La filosofia miope del capitalismo-casinò
- L'inflazione delle "sapienze" nel mondo amministrato -
di Robert Kurz
Filosofia, un concetto dell'antichità greca, ha lo stesso significato di "amore
per la saggezza". In origine, con questo ci si riferiva alla dottrina del vivere
bene e correttamente. A partire dall'Illuminismo, la filosofia è stata
considerata come una sorta di teologia secolarizzata per spiegare l'universo e
la ragione umana. Oggi, il concetto di filosofia è inflazionato. Suggerimenti e
consigli su come avere successo ed imporsi sugli altri, manie sessuali,
allucinazioni personali, metodi di esercizio fisico e di lavaggio di capelli e
perfino abitudini alimentari vengono definiti "filosofia". Se qualcuno si fa un
paio di drink al mattino oppure, al contrario, è astemio, se preferisce
trascorrere le ferie in montagna o su una spiaggia, se prende il sole con o
senza costume da bagno - pateticamente, tutto questo viene chiamato "la sua
filosofia". Tennisti, stelle del calcio, politici e cantanti da "hit parade"
possono discutere per ore ed ore a proposito della loro filosofia, riempiendo i
media.
Così, non c'è voluto molto prima che, nel frattempo, anche gli amministratori si vedessero costretti a mettere su una filosofia. La filosofia gestionale ha così cominciato a dettare il modello nell'inflazione galoppante delle filosofie. Non c'è un solo produttore di cosmetici, di automobili, di spaghetti o di riviste pornografiche che non abbia una sua filosofia peculiare. E, allo stesso modo in cui ogni persona è diventata la sua propria impresa e deve lanciare sé stessa sul mercato, così ogni individuo ha bisogno anche della sua filosofia gestionale.
"L'amore per la saggezza" appare ora come "amore per la venalità". In questo modo, si è raggiunto lo stadio più basso del pensiero umano, anche se per il capitalismo questa risulta essere "l'ultima parola in fatto di saggezza". Filosofia significa, quindi, la dottrina del vendere bene e correttamente - sia che si tratti della vendita di sé stesso o della vendita delle scorie che si devono imporre all'umanità.
Filosofie di questo genere, provengono il più delle volte dagli Stati Uniti, sebbene non siano più da tempo "tipicamente americane", ma corrispondano allo spirito globale dell'epoca. Di solito vengono cambiate più frequentemente di quanto si cambi la biancheria intima, come avviene con i guru della filosofia gestionale e con la natura effimera delle loro situazioni. Per questa filosofia c'è una moda estiva ed una moda autunnale, e nel frattempo la gestione ha da fare parecchio per svolgere il suo compito. Rimane poco spazio per la gestione. Un fallimento intellettuale dopo l'altro, e il mondo dell'economia va di già in malora. Ora, anche se la filosofia gestionale non è profonda quanto il mare, ma al massimo quanto una pozzanghera, tuttavia la sua base è piuttosto rigida. Ancora una volta essa dà la formula della propira etica. Come Immanuel Kant, la filosofia gestionale gratifica il mondo con un "imperativo categorico". Il nuovo postulato porta il nome di 'shareholder value' ("profitto dell'azionista").
Nella stampa economica tedesca, il concetto di "shareholder value" è stato eletto "vocabolo alla moda dell'esercizio finanziario 1996". Siccome nell'era del neoliberismo tutto quello che proviene dal mondo anglosassone, nel continente europeo, viene annusato con rispetto e diventa oggetto di congetture, l'interpretazione di "shareholder value" ha acquistato rilevanza nel discorso economico-filosofico. Ma alla fine che cos'è lo "shareholder value"?
Il primo comandamento di questa nuova etica filosofica della gestione prescrive: "Non avrai altro Dio al di fuori del tuo azionista". "Shareholder value" significa quindi una rabbiosa difesa degli interessi azionari da parte della politica commerciale delle società imprenditrici. Questo sarebbe, come si osserva con le banche di investimento, un movimento "back to the roots" ("ritorno alla origini"), cioè, ritorno al compito originario della gestione di ottenere il massimo guadagno per gli azionisti. Per troppo tempo, questo comandamento etico dell'economia è stato offuscato dagli "interessi dei gruppi sociali" (sindacati, politica, ecc.).
