Se i Minima moralia sono il capolavoro dell'Adorno aforista, questo libro lo è dell'Adorno saggista, sia che egli schizzi a grandi tratti il significato sociale di un fenomeno come il jazz, sia che analizzi puntigliosamente, sul testo del carteggio tra George e Hofmannsthal, le contraddizioni e le aporie di un intero ambito culturale attraverso le grandezze e le miserie dei suoi protagonisti.
In questo volume Adorno raccolse i migliori saggi di quella che fu la sua stagione piú felice: gli anni della Seconda guerra mondiale e dell'immediato dopoguerra. Al centro sta il discorso sulla «crisi della civiltà», e l'indagine sulla validità di questo discorso, di cui Adorno accetta i fermenti negativi e rifiuta le soluzioni nostalgiche o disfattiste. Il saggio iniziale sulla critica della cultura, quelli finissimi su Spengler, Veblen, Huxley e la stroncatura della sociologia del sapere di Mannheim si leggono come critiche definitive di quei prototipi del pensiero conservatore di cui la cosiddetta cultura di destra ripeteva straccamente i motivi. Ma questa tematica di fondo si rifrange nei «prismi» lumeggiando, oltre alla sociologia, anche gli altri campi in cui Adorno era maestro: filosofia, musica, letteratura. È anzi qui che emergono le figure a lui piú care: quelle di coloro - Schönberg, Benjamin, Kafka - che seppero fissare il volto della Medusa senza abdicare alla ragione, e misurare fino in fondo l'abisso per affermare l'esigenza dell'utopia.
(dal risvolto di coperina di: Theodor W. Adorno: Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi)
Adorno, all'Occidente serve più cultura critica
- di Vincenzo Rosito -
Assuefatti all’idea che si debba 'fare' o tutt’al più 'promuovere' la cultura, ci siamo disabituati all’idea che la si possa 'criticare'. Tanto la cultura cosiddetta 'alta', quella dei filosofi, dei musicisti e dei letterati, quanto la cultura che è sinonimo di civiltà, chiede di essere criticata per amore di ciò che essa intende ancora rappresentare. Merita un saluto speciale la nuova edizione italiana di Prismi. Saggi sulla critica della cultura di Theodor W. Adorno (Einaudi, pagine 300, euro 25). Pubblicato in Germania nel 1955 dall’editore Suhrkamp, il volume favorì la conoscenza dell’autore da poco rientrato a Francoforte dagli Stati Uniti, dove aveva soggiornato durante la guerra. Dando alle stampe Prismi, Adorno raccolse diversi saggi da lui precedentemente scritti e pubblicati in un arco temporale che va dal 1937 ai primi anni Cinquanta. Anche solo sfogliando l’indice del volume ci si accorge di quanto siano numerosi e variegati i riferimenti della critica culturale adorniana: l’acume del filosofo e la finezza del critico musicale instaurano tensioni inedite tra il pensiero di Oswald Spengler e la 'moda senza tempo' del jazz. Affiora in questo modo la duttilità poliedrica di Adorno: il solo, nel panorama filosofico novecentesco, in grado di dischiudere l’incisività teologica dei romanzi kafkiani insieme al materialismo onirico dello scrittore praghese. Adorno inoltre si espone con discrezione e pudore quando, tracciando uno dei profili più commoventi di Walter Benjamin, così parla del filosofo e dell’uomo: «La rassegnazione era radicalmente bandita dalla sua topografia filosofica. Chi entrava in consonanza con lui si sentiva come un bambino che scorga attraverso le fessure della porta chiusa la luce dell’albero di natale». Prismi non è soltanto una raccolta di saggi filosofici su alcune tra le figure più rappresentative della cultura occidentale, ma un complesso e appassionato esercizio di critica della cultura occidentale. Questa infatti non si erge agli occhi del filosofo francofortese come un monumento da contemplare o un deposito denso e compatto di 'manufatti' artistici. La cultura reca e denuncia il marchio della contraddizione, rivela tendenze oppositive, porta con sé il peso inquieto dell’incongruenza.
