giovedì 6 dicembre 2018

A colpo d'occhio

leopardi

Nei primi decenni del Novecento, quando la critica di orientamento idealistico negava all’opera leopardiana ogni spessore filosofico, Giuseppe Rensi riconobbe in Leopardi niente meno che «il più grande pensatore italiano», definendosi il suo unico vero seguace: «perché mentre un gruppo di estetizzanti lo segue soltanto nel vocabolo, unico io lo seguo nel pensiero». In effetti Rensi fa costante riferimento a Leopardi in quasi tutte le sue opere e gli dedica espressamente alcuni densi interventi. Questo volume li riunisce per la prima volta, a cominciare da un articolo finora trascurato del 1906, in cui Rensi coglie già quella profonda affinità filosofica tra Leopardi e Nietzsche, su cui tanto insisterà la critica più recente. Seguono i saggi sulla filosofia del diritto e sullo «scetticismo estetico» di Leopardi, che illuminano versanti del pensiero leopardiano fino ad allora quasi del tutto inesplorati. A suo modo Rensi anticipò anche la fortunata tesi del cosiddetto pensiero poetante, come emerge nei due capitoli raccolti in appendice, che indicano nei versi di Leopardi un modello esemplare di poesia filosofica, di perfetta fusione tra metafisica e lirica.
(dal risvolto di copertina di: Giuseppe Rensi, Su Leopardi. Aragno)

Tra i primi studi monografici incentrati sullo Zibaldone, il più acuto e profondo rimane senza dubbio La filosofia di Leopardi di Adriano Tilgher, uscito per la prima volta nel 1940. Questo saggio, però, non è soltanto un classico, ingiustamente trascurato, degli studi leopardiani, ma è anche, sotto molti aspetti, il testamento filosofico di Tilgher (che sarebbe morto un anno dopo averlo dato alle stampe) e, per alcuni, il suo libro migliore. La filosofia di Leopardi colpisce ancora oggi il lettore per la limpidezza stilistica e le feconde intuizioni ermeneutiche, che la critica successiva avrebbe ampiamente ripreso, non sempre riconoscendo i debiti nei riguardi di Tilgher. In questa edizione il saggio è accompagnato da un apparato ricco di dettagli storici e filologici, e da un’appendice di articoli leopardiani mai riuniti finora in volume.
(dal risvolto di copertina di: Adriano Tilgher, "La filosofia di Leopardi". Aragno)

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Leopardi e la filosofia: Giuseppe Rensi e Adriano Tilgher
di Raoul Bruni

Giuseppe Rensi non pubblicò mai, durante la propria vita, un libro su Leopardi; eppure se si dovesse indicare un suo autore d’elezione il nome di Leopardi è senz’altro il primo a cui verrebbe da pensare. Certo per Rensi hanno contato molto anche altri pensatori, da Spinoza a Schopenhauer, da Nietzsche a Pascal, ma forse nessun altro esercitò su di lui un influsso così decisivo e durevole come Leopardi.
Per Rensi, Leopardi è «uno dei più grandi filosofi italiani (forse il sommo)» [*1]; «il nostro maggiore poeta e, insieme […] il nostro maggiore filosofo» [*2]; «il sommo filosofo d’Italia» [*3]; «la più grande figura che la storia del pensiero italiano presenti» [*4]; e si potrebbero citare altre affermazioni analoghe. Oggi giudizi del genere sarebbero sottoscritti o accettati da molti [*5], ma nel contesto culturale dell’Italia primo-novecentesca, egemonizzato dal neo-idealismo, il solo fatto di considerare Leopardi un filosofo rappresentava di per sé una sovversiva eresia critica. Croce, infatti, non riconobbe a Leopardi nessun valore filosofico, limitando il suo apprezzamento per l’opera leopardiana al solo versante lirico-idillico [*6]; quanto a Gentile, pur proponendo una importante lettura filosofica delle Operette morali, negò ogni valore speculativo allo Zibaldone [*7]. Leopardi non era considerato un vero filosofo dagli idealisti perché il suo pensiero veniva giudicato troppo rapsodico, contraddittorio, frammentario e, quindi, asistematico. Per Rensi, invece, queste caratteristiche non dovevano considerarsi limiti o difetti, ma erano, al contrario, i sintomi più lampanti della modernità filosofica di Leopardi. Rensi capovolge completamente la concezione idealistica della filosofia, secondo la quale solo chi ha costruito un sistema filosofico coerente e rigoroso può reputarsi un filosofo. Per Rensi il sistema è «soltanto la scoria o il cemento che serve a tener uniti i soli pochi pensieri valevoli», mentre i filosofi più autentici sono i frammentisti, gli autori di pensieri «staccati, come […] Leopardi e Amiel, Pascal, La Rochefoucauld, lo stesso Nietzsche» [*8].