Nel nome dello "Shareholder value" vengono quindi celebrate orgie di licenziamenti in massa e di riduzioni dei costi, al fine di estorcere ad un minimo di dipendenti un massimo di produzione e mandare al diavolo le conseguenze sociali. La massimizzazione dei profitti è da sempre l'obiettivo, solo che ora si tratta di una crescente radicalizzazione di questa volontà contro ogni interesse all'interno della società capitalista. In tal senso, il progetto dello "Shareholder value" corrisponde alla radicalizzazione del limitato punto di vista economico sotto l'egida della globalizzazione del capitale. La vita come un tutto, l'insieme dei compromessi sociali, il rimanente della cultura e perfino gli interesse della burocrazia statale devono subordinarsi alla "produzione di rendite attraenti per gli azionisti" e, se necessario, essere immolati su questo altare. L'umanità, al pari del suo ambiente naturale, viene tenuta in ostaggio dai grandi azionisti privati ed istituzionali.
Per una sinistra politica ammuffita, questo sviluppo potrebbe provocare di nuovo offese alla magnificenza ed alla forza perniciosa dello spirito capitalistico, che conferisce agli infami interessi di lucro un'aureola di moralità. La filosofia dello "shareholder value" però non rivela una situazione sana, ma una debolezza strategica fondamentale del capitale.
Il problema risiede nel rapporto dell'azionista con l'imprenditoria pratica, o gestione. Un'azionista, come è noto, è un investitore che compra azioni, ossia, partecipazioni ad un'impresa, con l'obiettivo di ricevere una quota corrispondente del guadagno di quest'impresa. L'azionista - e questo è importante - non è l'imprenditore stesso. La decisione di comprare azioni di un'impresa avrà i suoi motivi, che possono essere sia di natura sentimentale che razionale, e poggiano su un qualche genere di informazione (per esempio, sul successo commerciale di quest'impresa). Ma, dal momento che l'azionista non è imprenditore e che quindi non si occupa attivamente di produzione e vendita da parte dell'impresa, egli non può prescrivere una strategia o una determinata condotta commerciale; non può decidere sugli investimenti, sulla riorganizzazione, sulla politica del personale, sul marketing, ecc..
In altre parole, secondo la razionalità capitalistica, l'azionista in quanto mero investitore deve riporre la sua fiducia nella strategia, negli obiettivi e nelle potenzialità di un capitale produttivo e nella sua gestione. Tale fiducia è il suo rischio. Anche se il modo di produzione capitalista è, fin dall'inizio, distorto dal funzionalismo astratto del denaro, in passato quel che era in gioco era il residuo di un obiettivo qualitativo, ossia, la produzione ed il consumo di un determinato valore d'uso concreto (fosse esso già dimostrato oppure innovativo). Fiducia e rischio si riferivano non solo alla serietà dei metodi gestionali, ma anche alla qualità ed alla buona accettazione del prodotto dell'impresa, così come alla sua utilità.
Solo in questo modo, nel 19° secolo, inventori capitalistici come Edison, Siemens, Benz, ecc. hanno potuto realizzare le loro idee (quale che sia il giudizio che se ne possa dare oggi): essi avevano bisogno di investitori che credessero in quelle idee e nella loro possibilità di successo commerciale. Anche il più grande progetto capitalista del 19° secolo, l'integrazione del mondo per mezzo della costruzione delle ferrovie, è stato reso possibile soltanto per mezzo del rischio degli investitori che, come azionisti delle compagnie ferroviarie, davano carta bianca alla gestione. Infatti, in un famoso western, il regista italiano Sergio Leone disegna la figura tragica di un amministratore delle ferrovie cui, in contrasto con l'avidità ottusa dei suoi nemici e dei suoi colleghi, interessa assai meno il lucro facile di quanto gli interessa il sogno grandioso di riuscire a collegare con la ferrovia la costa Est con quella Ovest degli Stati Uniti, da oceano ad oceano.
