Il Macchinario della Nuova Destra
- di Andrea Cavalletti -
1. Qualora non credessimo, o non fossimo interessati a credere, in quella che è un'autodefinizione tecnica, potremmo credere veramente all'esistenza di una “Nuova Destra”? E questo aggettivo, "nuovo", può essere applicabile a una fazione che, ad ogni costo e con ogni mezzo, ha sempre lavorato solo per conservare e salvaguardare le condizioni di dominio e di sfruttamento? Qualunque sia la risposta, il rischio rimane quello di continuare a ricadere nell'abitudine (un vizio antico, appunto) di cercare sempre dei fenomeni "nuovi" da capire, ossia di credere nel mito della novità (termine positivo), la quale sostituisce necessariamente tutto ciò che è stato scritto e trasmesso (termine negativo: il non nuovo). Questo mito si basa sulla linearità del progresso, e quindi sul presupposto secondo cui il vecchio fenomeno sarebbe quello che è stato già compreso; mentre invece quello nuovo diventa l'inconsueto, ovvero, ciò che dobbiamo capire. In altre parole, ci viene chiesto di comprendere un cambiamento: una novità della quale, però, supponiamo di conoscere già quali sono le condizioni. Ovviamente, una simile concezione della novità è paradossale, ma la sua ragion d'essere risiede proprio in quella forza dell'abitudine che nasconde l'evidenza. In realtà, l'idea stessa che ci sia sempre qualcosa di nuovo non è altro che l'affermazione secondo cui gli eventi seguono sempre il medesimo ordine, vale a dire, la pretesa di introdurre il consueto nell'insolito, lo stabile nell'instabile: si tratta sempre della stessa vecchia idea, la quale parla di un impulso al rinnovamento, e che rimane sempre la stessa. Riguardo ciò che oggi è il nostro problema, questa idea rappresenta l'altra faccia della concezione del fascismo, quella che lo vede come "fenomeno eterno": una definizione forse non incongrua, ma che va maneggiata con grande cautela e cura, poiché è proprio il fascismo (sia esso "vecchio" o "nuovo") che, per mezzo della particella "UR-", ne definisce i suoi concetti. Negli anni '70, quando il fascismo italiano (la cui continuità era rappresentata in parlamento dal Movimento Sociale Italiano) si impose sulla scena politica come se fosse qualcosa di nuovo, vale a dire, come "neofascismo", il mitologo Furio Jesi, nel suo libro "Cultura di destra", descrisse quello che è «l'elemento più caratteristico e diffuso della cultura di destra», definendolo come un «vero e proprio immobilismo cadaverico che pretende di essere una perenne forza vitale». Citando l'espressione di Oswald Spengler, «idee senza parole», Jesi descriveva l'ideologia di destra come una «macchina linguistica, o mitologica» che funziona diffondendo una fitta rete di cliché, stereotipi, luoghi comuni, formule che appaiono chiare proprio perché non hanno bisogno di essere compresi. Ecco che questo modo, ogni parola si riduce a essere un semplice intermediario di quello che precede tutte le parole, come se ognuna di esse alludesse a qualcosa, e che però non dovrebbe essere detto, un segreto che da sempre è stato condiviso dai soggetti e che, pertanto, li definisce in quanto appartenenti a un gruppo specifico. La macchina mitologica allude sempre a un mito, a qualcosa che risale al passato più remoto (identità, patria, origine, sangue e suolo). In altre parole, ci offre dei resoconti del mito (mitologie) che si riferiscono al mito, e allo stesso tempo lo nascondono. La macchina ci restituisce le mitologie di cui è fatta la sua superficie, mentre che allo stesso tempo allude alla presenza non verificabile del mito al suo interno. Per certi aspetti, questo modello linguistico e cognitivo ricorda la famosa descrizione che ci ha dato Foucault del dispositivo disciplinare del Panopticon, dove la presenza non verificabile del guardiano al centro della torre fa sì che i prigionieri si sentano sempre osservati. In maniera analoga, ai fini del funzionamento della macchina mitologica, non è essenziale che l'esistenza del suo contenuto sia certa: ciò che viene richiesto, è che semplicemente una tale esistenza sia possibile, ossia non verificabile. E se nel modello di Bentham la condizione coercitiva esclude tassativamente la possibilità di non credere alla presenza del guardiano, nel caso della macchina, cioè in assenza di coercizione, credere o non credere nell'esistenza del mito non è propriamente un'alternativa. La piena efficienza della macchina coincide con la sua totale indifferenza alle dicotomie vero/falso, credenza/incredulità. Ciò che dichiara di sostenere bisogna che sia semplicemente credibile, non vero in modo