La crisi della prima Guerra mondiale sarà decisiva per Rensi. È come se la catastrofe bellica facesse piazza pulita di ogni residua fede nelle magnifiche sorti, portando definitivamente il suo pensiero verso esiti sempre più radicalmente scettici e nichilistici. Dopo la guerra, nel 1919, escono quasi simultaneamente due opere fondamentali di Rensi, Lineamenti di filosofia scettica (da cui è tratta La filosofia del diritto del Leopardi) e La scepsi estetica (in cui è compreso Lo scetticismo estetico del Leopardi), che si pongono, fin dal titolo, sotto il segno di un’implacabile scepsi.
Secondo Rensi, con il suo anti-razionalismo e il suo relativismo, Leopardi ha messo in crisi ogni idea costruttiva e rassicurante della società e della politica. L’uomo ha un carattere intrinsecamente «antisociale», recita un famoso passo dello Zibaldone citato da Rensi; e nello stesso Zibaldone si trova una critica tanto acuta quanto spietata della cosiddetta «società stretta», ricostruita puntualmente nella Filosofia del diritto del Leopardi. Leopardi è quindi interpretato come un implacabile demistificatore politico, in quanto mostra come ogni volontà generale, ogni fantomatica volontà della legge sia in realtà una sopraffazione più o meno violenta ai danni dell’individuo. Da qui, come precisa Rensi in un successivo paragrafo dei Lineamenti, l’impossibilità di un «buon governo»: «Il problema di fondare un buon governo, intorno al quale si sono eternamente affaticati e si affaticano politici e filosofi, è insolubile, pensava Leopardi» [*9]. Non esistono governi buoni, Stati giusti (anzi paradossalmente, dice Rensi, con Leopardi, la monarchia sarebbe la forma di governo più razionale): ogni volontà politica generale non potrà non schiacciare la libertà del singolo individuo. Dall’interpretazione di Rensi della filosofia politica di Leopardi affiora una sorta di anarchismo [*10] senza utopie, che dell’ideologia anarchica accoglie appunto la parte distruttiva (la demistificazione della violenza dello Stato) rifiutandone nello stesso tempo ogni slancio progressivo. La filosofia del diritto del Leopardi è uno scritto importante perché mette in luce per la prima volta, con profondità d’analisi, un ambito tutt’altro che secondario della riflessione leopardiana, che solo di recente è stato più adeguatamente documentato: quello politico (per non parlare della filosofia del diritto, a cui è stato dedicato uno specifico Convegno leopardiano pochissimi anni fa [*11]). Oggi Leopardi è addirittura inserito in autorevoli dizionari di filosofia politica, ma considerarlo un grande filosofo politico nei primi decenni del Novecento rappresentava un fatto assolutamente senza precedenti [*12]. D’altra parte, se rimane discutibile l’etichetta di Leopardi come filosofo «scettico» in senso troppo univoco, il commento rensiano a certe pagine sociali e politiche dello Zibaldone rimane ancora convincente.

A inizio Novecento altro ambito ancora quasi totalmente inesplorato del pensiero leopardiano era l’estetica (unica eccezione un saggio interessante ma piuttosto impressionistico di Romualdo Giani apparso nel 1904 [*13]). Tanto che Benedetto Croce, nella sua Estetica, come fa notare Rensi nello Scetticismo estetico, sembrerebbe quasi ignorare Leopardi. Se nella Filosofia del diritto Leopardi è interpretato come distruttore dei dogmi sociali e politici, nello Scetticismo estetico, è presentato come distruttore dei dogmi estetici. Attraverso un’analisi puntuale dei pensieri estetici zibaldoniani, Rensi illustra come Leopardi abbia dimostrato l’infondatezza filosofica di ogni canone assoluto del bello. Se l’idea che abbiamo del bello artistico si basa inevitabilmente sull’esperienza, sarà impossibile trovare un canone estetico condiviso da tutti, che prescinda dalla soggettività delle esperienze individuali. Vanificata ogni astratta sintesi estetica, ogni «idea del bello universale e assoluta» [*14], la componente che determina la formazione dei parametri artistici sarà soprattutto l’assuefazione, a cui Leopardi, nello Zibaldone, dedica ampio spazio.