Anche nella teoria economica si è sedimentato questo attributo dell'amministratore o dell'imprenditore pratico. Il classico Adam Smith giustificherà la quota di profitto dell'amministratore col fatto che questi riunisce strategicamente i "fattori produttivi" del lavoro, del suolo e del capitale. Teoricamente postulato da Joseph Schumpeter, lo stesso imprenditore innovativo e "distruttore creativo" delle strutture di produzione antiquate, che veniva visto come il garante dello sviluppo capitalistico e che oggi viene di nuovo conclamato a piena voce, presuppone sia la libertà strategica che la politica commerciale del capitale produttivo indipendente degli investitori.
Il progetto dello "shareholder value" mette la retromarcia a questa relazione classica fra azionisti e capitalisti pratici. Quanto più difficile è la valorizzazione del capitale reale, a causa dei livelli elevati di produttività globale, e quanto più indipendente è la produzione reale in rapporto ai focolai monetari sul mercato finanziario transnazionale, tanto minore è il potere strategico degli "agenti" industriali. Gli imprenditori innovatori di Schumpeter, per quanto possano essere richiesti dalla teoria, nella prassi capitalistica a partire dagli anni 1990, sono condannati a sparire. Steve Jobs forse è stato uno degli ultimi della sua specie, dal momento che nella filosofia dello "shareholder value" non c'è più spazio per persone come lui. Le idee e le strategie del capitale industriale reale vengono fagocitate dall'interesse monetario nudo e crudo degli azionisti.
Questo interessa soprattutto l'orizzonte temporale. Orientarsi in maniera strategica, significa pensare ed avere obiettivi relativamente a lungo termine. Sviluppare e lanciare sul mercato un prodotto reale richiede il suo tempo, anche con il potenziale tecnologico della microelettronica. Affinché le nuove idee industriali possano diventare realtà, gli azionisti e gli altri investitori devono coltivare una certa pazienza. A rischio di dilapidare il patrimonio dell'impresa, non devono esigere immediatamente "rendite attraenti", senza prendere in considerazione gli investimenti necessari, ed altri presupposti a medio e lungo termine, per guadagni futuri.
Se l'orizzonte temporale delle innovazioni industriali, della produzione e del trasporto, non può essere accorciato a piacere, oggi è però la velocità dei mercati finanziari e delle sue rendite a dettare le vicissitudini economiche. David Vice, della Northern Telecom, menziona la "cultura dei millesimi di secondo degli anni 90". E Toyoo Gyotheno, ex ministro delle finanze giapponese, racconta con un aneddoto: "Ho appena parlato con un operatore valutario. Gli ho chiesto quali sono i fattori di cui tiene conto per comprare e vendere. Mi ha risposto: 'molti fattori, per lo più a brevissimo termine, alcuni a medio termine ed altri a lungo termine'. Ho trovato assai interessante il fatto che pensasse anche a lungo termine e gli domandato cosa intendesse con questo. Senza esitare un attimo, mi ha risposto con tutta serietà: 'Anche 10 minuti'". E' su questi tempi che oggi si muove il mercato.” In questo clima evaporano le vestigia di un progetto qualitativo, orientato dal valore di scambio, così come le strategie imprenditoriali che coprono uno o più cicli economici. La stessa ricerca dei fondamenti è minata dagli imperativi della rendita massima a breve termine. La filosofia dello "shareholder value" è un progetto di estrema miopia, che non ha più bisogno di alcun visionario del capitale. Al posto dei grandi annunciatori strategici, gli smantellatori e gli avvoltoi delle imprese. Dovunque il commercio viene ridotto "in maniera salutare" a livelli nucleari, sempre più rapidamente.
Ci sono momenti in cui la rendita del commercio reale smette di essere in primo piano. Come dice già il nome, lo "shareholder value" parla di valore, del valore di cui può disporre l'azionista in maniera immediata e a breve termine, cioè, il valore in corso delle azioni, non dei dividendi. Una politica imprenditoriale che insegue la massimizzazione dello "shareholder value" è quindi rivolta di meno ai guadagni reali e a lungo termine, e di più ad una massimizzazione del valore in corso delle sue azioni, non importa a quale prezzo. In tal senso, la filosofia dello "shareholder value" è un prodotto dissimulato del capitalismo-casinò. Se in passato, i portafogli di azioni rimanevano spesso per decenni in mano allo stesso individuo ed erano anche un'eredità per la generazione successiva, oggi buona parte degli investitori privati ed istituzionali non detengono più portafogli a lungo termine, ma li usano solo per fare scommesse a seconda delle variazioni giornaliere del mercato.
