare delle società di raccolta e di caccia), la matrice della socializzazione non era il valore in quanto qualità metafisica dei prodotti, ma era un contesto di forme di sussistenza, che conoscevano lo scambio delle merci solo marginalmente o in una forma di "nicchia" (Marx); questo significa che soltanto le eccedenze, o solamente pochi prodotti specifici, entravano nelle relazioni di mercato. Una divisione funzionale nel mercato, su scala più ampia e più ricca, non è necessariamente, tuttavia, un risultato dello sviluppo delle forze produttive, ma è piuttosto una conseguenza logica del capitalismo, che ha fatto del valore il suo fine sociale in sé stesso. Al contrario di quanto afferma la teoria economica, la divisione funzionale ampliata dallo sviluppo delle forze produttive non conduce, necessariamente, alla totalizzazione delle relazioni denaro-merce. Una simile visione confonde il dato storico con un dato logico. Il capitalismo, come auto-riferimento del valore a sé stesso (come macchina di valorizzazione), è quello che fa sì che lo sviluppo delle forze produttive appaia identico all'universalizzazione del mercato. Un mercato universale e totale può nascere solamente come sfera di realizzazione della produzione astratta di plusvalore. Per la coscienza borghese, questo è identico alle forze produttive sviluppate, in quanto, per essa, quest'ultime si presentano sempre sotto la forma di matrice del valore.
Proprietà statale e proprietà cooperativa rimangono, secondo il loro concetto, all'interno di questa determinazione della forma feticistica. Lo Stato è l'universalità astratta giuridica, e quindi politica, di una società di produttori di merci, così come il denaro è la sua universalità astratta economica. Una tale universalità, o insieme di membri sociali, è astratta non in ragione del suo non essere mediata per mezzo di una comunicazione concreta circa le relazioni sensibili e materiali concrete di riproduzione comune, ma di esserlo per mezzo dell'astrazione del valore. Se lo Stato diventa proprietario delle imprese produttrici di merci, il polo giuridico-politico usurperà il polo economico dell'universalità astratta - il che spiega certe costellazioni storiche nello sviluppo del sistema produttore di merci - seppure a lungo termine questo sia disfunzionale, in quanto sostituire il meccanismo di concorrenza economica con il comando politico comporta un'enorme perdita, per attrito, nella produzione di valore o di plusvalore.
Allo stesso tempo, il carattere di proprietà privata prende doppiamente possesso della proprietà statale. In primo luogo, l'apparato statale si presenta ai produttori - una volta che esso non rappresenta la loro propria collettività concreta, bensì un'universalità astratta che è loro esterna in quanto individui - sotto la maschera di una paradossale "sfera privata universale" (come esecutore universale della "valorizzazione del valore") ed obbliga, con questo, a che, in relazione ad esso, anche i produttori si presentino come proprietari privati del loro mezzo di produzione "forza lavoro". Come cittadini, essi non si trovano più concretamente coinvolti, nella determinazione della proprietà statale dei mezzi di produzione, di quanto lo fossero, in qualità di cristiani, gli stallieri nel proprietà della Chiesa cattolica durante il Medioevo.
In secondo luogo, l'apparato statale, nella misura in cui usurpa le funzioni imprenditoriali, si divide necessariamente in posizioni economiche opposte all'interno della sfera privata, giacché, alla fine, anche le imprese statali vengono mediate da relazioni di mercato e di denaro. Così, la forma valore si vendica della pretesa totalizzante dello Stato. Dentro la cerchia sociale di una pianificazione di Stato coerente con le categorie del valore, si posizionano interessi opposti delle singole unità produttive, che possono appropriarsi della ricchezza sociale soltanto sotto forma monetaria e, pertanto, in maniera privata. A tal proposito, le ingenue dichiarazioni provenienti dal ceto politico hanno poca importanza. Un fenomeno analogo, infatti, torna ad accadere all'interno delle imprese capitaliste, sotto forma di progetto ultra-neoliberista chiamato "profit-center": non è più l'impresa come un tutto, che dev'essere portatrice della "creazione del valore" ma, direttamente, le sezioni isolate, che si comportano come produttori privati, le une nei confronti dell'altre, in un certo qual modo come "imprese dentro le imprese". A lungo termine, nella visione dell'impresa come un tutto, un tale progetto può portare solamente a conseguenze paradossali e disfunzionali.