Lo scetticismo estetico del Leopardi e La filosofia del diritto del Leopardi sono gli unici due scritti di non breve respiro che Rensi dedica espressamente al pensiero leopardiano; tuttavia in quasi tutte le sue opere successive i riferimenti a Leopardi, espliciti o impliciti, abbondano, tanto che sarebbe stato impossibile documentarli interamente in questo volume. Tuttavia, c’è almeno un altro nucleo del discorso di Rensi su Leopardi che non poteva assolutamente essere tralasciato: il rapporto poesia-filosofia. Da qui l’idea di arricchire il volume con un’appendice comprendente altri due brani (La filosofia come lirica e Intuizione e concetto. Metafisica e lirica), sempre tratti, rispettivamente, dai Lineamenti di filosofia scettica e da La scepsi estetica. La scelta non mi è sembrata arbitraria in quanto si tratta di testi in cui Leopardi rappresenta un punto di riferimento centrale.
In questi due scritti, più di cinquant’anni prima che si diffondesse nella critica leopardiana la fortunata formula del pensiero poetante [*15], si indica Leopardi come archetipo moderno di poeta-filosofo. Ancora una volta, Rensi approda a questo esito teorico liquidando le teorie di Croce e degli idealisti, che contrapponevano rigidamente poesia e filosofia, relegando la prima nel campo soggettivo della pura espressione artistica e la seconda in quello universale della verità. In Filosofia come lirica Rensi sostiene, da un lato, che la filosofia deve rinunciare alla pretesa di trasmettere verità assolute, dall’altro, che l’arte esprime spesso concetti universali, e può quindi avere una funzione filosofica. La distinzione tra arte e filosofia non è dunque così netta come lasciano intendere gli idealisti. Del resto anche la filosofia può esprimersi in forme soggettive, non troppo dissimili da quelle artistiche.
Il merito di aver messo in discussione l’idea monolitica di una filosofia-verità e di aver aperto la strada alla filosofia-arte, secondo Rensi, va attribuito a Leopardi: «Profondamente dice il Leopardi che solo è utile la sommità della filosofia perché ci libera e disinganna dalla filosofia. La sommità della filosofia è lo scetticismo che ci libera dall’idolo vano della filosofia-verità: senza privarci però della gioia della filosofia-arte» [*16]. Nel caso di Leopardi, e di altri poeti, ogni distinzione netta tra poesia e filosofia sarebbe pretestuosa: «riguardo ad una certa lirica, come quella del Leopardi e del Browning», è «manifestamente del tutto impossibile, non ostante ogni sforzo e sottigliezza, di stabilire dei consistenti e precisi caratteri che la differenzino dalla filosofia» [*17] .
L’idea di poesia filosofica elaborata da Rensi sembra aver avuto una qualche influenza sulla poetica di un suo grande lettore, Eugenio Montale, il cui debito con Rensi è stato finora scarsamente indagato [*18]. Così recita un famoso passo di un’intervista montaliana del 1960: «C’è stata, però, a partire da Baudelaire e da un certo Browning, e talora dalla loro confluenza, una corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all’ingrosso si può dire metafisica. Io sono nato in quel solco. Tutta l’arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione può anche dirsi metafisica […]» [*19]. Pur senza le oltranze anti-razionalistiche di Rensi, Montale riprende, a suo modo, una certa concezione di poesia filosofica non troppo dissimile da quella proposta in Filosofia come lirica: si noti, tra l’altro, che sia Rensi sia Montale fanno il nome di Browning. Del resto lo stesso Browning viene citato a più riprese come esempio di poeta-filosofo anche in Intuizione e concetto. Metafisica e lirica (nell’intervista citata Montale parla, per l’appunto, di «poesia metafisica»). Un capitolo, quest’ultimo, sicuramente presente a Montale, dato che è contenuto nella Scepsi estetica, ricordato e elogiato in modo esplicito dal poeta come «geniale e paradossale volume» [*20].