Ecco perché ai direttori ed agli amministratori del capitale non rimane altro da fare che pilotare le proprie imprese alla maniera dei kamikaze. Vedendosi sempre più forzati a sbarazzarsi del loro patrimonio. Nel tentativo di dare un veloce ritocco al maquillage del successo illusorio, vengono incluse nel bilancio anche le riserve. Molti imprenditori si indebitano fino all'osso, ricomprandole dagli attuali possessori, pur di mantenere il corso delle proprie azioni. Anche il più reazionario dei consulenti di imprese ed investimenti diviene preda di vertigini a seguito di questo movimento frenetico, prevedendo una fine disastrosa. Ecco la spiegazione di Edward Emmer, specialista nordamericano di "rating", data alla rivista tedesca "Wirtschaftswoche": "Sotto il manto dello "shareholder value" si verificano le peggiori sciagure. Molto di ciò che accade sfugge a qualsiasi responsabilità (...) Vi sono decine di casi in cui gli imprenditori, in nome dello 'shareholder value', vengono spinti al fallimento".
Ora, non è l'equivoco soggettivo quello che equipara alle idee della gestione la memoria corta del mercato finanziario, bensì è il limite interno della stessa valorizzazione reale del capitale. Ecco perché gli avvertimenti conservatori dei guardiani della virtù del capitalismo reale cadono nel vuoto. Per mezzo dell'automazione, della razionalizzazione e della globalizzazione, il capitale ha sottratto, di propria mano, l'alimento della forza lavoro umana. Il sistema frenetico, avido della valorizzazione, comincia a divorare la sua propria carne. E la capitolazione strategica dell'amministrazione industriale viene imposta a tutte le élite capitaliste.
Anche negli imperi finanziari, i magnati vengono sostituiti da giovanotti disposti a spina di pesce di fronte ai terminali dei computer, che giocano all'economia mondiale come bambini in recinti con la sabbia. Anche l'orizzonte della politica si abbassa a livello dei videoclip. Con la filosofia dello "shareholder value", il radicalismo neoliberista del mercato ha superato i propri limiti. Ora lavora duramente e meticolosamente alla propria rovina storica.
Così, non c'è voluto molto prima che, nel frattempo, anche gli amministratori si vedessero costretti a mettere su una filosofia. La filosofia gestionale ha così cominciato a dettare il modello nell'inflazione galoppante delle filosofie. Non c'è un solo produttore di cosmetici, di automobili, di spaghetti o di riviste pornografiche che non abbia una sua filosofia peculiare. E, allo stesso modo in cui ogni persona è diventata la sua propria impresa e deve lanciare sé stessa sul mercato, così ogni individuo ha bisogno anche della sua filosofia gestionale.
"L'amore per la saggezza" appare ora come "amore per la venalità". In questo modo, si è raggiunto lo stadio più basso del pensiero umano, anche se per il capitalismo questa risulta essere "l'ultima parola in fatto di saggezza". Filosofia significa, quindi, la dottrina del vendere bene e correttamente - sia che si tratti della vendita di sé stesso o della vendita delle scorie che si devono imporre all'umanità.
Filosofie di questo genere, provengono il più delle volte dagli Stati Uniti, sebbene non siano più da tempo "tipicamente americane", ma corrispondano allo spirito globale dell'epoca. Di solito vengono cambiate più frequentemente di quanto si cambi la biancheria intima, come avviene con i guru della filosofia gestionale e con la natura effimera delle loro situazioni. Per questa filosofia c'è una moda estiva ed una moda autunnale, e nel frattempo la gestione ha da fare parecchio per svolgere il suo compito. Rimane poco spazio per la gestione. Un fallimento intellettuale dopo l'altro, e il mondo dell'economia va di già in malora. Ora, anche se la filosofia gestionale non è profonda quanto il mare, ma al massimo quanto una pozzanghera, tuttavia la sua base è piuttosto rigida. Ancora una volta essa dà la formula della propira etica. Come Immanuel Kant, la filosofia gestionale gratifica il mondo con un "imperativo categorico". Il nuovo postulato porta il nome di 'shareholder value' ("profitto dell'azionista").