assoluto, ma possibilmente verosimile o plausibile. Ad esempio, quando si tratta di razzismo antisemita: coloro i quali credono nei Protocolli dei Savi di Sion, non si preoccupano troppo della loro autenticità. La cospirazione non dev'essere un fatto comprovato, ma basta che essa sia semplicemente una possibilità. Pertanto, la macchina non opera sul piano della menzogna politica, e dell'azione politica che richiede la menzogna: essa funziona a livello di chiacchiere e dicerie, che, per così dire, agiscono sulle azioni e le influenzano. E per quanto arrivi sempre “il punto, superato il quale mentire diventa controproducente”, e alla fine “il tentativo di sbarazzarsi dei fatti ” [*1] si dimostra fallimentare; c'è da dire che la macchina mitologica, tuttavia, non incorre in questi rischi. . Di conseguenza, la cultura di destra è per definizione una cultura complottista. Nelle parole di Jesi, si tratta della cultura, o della lingua, formata da quelle che sono idee senza parole, ossia formata solo da parole allusive, parole con la lettera maiuscola: Nazione, Famiglia... ma anche: Libertà, Rivoluzione [*2]. Come spiega Jesi: «la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale della destra [...] È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano» [*3]. Le mitologie possono cambiare e rinnovarsi, ma la macchina continua a funzionare per conto suo. Per essere più precisi (e anche un po' ripetitivi), ciò che nasconde il centro immobile - quello che allude all'origine, al passato molto remoto o non verificabile - è proprio la novità.. Inoltre, la macchina può essere paragonata al Panopticon, dal momento che essa rappresenta l'uovo di Colombo, secondo quello che Karl Kerényi chiamava la "tecnicizzazione del mito". Realizza, in modo automatico e con la massima efficienza, la produzione e lo sfruttamento di mitologie, per scopi politici. Ora, come sappiamo, le mitologie politiche sono state prodotte per influenzare le masse: il funzionamento della macchina mitologica non costituisce altro che la produzione della "massa" stessa. Potremmo dire che la macchina mitologica produce – o aiuta a produrre – l'uomo-massa, e potremmo anche definirla come un dispositivo di soggettivazione in grado di operare su larga scala. In tal senso, l'ideologia di destra è sempre vecchia e allo stesso tempo sempre nuova, poiché le mitologie si rinnovano e si modificano quando necessario, a seconda che si collochino nel polo positivo o in quello negativo di questo instancabile dispositivo: mitologie del benessere o della sicurezza, mitologie della libertà di espressione, mitologie del Credito o del Debito illimitato, la mitologia degli immigrati che «stanno avvelenando il sangue del paese», la mitologia della Grande Sostituzione e quella dello Stile di Vita Americano, la mitologia della Famiglia Cristiana Eterosessuale e quella dell'Eredità Ariana...
2. Che cos'è una massa, cioè, il prodotto e, allo stesso tempo, il soggetto agente della macchina mitologica? Nel 1936, Walter Benjamin descriveva le masse come la piccola borghesia, la cui essenza è puramente psicologica... «la massa, concepita come un'entità impenetrabile e compatta, la massa, di cui Le Bon e altri hanno fatto l'oggetto della loro "psicologia di massa", è quella della piccola borghesia. La piccola borghesia non è una classe; infatti, in realtà, si tratta solo di una massa. E quanto maggiore è la pressione che su di essa esercitano le due classi antagoniste [in mezzo a cui essa si trova] – la borghesia e il proletariato – tanto più essa diventa compatta. In tale massa, l'elemento emotivo descritto nella psicologia delle folle costituisce un fattore determinante» [*4]. Questa non-classe, questa massa compatta, o massa in quanto tale, questo "sociologico scherzo della natura", è costituita dalla moltitudine di consumatori che sono stati radunati dal mercato capitalistico, la cui aggregazione casuale, segnata dagli antagonismi reciproci, diventa per i soggetti stessi semplicemente perturbante: «In questa masse, infatti, l'elemento emozionale descritto nella psicologia delle masse è un fattore determinante - sia che esse diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, o all'odio per gli ebrei, o all'istinto di autoconservazione» [*5]. Ma questa disturbante vicinanza tra individui estranei l'un l'altro può venire da loro razionalizzata e vista come un «"destino" nel quale la "razza" si trova riunita» (Benjamin), o, potremmo persino dire, come identità, o come identità del "Popolo". Le forze disgregatrici interne, vengono perciò rivolte contro lo straniero, il quale