Oggi quasi completamente rimosso dal mondo culturale e dalla grande editoria [*21], Adriano Tilgher è stato – insieme con l’amico e sodale Giuseppe Rensi – il caposcuola di un certo filone minoritario della saggistica italiana novecentesca, che varrebbe la pena riscoprire. Un filone eretico, anti-accademico, spesso in conflitto con i poteri politici e culturali dominanti, che si è propagato nell’opera anch’essa trascurata di un Nicola Chiaromonte, il quale si formò proprio attraverso la lettura delle cronache teatrali tilgheriane, e ha avuto una notevole incidenza sull’apprendistato filosofico di uno scrittore come Leonardo Sciascia, che non ha mai nascosto il suo debito nei riguardi di Tilgher. Nel corso della propria vita, Adriano Tilgher ha pagato certamente lo scotto, da un lato delle sue aspre polemiche anti-crociane e anti-gentiliane, dall’altro delle sue prese di posizione contro il regime fascista [*22]. In seguito il clima del secondo dopoguerra non si mostrò molto più favorevole alla fortuna di Tilgher, il quale rimaneva comunque un pensatore troppo irregolare, non certamente in linea con il pensiero progressista e storicista che andava per la maggiore in quegli anni. Tutt’al più Tilgher veniva ricordato come critico di Pirandello (si deve, come è noto, a lui la formulazione della dialettica vita/forma come chiave di lettura dell’opera pirandelliana) o, per l’appunto, come discutibile antipode filosofico di Croce e Gentile (una certa fortuna ha avuto, in particolare, il feroce pamphlet anti-gentiliano Lo spaccio del bestione trionfante [*23]). Eppure, e forse anche per le stesse ragioni che ne hanno decretato l’emarginazione nel secolo scorso, oggi il pensiero di Tilgher appare per molti aspetti ancora di estremo interesse. Stiamo parlando di un filosofo che ha lasciato una mole vastissima di scritti, ancora in gran parte da inventariare (non esiste una bibliografia completa delle opere di Tilgher) o addirittura inediti, che toccano gli ambiti più diversi, dall’estetica alla critica letteraria e teatrale, dalla morale alla politica.
Con La filosofia di Leopardi Tilgher fornì un contributo fondamentale alla conoscenza del pensiero leopardiano. Eppure questo saggio viene quasi sempre ignorato o trascurato nei manuali di storia letteraria, che attribuiscono il merito di aver scoperto il valore filosofico dell’opera di Leopardi a Cesare Luporini, e al suo fortunatissimo saggio Leopardi progressivo. Senza nulla togliere al grande rilievo storico del saggio in questione, che, insieme con La nuova poetica leopardiana di Walter Binni, segnò la cosiddetta svolta del 1947, non bisogna dimenticare che, ben prima di Luporini, altri studiosi avevano rivendicato l’importanza del Leopardi filosofo (riconosciuto come tale, del resto, già nell’Ottocento, non solo dal maestro e amico Giordani, ma anche, tra gli altri, da Nietzsche). Intanto, all’indomani dell’uscita dello Zibaldone, pubblicato sintomaticamente proprio all’inizio del Novecento, apparve una serie di studi, seppure un po’ approssimativi, sul pensiero di Leopardi; successivamente, in contrasto con il graduale consolidarsi dell’egemonia idealistica, l’intrinseco valore filosofico dell’opera leopardiana venne più persuasivamente messo in risalto da studiosi e saggisti come Giulio Augusto Levi, Lorenzo Giusso, Giovanni Amelotti e, soprattutto, da Giuseppe Rensi, che vide in Leopardi niente meno che il massimo filosofo italiano [*24]. Ma tra le pubblicazioni antecedenti a quella di Luporini, il libro di Tilgher, ultimato nel 1939, e pubblicato nel 1940 (dunque sette anni prima dell’uscita del Leopardi progressivo) occupa una posizione di tutto riguardo, come prima, convincente trattazione organicamente consacrata alla filosofia leopardiana.
Tra le osservazioni di Tilgher che avrebbero segnato veri e propri punti fermi per la comprensione del pensiero leopardiano, occorre ricordare almeno la distinzione tra amor proprio ed egoismo («amor proprio non è affatto sinonimo di egoismo»); la dimostrazione del materialismo leopardiano, su cui tornerò; la distinzione tra «barbaro» e «primitivo» («Figlia della decadenza è la barbarie. Leopardi distingue profondamente fra barbaro e primitivo: il primitivo è sano, il barbaro è corrotto […]»); l’individuazione di alcuni fondamentali nuclei tematici dello Zibaldone, come la teoria dell’assuefazione; l’interpretazione dell’Infinito, che, confutando una tesi allora molto autorevole di Karl Vossler, Tilgher definisce non come l’analisi, bensì come «la narrazione (cosa ben diversa) di un processo spirituale» [*25]. Altri spunti di Tilgher sarebbero stati adeguatamente sviluppati soltanto dalla critica leopardiana più recente, come ad esempio, le considerazioni sul pensiero storico e politico di Leopardi. Tilgher che, non per nulla, fu il primo ad introdurre in Italia il pensiero di Spengler, si mostra molto attento nei riguardi delle riflessioni leopardiane sulla storia come decadenza e sulla ciclicità storica (a questo proposito, egli insiste giustamente sulle consonanze tra Leopardi e Vico). Come già Rensi, Tilgher vede in Leopardi un esemplare controcanto filosofico al processo di divinizzazione della storia messo in atto, a suo dire, dagli idealisti: «Al contrario dell’Idealismo hegeliano per cui la Storia è lo sviluppo fatale o necessario (e quindi l’unico possibile) di un Dio immanente o Spirito del Mondo (donde l’apoftegma hegeliano: tutta la storia è storia sacra), per Leopardi infinite storie erano possibili oltre quella che è stata e poteva benissimo non esserci, che appunto perciò non ha nulla né di sacro né di divino» (si ricordi che Tilgher fu uno dei primi filosofi a approfondire la questione dell’ucronia).
Tutt’altro che trascurabili sono anche i rilievi di Tilgher sul platonismo sui generis di Leopardi – altra questione che la critica leopardiana avrebbe ripreso e sviscerato solo negli ultimi decenni [*26]: «Per quanto riguarda l’illusione di amore, nulla di più naturale che Leopardi riecheggiasse la teoria di Platone […], ma facendole subire un cambiamento radicale». L’aver colto le componenti platoniche presenti in Leopardi ha permesso a Tilgher di prospettare una teoria del materialismo leopardiano molto meno monolitica di quella proposta sia dagli studiosi precedenti, sia dai leopardisti di orientamento marxista del secondo dopoguerra. Per Tilgher, «Leopardi fu materialista. Ma il suo materialismo fu più sottile, articolato e profondo di quanto dai più si crede», giacché finisce per «sbocca[re] nel mistero», cioè in una forma singolare di religiosità (non certamente confessionale), che un numero sempre crescente di studiosi ha ravvisato in Leopardi.