Vista come un tutto, la proprietà statale è soltanto una forma paradossale della proprietà privata. Questo non cambia affatto quando tale proprietà statale non è amministrata dallo Stato borghese, ma da uno "Stato di lavoratori", guidato dal soggetto metafisico della "classe operaia" e del "partito (politico) dei lavoratori". Poiché le relazioni strutturali che risultano dalla proprietà statale rimangono le stesse, indipendentemente dai suoi depositari sociali. In tale senso, la discutibilissima analisi del socialismo di Stato fatta da Charles Bettelheim negli anni 1970, è anch'essa insufficiente e rimane prigioniera dell'orizzonte concettuale del marxismo del movimento operaio. Bettelheim ha concepito gli elementi della sfera privata in maniera sociologisticamente ridotta, come mero stratagemma soggettivo di un dato gruppo sociologico - i dirigenti d'impresa - che usa la propria "forza". Non si è accorto che la forma di proprietà privata, indipendentemente dalle dichiarazioni sociologiche di volontà, è inerente ad ogni modo di produzione fondato sul valore. Non importa il soggetto storico costituito dal rispettivo sistema produttore di merci - questo sistema produce sempre una specie analoga di élite funzionali, corrispondenti alle forma di una "valorizzazione del valore". In questo senso, ogni Stato è, per definizione, uno Stato borghese, così come ogni nazione, nella sua essenza, è una nazione borghese, ogni denaro, come forma universale di mediazione, è un denaro borghese ed ogni produzione di merci, come forma universale di riproduzione sociale, è una produzione borghese di merci. L'attributo, in realtà, è superfluo; esso ha rilevanza solo per una coscienza che riesce a pensare soltanto all'interno delle categorie borghesi e che pretende di risolvere le contraddizioni del modo di produzione capitalista su terreno di queste stesse reali categorie borghesi. Il problema, tuttavia, risiede nelle relazioni strutturali, nel modo in cui esse vengono dettate dalla forma sociale feticista del valore, e non negli interessi sociologici secondari, di strati o classi sociologiche, la cui stessa esistenza è un prodotto storico della forma valore.
La proprietà cooperativa non procede meglio della proprietà statale, nella misura in cui si tratta di un'impresa che produce merci sotto forma di cooperativa. Il portatore di questa proprietà non è, in realtà, un'universalità giuridico-politica astratta della società, ma un soggetto collettivo particolare. Dal momento che questa collettività rappresenta un'unità visibile, l'idea della cooperativa è da sempre collegata alla forma embrionale di una riproduzione in uscita dal capitalismo. Lo stesso movimento alternativo degli indios negli anni 1980, propagandava una "produzione rilevante" in "strutture egualitarie senza capi", come elemento di un modo di vita alternativo ed emancipatore. Ma, fin dall'inizio, il carattere alternativo si è ristretto allo spazio sociale interno di un imprenditoria produttrice di merci. La mediazione sociale, al contrario, sgorgava "ovviamente" sul mercato, nel quale i prodotti della cooperativa, o dell'impresa alternativa, dovevano essere venduti.
Con questo, naturalmente, la forma di merce non viene superata. Le imprese alternative continuano a far parte dell'economia universale di mercato, che può esistere soltanto come sfera di realizzazione del capitale. Perciò, rimangono parte della stessa riproduzione capitalista e si sottomettono alle leggi coercitive della concorrenza. In quanto "guadagnatori di denaro", i membri di una simile impresa continuano anche, nonostante la volontà contraria, ad essere sottomessi alla forma economica dell'interesse privato. L'universalità economica astratta del denaro si deve imporre, in ultima analisi, come determinante per il loro modo di vita e di produzione. Per cui, le imprese cooperative o alternative o naufragano o galleggiano a forza di "auto-sfruttamento", per trasformarsi alla fine, a titolo di "professionalizzazione", in piccole fabbriche piccolo-borghesi dentro la più rigida normalità, con un capo, una pressione produttiva ecc., che sudano per ottenere crediti bancari.