Nella stampa economica tedesca, il concetto di "shareholder value" è stato eletto "vocabolo alla moda dell'esercizio finanziario 1996". Siccome nell'era del neoliberismo tutto quello che proviene dal mondo anglosassone, nel continente europeo, viene annusato con rispetto e diventa oggetto di congetture, l'interpretazione di "shareholder value" ha acquistato rilevanza nel discorso economico-filosofico. Ma alla fine che cos'è lo "shareholder value"?
Il primo comandamento di questa nuova etica filosofica della gestione prescrive: "Non avrai altro Dio al di fuori del tuo azionista". "Shareholder value" significa quindi una rabbiosa difesa degli interessi azionari da parte della politica commerciale delle società imprenditrici. Questo sarebbe, come si osserva con le banche di investimento, un movimento "back to the roots" ("ritorno alla origini"), cioè, ritorno al compito originario della gestione di ottenere il massimo guadagno per gli azionisti. Per troppo tempo, questo comandamento etico dell'economia è stato offuscato dagli "interessi dei gruppi sociali" (sindacati, politica, ecc.).
Nel nome dello "Shareholder value" vengono quindi celebrate orgie di licenziamenti in massa e di riduzioni dei costi, al fine di estorcere ad un minimo di dipendenti un massimo di produzione e mandare al diavolo le conseguenze sociali. La massimizzazione dei profitti è da sempre l'obiettivo, solo che ora si tratta di una crescente radicalizzazione di questa volontà contro ogni interesse all'interno della società capitalista. In tal senso, il progetto dello "Shareholder value" corrisponde alla radicalizzazione del limitato punto di vista economico sotto l'egida della globalizzazione del capitale. La vita come un tutto, l'insieme dei compromessi sociali, il rimanente della cultura e perfino gli interesse della burocrazia statale devono subordinarsi alla "produzione di rendite attraenti per gli azionisti" e, se necessario, essere immolati su questo altare. L'umanità, al pari del suo ambiente naturale, viene tenuta in ostaggio dai grandi azionisti privati ed istituzionali.
Per una sinistra politica ammuffita, questo sviluppo potrebbe provocare di nuovo offese alla magnificenza ed alla forza perniciosa dello spirito capitalistico, che conferisce agli infami interessi di lucro un'aureola di moralità. La filosofia dello "shareholder value" però non rivela una situazione sana, ma una debolezza strategica fondamentale del capitale.
Il problema risiede nel rapporto dell'azionista con l'imprenditoria pratica, o gestione. Un'azionista, come è noto, è un investitore che compra azioni, ossia, partecipazioni ad un'impresa, con l'obiettivo di ricevere una quota corrispondente del guadagno di quest'impresa. L'azionista - e questo è importante - non è l'imprenditore stesso. La decisione di comprare azioni di un'impresa avrà i suoi motivi, che possono essere sia di natura sentimentale che razionale, e poggiano su un qualche genere di informazione (per esempio, sul successo commerciale di quest'impresa). Ma, dal momento che l'azionista non è imprenditore e che quindi non si occupa attivamente di produzione e vendita da parte dell'impresa, egli non può prescrivere una strategia o una determinata condotta commerciale; non può decidere sugli investimenti, sulla riorganizzazione, sulla politica del personale, sul marketing, ecc..