Anche da questo punto di vista, le osservazioni di Tilgher possono considerarsi pionieristiche. Scrive pagine di notevole acume sulla «teologia negativa» leopardiana e giunge a scorgere in Leopardi quegli accenti gnostici, su cui decenni più tardi avrebbe particolarmente insistito uno studioso come Cesare Galimberti: «Era psicologicamente, se non logicamente, inevitabile che a Leopardi il Dio della Teologia negativa, il quale non si sa perché, ha dato vita a un mondo di individui che non possono vivere che a patto di soffrire, si trasformasse in un Dio malvagio [Arimane] che crea per tormentare e distruggere». Ma, a proposito della religiosità leopardiana, risultano ancor più convincenti le pagine del capitolo Esperienze numinose, che chiude l’appendice del volume (ma le pagine dell’appendice sono in realtà altrettanto importanti di quelle dei capitoli precedenti). Qui Tilgher applica a L’infinito, La vita solitaria e il coro di morti del Ruysch, la categoria del numinoso, mutuata dallo studioso del sacro Rudolf Otto, ravvisando, in particolare nel primo componimento, «l’esperienza di un ineffabile che è oltre il piano ordinario della vita […]; esperienza non religiosa (mancando qui ogni personificazione mitica) ma numinosa». Quanto al coro del Ruysch, Tilgher lo considera «non solo una delle più belle poesie di Leopardi e, in senso assoluto, un capolavoro poetico, ma la più bella senz’altro delle poesie leopardiane, il vertice della sua produzione»: giudizio di valore assolutamente significativo per quegli anni. Così come significativo è il rinvio a Heidegger (che prima di allora solo un critico semisconosciuto, e forse ignoto allo stesso Tilgher, come Giovanni Amelotti, aveva citato a proposito di Leopardi): «i morti ricordano senza veramente ricordarsene il tempo in cui furono vivi. Il mistero che è ora per loro la vita mortale, la vita che è l’essere per la morte (come dice Heidegger) e la ripugnanza che essa loro ispira formano il tessuto emozionale del canto».
La valorizzazione di un testo come il «coro di morti» ci mostra come il canone leopardiano di Tilgher fosse ben più ampio di quello accreditato dalla linea critica De Sanctis-Croce, che salvava quasi esclusivamente i componimenti del periodo idillico (Tilgher tiene invece ampiamente in considerazione, tra l’altro, anche i testi dell’ultimo Leopardi, quali La ginestra e i Paralipomeni). Inoltre, Tilgher è tra i primi a cogliere, per così dire, la poesia della prosa leopardiana, tanto che un pensiero zibaldoniano del marzo 1827 («Io veggo corpi che pensano e che sentono…») è definito «una pagina capitale dello Zibaldone, così letterariamente bella, che non so resistere alla tentazione di citarla largamente». Tilgher, infatti, fu tra i primi a leggere lo Zibaldone non come opera di servizio, con valore meramente vicario rispetto alle poesie e prose canoniche, bensì come testo filosofico e letterario autonomo. Certamente, per altri aspetti, La filosofia di Leopardi mostra i limiti inevitabilmente legati al contesto storico in cui fu scritta. Come già Rensi, Tilgher si presenta come un continuatore di Leopardi e questo fa sì che troppo spesso egli sovrapponga arbitrariamente il suo proprio pensiero a quello del poeta. Lasciano molte perplessità quei passi in cui l’autore, con troppa disinvoltura storica e filologica pretende di sostituirsi a Leopardi, o addirittura di correggerlo.
D’altra parte, si potrebbe dire, parafrasando un celebre verso di Caproni riferito a Montale, che ciascuno ha il suo Leopardi. Ciò vale anche per i grandi lettori, e il Leopardi di questo libro è senza dubbio il Leopardi di Tilgher, con tutti i limiti che ciò può comportare. Tuttavia, eliminati i residui della polvere del tempo, questo volume rimane ancora assai più utile di molti saggi su Leopardi in chiave filosofica apparsi successivamente. La critica leopardiana, infatti, troppo spesso ha voluto ridurre l’inafferrabile complessità dell’opera leopardiana ad una etichetta: nel corso dei decenni si è parlato di un Leopardi «progressivo», di un Leopardi «reazionario», di un Leopardi «cristiano», di un Leopardi «nichilista», solo per ricordare alcune delle formule più fortunate. Il Leopardi di Tilgher, se certamente non è «progressivo», non è neanche un reazionario. Anzi, in un passo piuttosto sorprendente del libro, si sottolinea il fatto che Leopardi «applaud[a] “allo spirito di energia che ora domina in gran parte di Europa agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati” […] e perciò meno attenti al desiderio di felicità che geme in fondo all’animo. Perciò» – aggiunge – «la comune opinione che Leopardi, se oggi vivesse, sarebbe sfavorevole alla nostra civiltà del lavoro incessante, dell’attività febbrile, del moto perpetuo, della velocità crescente, è del tutto fuori strada». Anche la tesi di un Leopardi a suo modo cristiano è nettamente rifiutata da Tilgher («non ci fu mai anima più radicalmente negata al Cristianesimo della sua. Persino in Nietzsche ci sono nostalgie e rimpianti cristiani; in Leopardi no»), che pure, come si è ricordato, era stato tra i primi a rilevare una possibile religiosità leopardiana. La questione del nichilismo, invece, seppure venga sfiorata a più riprese nel libro [*27], non viene mai evocata esplicitamente: Tilgher preferisce parlare, appunto, di «teologia negativa», oppure, come già Rensi, di scetticismo, o di presagi di relativismo e di contingentismo.
Insomma, nella Filosofia di Leopardi, così come negli altri scritti leopardiani di Tilgher che qui si raccolgono per la prima volta in volume, non troveremo quelle viete formule schematiche di cui la critica continua ancora ad abusare: bensì approssimazioni concettuali, in gran parte ancora feconde, all’irriducibile complessità dell’universo filosofico leopardiano. Questo libro offre quindi al lettore una duplice occasione: riscoprire, attraverso il suo più pregnante testamento filosofico (La filosofia di Leopardi esce un anno prima della morte di Tilgher), un pensatore trascurato ma importante della cultura italiana novecentesca; e riconfrontarsi con l’opera leopardiana senza lo sgradevole filtro delle etichettature che ne hanno condizionato la ricezione fino a oggi.