Per questo il critico della cultura deve ricorrere necessariamente agli strumenti della dialettica. Esattamente come fa Adorno quando smaschera la natura ancipite e ambivalente della cultura, quando rivela e dimostra come questa trascenda la vita ordinaria e al tempo stesso la riproduca. Qui riposa l’inquietudine di chi non si limita a 'fare' o 'diffondere' cultura, dal momento che ha a cuore la critica delle forme e dei processi culturali. È compito della critica infatti sostare nelle fessure della cultura per denunciarne le antinomie di cui essa stessa si alimenta. L’elaborazione filosofica, artistica e letteraria apre all’alterità dell’utopia, favorisce visioni e processi alternativi rispetto alle opposizioni della vita ordinaria, allo stesso tempo però l’industria culturale, così come l’omologazione delle tendenze e delle mode, perpetua l’asservimento dei soggetti alla riproduzione cieca dell’alienazione e dell’ingiustizia.
Scrive Adorno nel saggio dedicato ad Aldous Huxley e l’utopia: «La lotta contro la civiltà di massa può consistere soltanto nella dimostrazione del legame fra questa e la perpetuazione dell’ingiustizia sociale. Non critichiamo la civiltà di massa perché essa dia troppo agli uomini o renda troppo sicura la vita, ma perché essa aiuta a far sì che gli uomini ricevano troppo poco e cose troppo cattive, che interi strati vivano in una miseria interiore ed esterna spaventosa, che gli uomini si adattino all’ingiustizia». In cerca di equilibrio, arroccate su questo crinale dialettico, critica della cultura ( Kulturkritik) e società ( Gesellschaft) si fronteggiano allestendo una tensione polare. La stessa tensione da cui scaturiscono e in cui ricadono anche le creazioni artistiche, dal momento che non sono per Adorno «né immagini riflesse dell’anima, né personificazioni di idee platoniche, bensì 'campi di forze' fra soggetto e oggetto ».
Quando questa tensione viene occultata o rimossa, quando l’opera d’arte si stacca illusoriamente dal vissuto concreto e contraddittorio di chi l’ha generata, allora la cultura diventa sterile e autoreferenziale. La critica della cultura è per Adorno prima di tutto critica della “cultura in sé”, smascheramento di tutte le forme artistiche ed espressive che si presentano come un 'tutto' separato e autosufficiente. Se la cultura ha come oggetto di interesse nient’altro che essa stessa, allora diventa un feticcio facilmente spendibile sull’altare dei mercati. Con impressionante lungimiranza Adorno mise in guardia dal pericolo che la cultura si coagulasse in “beni culturali” o si rapprendesse sterilmente nell’abominevole razionalizzazione filosofica dei 'valori culturali'. Dalle derive autoreferenziali di una cultura “spendibile” discende l’attuale tendenza alla patrimonializzazione delle opere artistiche e architettoniche.
Finanche il paesaggio e le culture immateriali, imbevute ancora di gesti sapienti e di fatiche viventi, gareggiano per vedersi riconoscere un titolo economicistico e fatturabile come quello di “patrimonio dell’umanità”. Occorre 'volgere in processo' anche le opere artistiche. È oltremodo necessario parlare di una svolta della processualità anche nel mondo del cultura. La stessa esperienza creativa ed estetica rischia altrimenti di decadere per farsi mera riproduzione anestetica. Tutte le espressioni culturali non custodiscono semplicemente una storia sedimentata, ma sono esse stesse storia di conflitti e di contraddizioni perennemente in atto. La cultura non è mai appagata o appagante perché reca lo stigma della sofferenza di chi ne è parte, la cultura è espressione di conflitti oggettivi, di processi in corso e di desideri offesi. L’uomo rischia il condizionamento delle facoltà sensibili e intellettuali, il «livellamento meccanico» della percezione estetica. Se la cultura non torna a trasudare processualità e vita, gli uomini si rassegneranno ad amare «ciò che debbono fare, senza neanche più sapere di rassegnarsi».
- Vincenzo Rosito - Pubblicato il 21 aprile 2018 -
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