In altre parole, secondo la razionalità capitalistica, l'azionista in quanto mero investitore deve riporre la sua fiducia nella strategia, negli obiettivi e nelle potenzialità di un capitale produttivo e nella sua gestione. Tale fiducia è il suo rischio. Anche se il modo di produzione capitalista è, fin dall'inizio, distorto dal funzionalismo astratto del denaro, in passato quel che era in gioco era il residuo di un obiettivo qualitativo, ossia, la produzione ed il consumo di un determinato valore d'uso concreto (fosse esso già dimostrato oppure innovativo). Fiducia e rischio si riferivano non solo alla serietà dei metodi gestionali, ma anche alla qualità ed alla buona accettazione del prodotto dell'impresa, così come alla sua utilità.
Solo in questo modo, nel 19° secolo, inventori capitalistici come Edison, Siemens, Benz, ecc. hanno potuto realizzare le loro idee (quale che sia il giudizio che se ne possa dare oggi): essi avevano bisogno di investitori che credessero in quelle idee e nella loro possibilità di successo commerciale. Anche il più grande progetto capitalista del 19° secolo, l'integrazione del mondo per mezzo della costruzione delle ferrovie, è stato reso possibile soltanto per mezzo del rischio degli investitori che, come azionisti delle compagnie ferroviarie, davano carta bianca alla gestione. Infatti, in un famoso western, il regista italiano Sergio Leone disegna la figura tragica di un amministratore delle ferrovie cui, in contrasto con l'avidità ottusa dei suoi nemici e dei suoi colleghi, interessa assai meno il lucro facile di quanto gli interessa il sogno grandioso di riuscire a collegare con la ferrovia la costa Est con quella Ovest degli Stati Uniti, da oceano ad oceano.
Anche nella teoria economica si è sedimentato questo attributo dell'amministratore o dell'imprenditore pratico. Il classico Adam Smith giustificherà la quota di profitto dell'amministratore col fatto che questi riunisce strategicamente i "fattori produttivi" del lavoro, del suolo e del capitale. Teoricamente postulato da Joseph Schumpeter, lo stesso imprenditore innovativo e "distruttore creativo" delle strutture di produzione antiquate, che veniva visto come il garante dello sviluppo capitalistico e che oggi viene di nuovo conclamato a piena voce, presuppone sia la libertà strategica che la politica commerciale del capitale produttivo indipendente degli investitori.
Il progetto dello "shareholder value" mette la retromarcia a questa relazione classica fra azionisti e capitalisti pratici. Quanto più difficile è la valorizzazione del capitale reale, a causa dei livelli elevati di produttività globale, e quanto più indipendente è la produzione reale in rapporto ai focolai monetari sul mercato finanziario transnazionale, tanto minore è il potere strategico degli "agenti" industriali. Gli imprenditori innovatori di Schumpeter, per quanto possano essere richiesti dalla teoria, nella prassi capitalistica a partire dagli anni 1990, sono condannati a sparire. Steve Jobs forse è stato uno degli ultimi della sua specie, dal momento che nella filosofia dello "shareholder value" non c'è più spazio per persone come lui. Le idee e le strategie del capitale industriale reale vengono fagocitate dall'interesse monetario nudo e crudo degli azionisti.
Questo interessa soprattutto l'orizzonte temporale. Orientarsi in maniera strategica, significa pensare ed avere obiettivi relativamente a lungo termine. Sviluppare e lanciare sul mercato un prodotto reale richiede il suo tempo, anche con il potenziale tecnologico della microelettronica. Affinché le nuove idee industriali possano diventare realtà, gli azionisti e gli altri investitori devono coltivare una certa pazienza. A rischio di dilapidare il patrimonio dell'impresa, non devono esigere immediatamente "rendite attraenti", senza prendere in considerazione gli investimenti necessari, ed altri presupposti a medio e lungo termine, per guadagni futuri.