- Raoul Bruni - Pubblicato il 1° giugno 2018 su Le Parole e le Cose -

NOTE:

[1] G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, seconda edizione rielaborata ed ampliata, Zanichelli, Bologna 1921, p. 114.

[2] G. Rensi, Lo scetticismo estetico di Leopardi [1919], in Id., Su Leopardi, a cura di R. Bruni, Nino Aragno Editore, Torino 2018, p. 37.

[3] G. Rensi, Apologia dello scetticismo, introduzione di A. Torno, La Vita Felice, Milano 2011, p. 85.

[4] G. Rensi, La mia filosofia, in Id., Autobiografia intellettuale – La mia filosofia – Testamento filosofico, Dall’Oglio, Milano 1989, p. 202.

[5] Basterà ricordare il giudizio di un filosofo contemporaneo tra i più noti, Emanuele Severino (che ha dedicato a Leopardi ben tre volumi), il quale ha affermato che «l’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi» (E. Severino, Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990, p. 21).

[6] Cfr., in particolare, B. Croce, Leopardi, in Id., Poesia e non poesia, Laterza, Bari 1935, pp. 103-119.

[7] Gli scritti leopardiani di Gentile sono raccolti in G. Gentile, Manzoni e Leopardi, seconda edizione riveduta e accresciuta, Sansoni, Firenze 1960.

[8] G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, cit., pp. 341-342.

[9] G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, cit., 149.

[10] Non è un caso che uno dei primi tentativi di documentare il pensiero politico di Leopardi abbia avuto come esito una interessante, seppure tendenziosa, antologia di Pensieri anarchici estratti e scelti dallo Zibaldone, a cura di F. Biondolillo, Tariffi, Pistoia 1945, ristampata recentemente, a cura di A. Di Grado, Ad est dell’Equatore, Napoli 2017).

[11] Cfr. Ius Leopardi: legge, natura, civiltà, Atti del seminario di studi (Macerata, 16 ottobre 2015), a cura di L. Melosi, Olschki, Firenze 2016.

[12] Importante per la riscoperta del pensiero politico di Leopardi fu soprattutto l’uscita dell’antologia, curata da Mario Andrea Rigoni, La strage delle illusioni, Adelphi, Milano 1992. Sulla filosofia politica di Leopardi bisogna ricordare anche il giudizio di un critico come Luigi Baldacci, secondo il quale Leopardi è da considerarsi un «filosofo politico tra i più grandi del nostro Ottocento» (L. Baldacci, Due utopie [1982], in Id., Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, Rizzoli, Milano 1998, p. 71).

[13] R. Giani, L’estetica nei Pensieri di Giacomo Leopardi, Fratelli Bocca, Torino 1904.

[14] G. Rensi, Lo scetticismo estetico del Leopardi, cit., p. 49.

[15] Cfr. A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi. Edizione ampliata, Milano, Feltrinelli, 2006 (1° ed. 1980).

[16] G. Rensi, Lineamenti di filosofia scettica, seconda, cit., p. 364.

[17] G. Rensi, Su Leopardi, cit., p. 68.

[18] L’unico contributo specifico sull’argomento è quello di C. Scarpati, Montale e Rensi, «Sigma», XIII, 1, gennaio-giugno 1980, pp. 77-108 (poi ripubblicato, con qualche variazione, sotto il titolo Scepsi e ascesi all’epoca degli «Ossi», in Id., Sulla cultura di Montale, Vita e Pensiero, Milano, 1997, pp. 7-32).

[19] E. Montale, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1976, p. 581.

[20] E. Montale, Auto da fé, in Id., Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, p. 105.

[21] Da segnalare, invece, i meritevoli recuperi della piccola casa editrice romana Atlantide che, per impulso di Simone Caltabellota, ha fatto recentemente ristampare il volume Filosofi antichi (2015) e ha poi pubblicato la ricca silloge Filosofi moderni (2017).

[22] Per un profilo complessivo del filosofo campano, cfr. innanzitutto G. F. Lami, Introduzione a Adriano Tilgher, Giuffré, Milano 1990 e R. Faraone, Adriano Tilgher: tra idealismo e filosofie della vita, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015.

[23] Ristampato anche ultimamente, con una prefazione di G. Turi, dalle Edizioni di Storia e Letteratura (Roma, 2017).

[24] Numerosi sono i punti di contatto tra La filosofia di Leopardi e le pagine leopardiane di Rensi, anche se, d’altra parte, l’interpretazione di Tilgher si discosta da quella del filosofo veneto per alcuni aspetti non del tutto marginali (il Leopardi di Rensi è più radicalmente pessimista di quello di Tilgher). Inoltre a differenza di Rensi, che aveva affidato la sua riflessione su Leopardi a una serie di saggi e frammenti sparsi, Tilgher fornisce con il suo volume un contributo più compatto e organico. Tant’è che lo stesso Rensi in un suo intervento su Schopenhauer avrebbe riconosciuto i meriti di Tilgher, definendo La filosofia di Leopardi un «bel libro […], dove essa filosofia è messa in luce in una linea limpidissima» (G. Rensi, Modernità di Schopenhauer, «Minerva», 28 febbraio 1941, p. 74).

[25] Tesi sottoscritta anche da Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna 1985, p. 112.

[26] Tra gli ultimi saggi usciti sull’argomento, cfr. almeno F. D’Intino, L’immagine della voce: Leopardi, Platone e il libro morale, Marsilio, Venezia 2009, e M. Natale, Il canto delle idee. Leopardi tra «Pensiero dominante» e «Aspasia», presentazione di A. Folin, con una nota di G. Lonardi, Marsilio, Venezia 2009.