In questo modo, rimane chiaro che tutta la mediazione sociale attraverso la forma economica del valore comporta necessariamente la rispettiva forma giuridica della proprietà privata in qualcuna delle sue figure. Questo è particolarmente valido quando lo zelo riformista ed emancipatore osa approssimarsi, in apparenza, alla forma stessa della mediazione, ma, invece del suo superamento, intende soltanto inventare un qualche sostituto per il valore. Questo appare drasticamente nitido nelle "confusioni monetarie" - così definite da Marx - di, ad esempio, un Proudhon o di una setta economica come quella rappresentata dai seguaci di Silvio Gesell. Dal momento che la sua critica della forma di mediazione capitalistica si limita all'aspetto del capitale che apporta interessi, essi vogliono solo introdurre un "denaro libero da interessi", come compensazione diretta delle unità di produzione, senza percepire come problema quello della forma astratta di valore. Tale critica ridotta della forma di mediazione capitalistica finisce dietro anche alla critica che il vecchio marxismo fa della proprietà privata: dal momento che come soluzione vedono, unicamente, il "denaro onesto", per Proudhon, per Gesell e i suoi seguaci, la proprietà privata dei mezzi di produzione è particolarmente sacra. Quello che essi hanno in mente non è più, in alcun modo, l'emancipazione sociale, bensì una società di piccoli borghesi e la riduzione della socializzazione della forma merce ad un capitalismo di micro-imprese, con tutta l'ottusità repressiva del feticismo del lavoro e della produzione.
Ancora più ottusi, ed ugualmente incapaci di perseguire un intento emancipatore e una critica della società, sono gli "anelli di scambio" che oggi sono tornati nuovamente di moda (i quali, nell'insieme, sono compatibili con l'ideario geselliano). Se il socialismo delle cooperative ha almeno ancora in vista la cooperazione emancipatrice di uno spazio sociale interno, e se questo spazio si riduce, nei geselliani, ad un capitalismo piccolo-borghese di micro-imprese, gli anelli di scambio, da parte loro, presuppongono individui astratti del tutto a-socializzati, che scambiano servizi fra di loro, senza nemmeno voler entrare nell'attività cooperativa di produzione. La relazione socio-economica si riduce all'organizzazione di una forma alternativa di mediazione delle compensazioni produttive, che corre parallelamente al mercato ufficiale. Qui, anche la proprietà privata non viene superata, ma viene soltanto ridotta alla capacità individuale di promuovere scambi di una qualsiasi produzione (accudire i bambini, tessere tappeti, ecc.) con altri individui; la riproduzione dei "deboli nella produzione", come i disabili o i malati, non viene assolutamente presa in considerazione. Un tale anello di scambio non rappresenta un'alternativa al modo di produzione capitalista. Esso offre solo un espediente, nel trattare cose secondarie, ad individui "marginali" monadizzati, i quali hanno completamente ceduto la loro capacità produttiva di cooperazione al capitale ed allo Stato. In tal senso, gli anelli di scambio non sono la promessa di un'emancipazione sociale, ma sono solo l'ultima forma decadente dei vecchi privilegi falliti all'interno della forma valore, oggi irrimediabilmente dissolti in atomi sociali.
Queste riflessioni critiche comportano, necessariamente, una seconda caratteristica fondamentale, che distingue le forme embrionali di una nuova emancipazione sociale dal vecchio movimento alternativo: la nuova critica del socialismo di Stato non dovrà solo assumere le forze produttive microelettroniche contro le relazioni capitalistiche di produzione, anziché negare queste forze produttive a beneficio di un livello più basso del "lavoro astratto" non superato; per la stessa ragione, essa non potrà organizzarsi nella forma di cooperative produttrici di merci e, ancor meno, potrà sfociare nelle forme succedanee dello scambio di mercato e della "compensazione produttiva" ("confusioni monetarie", anelli di scambio). Piuttosto, il compito consiste nel perseverare nel superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione, seppure non più da quella prospettiva ingenua ed illuminista di un "potere a disposizione" di un determinato gruppo sociologico e, quindi, ancor meno da quella paradossale della proprietà statale, ma come svincolo di uno spazio sociale di cooperazione emancipatrice a fronte dello scambio di mercato, della relazione monetaria e della compensazione produttiva astratta. In una parola: si tratta di sviluppare elementi e forme embrionali di una "economia naturale microelettronica", che sfugga fondamentalmente al principio di socializzazione del valore, e che non possa più essere sequestrata da questo.