Se l'orizzonte temporale delle innovazioni industriali, della produzione e del trasporto, non può essere accorciato a piacere, oggi è però la velocità dei mercati finanziari e delle sue rendite a dettare le vicissitudini economiche. David Vice, della Northern Telecom, menziona la "cultura dei millesimi di secondo degli anni 90". E Toyoo Gyotheno, ex ministro delle finanze giapponese, racconta con un aneddoto: "Ho appena parlato con un operatore valutario. Gli ho chiesto quali sono i fattori di cui tiene conto per comprare e vendere. Mi ha risposto: 'molti fattori, per lo più a brevissimo termine, alcuni a medio termine ed altri a lungo termine'. Ho trovato assai interessante il fatto che pensasse anche a lungo termine e gli domandato cosa intendesse con questo. Senza esitare un attimo, mi ha risposto con tutta serietà: 'Anche 10 minuti'". E' su questi tempi che oggi si muove il mercato.” In questo clima evaporano le vestigia di un progetto qualitativo, orientato dal valore di scambio, così come le strategie imprenditoriali che coprono uno o più cicli economici. La stessa ricerca dei fondamenti è minata dagli imperativi della rendita massima a breve termine. La filosofia dello "shareholder value" è un progetto di estrema miopia, che non ha più bisogno di alcun visionario del capitale. Al posto dei grandi annunciatori strategici, gli smantellatori e gli avvoltoi delle imprese. Dovunque il commercio viene ridotto "in maniera salutare" a livelli nucleari, sempre più rapidamente.
Ci sono momenti in cui la rendita del commercio reale smette di essere in primo piano. Come dice già il nome, lo "shareholder value" parla di valore, del valore di cui può disporre l'azionista in maniera immediata e a breve termine, cioè, il valore in corso delle azioni, non dei dividendi. Una politica imprenditoriale che insegue la massimizzazione dello "shareholder value" è quindi rivolta di meno ai guadagni reali e a lungo termine, e di più ad una massimizzazione del valore in corso delle sue azioni, non importa a quale prezzo. In tal senso, la filosofia dello "shareholder value" è un prodotto dissimulato del capitalismo-casinò. Se in passato, i portafogli di azioni rimanevano spesso per decenni in mano allo stesso individuo ed erano anche un'eredità per la generazione successiva, oggi buona parte degli investitori privati ed istituzionali non detengono più portafogli a lungo termine, ma li usano solo per fare scommesse a seconda delle variazioni giornaliere del mercato.
Ecco perché ai direttori ed agli amministratori del capitale non rimane altro da fare che pilotare le proprie imprese alla maniera dei kamikaze. Vedendosi sempre più forzati a sbarazzarsi del loro patrimonio. Nel tentativo di dare un veloce ritocco al maquillage del successo illusorio, vengono incluse nel bilancio anche le riserve. Molti imprenditori si indebitano fino all'osso, ricomprandole dagli attuali possessori, pur di mantenere il corso delle proprie azioni. Anche il più reazionario dei consulenti di imprese ed investimenti diviene preda di vertigini a seguito di questo movimento frenetico, prevedendo una fine disastrosa. Ecco la spiegazione di Edward Emmer, specialista nordamericano di "rating", data alla rivista tedesca "Wirtschaftswoche": "Sotto il manto dello "shareholder value" si verificano le peggiori sciagure. Molto di ciò che accade sfugge a qualsiasi responsabilità (...) Vi sono decine di casi in cui gli imprenditori, in nome dello 'shareholder value', vengono spinti al fallimento".
Ora, non è l'equivoco soggettivo quello che equipara alle idee della gestione la memoria corta del mercato finanziario, bensì è il limite interno della stessa valorizzazione reale del capitale. Ecco perché gli avvertimenti conservatori dei guardiani della virtù del capitalismo reale cadono nel vuoto. Per mezzo dell'automazione, della razionalizzazione e della globalizzazione, il capitale ha sottratto, di propria mano, l'alimento della forza lavoro umana. Il sistema frenetico, avido della valorizzazione, comincia a divorare la sua propria carne. E la capitolazione strategica dell'amministrazione industriale viene imposta a tutte le élite capitaliste.
Anche negli imperi finanziari, i magnati vengono sostituiti da giovanotti disposti a spina di pesce di fronte ai terminali dei computer, che giocano all'economia mondiale come bambini in recinti con la sabbia. Anche l'orizzonte della politica si abbassa a livello dei videoclip. Con la filosofia dello "shareholder value", il radicalismo neoliberista del mercato ha superato i propri limiti. Ora lavora duramente e meticolosamente alla propria rovina storica.
- Robert Kurz - 27/10/96 -
fonte: EXIT!
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