[27] Gli studi su Leopardi in chiave nichilistica non possono infatti prescindere da un confronto con Tilgher (si veda ora l’ampia ricognizione di L. Capitano, Leopardi. L’alba del nichilismo, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2016, in cui il nome di Tilgher ricorre varie volte).

 fonte: Le parole e le cose

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Leopardi è stato il filosofo più grande, altro che Nietzsche: dialogo leopardiano con Raoul Bruni

Origlio banalità. Chiunque sfiori lo Zibaldone di pensieri di Leopardi resta folgorato da quei pensieri salini, dall’intemperante sagacia di quegli appunti, che clamorosa ‘doccia fredda’, che messa in crisi di saltuari, saturi pregiudizi. Di fronte a questi pensieri, veridici non per verità – che è la verità? – ma per rischio – la sola verità è avventarsi – se ne risorge con la testa che rotea galassie: “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male… non c’è altro bene che il non essere”. Leopardi non è ‘pessimista’ – comodo cingerlo nel tutù di un aggettivo – ma torchia ogni pensiero fino al limite possibile, coltiva la contraddizione, frantuma: “Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perché avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell’altre”. Leopardi è stato – con Nietzsche, con Dostoevskij – tra i filosofi inarrivabili, alieni all’accademismo, che hanno squarciato il velo dell’Ottocento portandoci nel millennio a venire. Ciò che oggi, tuttavia, è ovvio – fino a un certo lato, dacché Leopardi resta sempre il poeta dell’Infinito, sublime, ma disinnescato, la scuola fa di tutto per addomesticarne la potenza lavica – non lo era qualche decennio fa. Merito di Raoul Bruni, che insegna all’Università Cardinale Wyszyński di Varsavia, aver fatto riscoprire e ripubblicare – sia lode all’editore Aragno – due autori fondamentali nello studio del Leopardi poeta. Intanto, Giuseppe Rensi (1871-1941), filosofo, antifascista, autore dei Lineamenti di filosofia scettica e della Filosofia dell’assurdo, che già nel 1906, sul quotidiano svizzero ‘L’Azione’, scrive che “se Leopardi fosse stato unicamente filosofo e avesse dedicato la sua intelligenza all’elaborazione d’un sistema, il pensiero italiano avrebbe avuto, prima e meglio di quello germanico, Schopenhauer e Nietzsche armonizzati in una costruzione unica”. Bruni raccoglie i testi di Rensi Su Leopardi, a volte sorprendenti (La filosofia del diritto del Leopardi, ad esempio, dove si conclude che “solo la coazione, e non l’immaginario fatto che la volontà della legge sia anche la volontà dell’individuo, può riuscire a costituire la società”). D’altro canto, La filosofia di Leopardi di Adriano Tilgher (1887-1941), formidabile polemista – per Gobetti pubblicò Lo Spaccio del Bestione trionfante, il virale pamphlet contro Giovanni Gentile – elzevirista, saggista, è uno strumento da imporre ai prof, ai leopardofili, ai buoni lettori. Per temi – ‘Il Dovere’, ‘L’Amore’, ‘La Noia’, ‘La Teologia Negativa’, ‘Antistoricismo’… – infatti, Tilgher sviscera il pensiero di Leopardi, con rapacità retorica, è leggibilissimo e senza fronzoli accademici (“La noia è una passione. Anzi è la passione. La noia, si potrebbe dire parafrasando Leopardi, è la passione fondamentale della vita rimasta sola quando nessun’altra passione… occupa l’anima”). Due libri fondamentali sul pensatore fondamentale: troppo miele mi fa svanire, così, contatto Bruni. (d.b.)

Provo a fare una sintesi dei suoi lavori. Recupera l’opera di due misconosciuti – meglio, troppo poco noti – Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi, che approfondiscono un aspetto troppo poco noto di Leopardi, la potenza filosofica, per altro con genio lungimirante. Viene da dire: le piace indagare nelle oscurità, nel non convenzionale… è così?

Devo dire che mi ritrovo in questa formulazione. Sono sempre stato attratto dagli autori e dai pensatori eccentrici, confinati ai margini dei canoni accademici e scolastici; oppure, quando mi sono occupato di un grande classico come Leopardi, ho sempre cercato di approfondire versanti della sua opera ancora poco indagati. Credo che nell’ambito della cultura filosofica italiana del Novecento, specie della prima metà del secolo, ci sia ancora molto da scoprire. Giuseppe Rensi e Adriano Tilgher sono due casi esemplari: due autori semidimenticati, pressoché ignorati dai manuali di filosofia, che, invece, si leggono ancora oggi con straordinario interesse. Tanto per la limpidezza del loro stile (non contaminato dagli specialismi accademici), quanto per l’attualità e la pregnanza della loro riflessione filosofica. La loro precocissima attenzione per il Leopardi pensatore è, in questo senso, emblematica. Di solito quando si pensa alla filosofia di Leopardi si cita subito Emanuele Severino, il cui primo libro su Leopardi è del 1990, ma ci si dimentica che Rensi, fin dal 1906, riconobbe la grandezza filosofica di Leopardi, mettendolo sullo stesso piano di Schopenhauer e Nietzsche. Se, poi, si aggiunge che, nel primo Novecento, la cultura ufficiale di stampo idealistico negò all’opera di Leopardi ogni valore speculativo, la pionieristica interpretazione leopardiana di Rensi ci appare in tutta la sua luminosa originalità. Ancora meno noto di Rensi è Adriano Tilgher, di cui oggi sono disponibili pochissime opere (mi piace qui ricordare le sillogi Filosofi antichi e Filosofi moderni, pubblicate dalla raffinata casa editrice Atlantide per impulso di Simone Caltabellota). La filosofia di Leopardi di Tilgher, uscito 1940, ben sette anni prima del fortunatissimo saggio di Cesare Luporini Leopardi progressivo, è uno dei primi e dei migliori contributi organici pubblicati sul pensiero leopardiano. Chi si occupa del pensiero di Leopardi, ne può trarre ancora oggi spunti preziosi, e in ogni caso non può ignorarlo.