A prima vista, l'espressione "economia naturale microelettronica" suona paradossale, dal momento che la coscienza moderna determinata dalla forma valore si è abituata a tradurre "economia naturale" in "relazioni sociali agrarie arretrate" e considera come incompatibili le forze produttive avanzate. Ora, si tratta, innanzitutto, di un'espressione neutra che indica soltanto che determinate attività riproduttive non assumono la forma di produzione di merci e, pertanto, non prendono parte alle relazioni monetarie. Nelle società pre-capitalistiche, la riproduzione economica naturale era legata ad altre forme di feticismo sociale, non determinate dal valore. Non si tratta - è chiaro - di riproporre tali forme, ma di superare il feticismo in generale con l'aiuto della microelettronica, utilizzata con fini emancipatori. In questo contesto, "economia naturale" indica solamente il fatto che la riproduzione non assume la forma del valore, e che i mezzi di produzione sono trattati secondo il carattere materiale e sensibile dei prodotti, nell'ottica del piacere umano, cioè, non saranno sottomessi all'astrazione feticista della forma valore.
La connotazione peggiorativa del concetto di "economia naturale" proviene anche dal fatto che tale concetto, in buona parte, viene utilizzato come sinonimo di "economia di sussistenza" e questa, a sua volta, viene intesa come "riduzione alla pura sopravvivenza". Se a questo aggiungiamo l'osservazione per cui, nella storia ricca di crisi della modernità, i progetti di economia naturale o di sussistenza sono stati quasi sempre, di fatto, ciechi risultati delle grandi crisi economiche o militari, senza una prospettiva sociale propria e sviluppata con coscienza e, pertanto, potevano manifestarsi solamente come semplici misure d'urgenza o come "tecniche di sopravvivenza", la cui condizione consisteva proprio nella rovina del livello di socializzazione e nel ritorno forzato delle persone ai metodi primitivi di produzione ai fini della sopravvivenza. La cooperazione, in tali casi, difficilmente va al di là dei contesti familiari ed è pre-riempita da forme di "scambio naturale" che, ovviamente, non rappresentano una prospettiva oltre la forma del valore, essendo condizionata, semplicemente, dalla mancanza di una moneta accettabile o dall'assenza generale di valuta circolante.
Come sappiamo, questo è stato il caso della Germania dopo la seconda guerra mondiale, quando entrò in vigore la "valuta delle sigarette" e fiorì, negli atri degli edifici, un "allevamento domestico di conigli" (nel corso della mia infanzia, ho potuto presenziare a quando mia nonna appese sotto il portico una di queste lepri, che mio padre uccise con un martello, e che poi venne appesa alla porta della cucina per essere spellata). E non è diverso da quello che avviene oggi in varie regioni del mondo, rovinate economicamente, come quando, per esempio, coppie di inquilini, nei dintorni di Mosca, devono nutrirsi per mezzo del loro piccolo orto, come quando le famiglie, in Kazakistan, sono felici quando possiedono una mucca, o quando i maiali vengono ingrassati nelle vasche da bagno delle case de L'Avana. Una simile "economia di sussistenza" non sembra ammettere altro che la speranza che, non appena possibile, l'economia di mercato riprenda il suo movimento. In passato, questo è stato, effettivamente, quello che accadeva, e le rotture nella socializzazione si alternavano a nuovi focolai di sviluppo del sistema produttore di merci, mentre per le regioni contemporanee di crisi è più che dubbio che esse possano rimettere piede sul terreno dell'economia di mercato.
I rappresentanti della Teoria Critica "ortodossa" e della sinistra postmoderna, che derogano al problema del superamento della forma valore e ripudiano la sua concretizzazione, soffocando di buon grado tutto il dibattito circa una forma di socializzazione emancipatrice, per il fatto che suppongono che essa sarebbe solo capace di finire nella produzione piccolo-borghese di merci, o in una primitiva economia di sussistenza, la cui prassi consisterebbe nel tenere una mucca nel garage o un maiale nella vasca da bagno. Questa attitudine cieca, che allo stesso tempo rifiuta ogni critica della struttura capitalistica del valore d'uso, rivela solamente il proprio timore piccolo-borghese di fronte alla crisi e, simultaneamente, l'incapacità e la cattiva volontà di ridiscutere la questione di un superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione, al di là del marxismo del movimento operaio e delle sue illusioni statali. Lo stesso problema che già si era imposto nella questione delle forze produttive e del suo concetto, si impone, con maggior evidenza, nella questione del superamento delle forme di mediazione borghese, definite dal valore.
- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista KRISIS, nº 19, del 1997 – (3 di 5 – continua … ) -
fonte: EXIT!
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