Leopardi. Che lettura ‘nuova’ danno Tilgher da una parte e Rensi dall’altra di Leopardi? E perché, poi – penso a Tilgher soprattutto – certe intuizioni, chiarificatrici, sull’opera di Leopardi non sono state prese in giusta considerazione?

Già il fatto che Rensi e Tilgher riconoscano a Leopardi un intrinseco valore filosofico rappresentò, come ricordavo, una notevole novità nel contesto culturale primo-novecentesco. La cultura idealistica non riconobbe valore filosofico a Leopardi perché considerava il suo pensiero troppo rapsodico, e dunque asistematico. Al contrario, Rensi vide nella frammentarietà dello Zibaldone un sintomo di modernità: per Rensi, Leopardi fu un grande frammentista, al pari di Nietzsche. Oggi il parallelismo Leopardi-Nietzsche è diventato quasi un luogo comune della critica, ma allora era assolutamente inedito. Un altro grande merito di Rensi risiede nel fatto che egli fu tra i primi a leggere Leopardi come filosofo politico, dedicando per esempio grande attenzione alle fondamentali riflessioni zibaldoniane sulla cosiddetta «società stretta» e sulle aporie del vivere sociale; infine occorre ricordare che Rensi definisce quella di Leopardi una «poesia di concetti», anticipando, per certi aspetti, la famosa formula del «pensiero poetante» che intitolava un importante saggio di Antonio Prete. Rispetto a Rensi (di cui condivide molti presupposti: i due, del resto, furono molto amici), Tilgher analizza l’opera leopardiana, e in particolare lo Zibaldone, in modo più organico, dedicando ai più importanti motivi della riflessione leopardiana (dal piacere alla noia, dalle illusioni alla compassione) altrettanti capitoli. Gli elementi di novità rinvenibili nella Filosofia di Leopardi sono molti: penso ad esempio al capitolo sul materialismo leopardiano, alla analisi del contrasto tra civiltà e barbarie, alle considerazioni sulla singolare “religiosità” leopardiana. Ma anche la tesi di Sergio Solmi che parlò a proposito dello Zibaldone di «pensiero in movimento» è, in certo modo, anticipata da Tilgher. Eppure, nonostante queste intuizioni, lo studio di Tilgher è stato a lungo sottovalutato dalla critica leopardiana. Le ragioni sono molteplici: innanzitutto durante gli anni in cui la linea critica di gran lunga dominante era quella di ascendenza marxista (ho già fatto riferimento al Leopardi progressivo Luporini) si vedevano con sospetto le pagine di Tilgher sull’antiprogressismo e l’antirazionalismo di Leopardi; e poi, più in generale, non si poteva perdonare a Tilgher (come del resto a Rensi) lo stile anti-accademico, poco rispettoso del bon-ton universitario.

Lo Zibaldone appare, sempre più, come il monolite filosofico più importante del pensiero italiano, con tutte le sue – modernissime – contraddizioni: è d’accordo? Verrebbe da dire che la filosofia, nello specifico italiano – penso, ovviamente, a Dante, Manzoni, Leopardi, ma anche a Montale, a Luzi – sia stimolo lirico.

Sono sicuramente d’accordo. Lo Zibaldone (di cui è stata recentemente pubblicata anche una traduzione integrale in lingua inglese) ci appare sempre di più come il documento fondamentale del pensiero italiano moderno. D’altra parte, come sappiamo, Leopardi affidò il suo pensiero anche ai versi, e i Canti sono un esempio insuperato di “poesia pensante”. Se una possibile linea filosofica della tradizione poetica italiana si può far risalire già a Dante; è soprattutto da Leopardi in poi che la grande poesia italiana (in sintonia con la lirica europea post-romantica) sarà, quasi sempre, anche una poesia filosofica. Perché il valore filosofico di Leopardi venisse pienamente riconosciuto si è dovuto aspettare moltissimo tempo; e ho l’impressione che le venature filosofiche della grande poesia italiana del Novecento siano ancora scarsamente indagate. A questo proposito bisogna ricordare che Montale fu un attento lettore di Rensi, e tracce della lettura di Rensi si possono trovare anche nei suoi versi, a cominciare dagli Ossi di seppia (ai poeti citati aggiungerei almeno il nome di Caproni, anche lui lettore di Rensi). Insomma, credo che sul pensiero della poesia italiana del Novecento ci sia ancora molto da scrivere.

Qual è a suo avviso l’aspetto necessario, più cocente della ‘filosofia’ di Leopardi (posto che si possa dir così)?

Difficile indicare un solo aspetto di un pensiero che, nello Zibaldone, tocca con ambizione enciclopedica una miriade di temi. Posso però dire che nessun autore moderno come Leopardi ci aiuta a comprendere il mondo contemporaneo in tutti i suoi aspetti. E credo che anche per comprendere il futuro che si sta preparando non si potrà prescindere da Leopardi.

- Pubblicato su Pangea il 9 ottobre 2018 -

fonte: Pangea

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