viene anche percepito come se fosse «il nemico nascosto in mezzo a noi». A questo punto, tornando al modello di Jesi, potremmo dire che la macchina mitologica funziona come uno strumento in grado di produrre e dirigere queste forze. La loro origine attiva risiede nella difficile, o impossibile, integrazione dell'individuo nella collettività, vale a dire, in quel sentimento di reciproca aggressività esistente tra consumatori, la quale non può e non deve essere placata, ma va piuttosto sfruttata e indirizzata verso un obiettivo che la macchina è sempre in grado di produrre. A dirigersi contro questo nemico, è una massa, una semplice moltitudine, la quale si definisce comunque popolo, presumendo così di avere una sola volontà. Tuttavia – e ancora una volta a rischio di essere ripetitivi e scontati – bisogna essere chiari: la massa in quanto tale non è un fenomeno naturale, ma è un prodotto storicamente caratterizzato. È la massa degli individui consumatori, isolati, egoisti, in competizione tra loro, ma uniti nello spazio del mercato capitalistico. La massa che razionalizza una simile condizione e che riconosce sé stessa in quanto "il popolo" è di conseguenza il risultato di un'ulteriore manipolazione. Quest'opera di fabbricazione viene portata avanti, e controllata, per mezzo di proiezioni mitologiche (e attraverso una prassi coerente fatta di intimidazione e di persuasione) dall'apparato statale: "il popolo", in realtà, non è altro che il soggetto della sovranità statale. Del resto, una perfetta trasformazione della massa in un popolo non potrà mai essere ottenuta, e ciò perché il mercato ha sempre bisogno di clienti, e il carattere antagonistico e competitivo di tutti questi clienti contraddice il carattere unitario de "il popolo". Il conflitto interno alla moltitudine (ovvero la competizione reciproca dei singoli soggetti messi insieme grazie al mercato capitalista) corrisponde così alla tensione continuamente irrisolta tra "massa" e "popolo". In altre parole, si tratta della tendenza contraddittoria in una moltitudine di individui che considerano oppressivo e illiberale proprio l'apparato stesso che dovrebbe costituirli in quanto "popolo", vale a dire, come quell'unità organizzata che essi affermano di essere (anche quando protestano).
3. La massa – o la folla – è un essere diviso, ed è - come è stato notato molte volte - anche un essere effimero («un raggio di sole lo aggrega; un acquazzone la disperde», scriveva Gabriel Tarde, ed Elias Canetti gli farà eco: «la pioggia è la massa nell’istante della scarica, e della massa simboleggia pure il dissolvimento») [*6]: ma è scissa, perché la sua natura effimera dipende proprio dalla sua pretesa di essere duratura. L'economia di mercato capitalistica, con la sua sovrastruttura statale, è l'apriori storico della sua peculiare, instabile o "asociale socievolezza". Pertanto, anche in questo dobbiamo riconoscere la classica contrapposizione, evidenziata da Hobbes, tra il popolo e la moltitudine («la moltitudine contro il popolo»). Come si legge nel De Cive (XII, 8): «Il popolo è qualcosa che è uno, che ha una sola volontà, e al quale si può attribuire un'unica azione; niente di tutto questo può dirsi propriamente di una moltitudine. Il popolo governa in tutti i regimi. Perché anche nelle monarchie governa il popolo, poiché il popolo vuole per volontà di un solo uomo; ma la moltitudine sono i cittadini, cioè i sudditi. In una democrazia e in un'aristocrazia, i cittadini sono la moltitudine, ma la corte è il popolo. E in una monarchia, i sudditi sono la moltitudine, e (per quanto paradossale possa sembrare) il re è il popolo. Il volgo e coloro che poco riflettono su queste verità parlano sempre di un gran numero di uomini come se fossero il popolo, cioè la città; Dicono che la città si è ribellata contro il re (il che è impossibile), e che il popolo vuole o non vuole ciò che i sudditi mormoranti e scontenti vorrebbero o non vorrebbero, con il pretesto che il popolo incita i cittadini contro la città, cioè la folla contro il popolo» [*7]. Abbiamo già citato la famosa formula di Kant. Ma ora dobbiamo anche ricordare le parole scritte da Carl Schmitt, proprio a proposito della teoria di Hobbes e del passaggio dalla moltitudine (cioè lo stato di natura o la guerra di tutti contro tutti) al popolo (cioè lo stato civile): «Gli uomini che si uniscono in angosciosa inimicizia non possono vincere l'inimicizia, la quale è la premessa della loro unione» [*8]. Inoltre, non possiamo dimenticare che l'opposizione hobbesiana è stata descritta molte volte anche nel gergo dei sociologi politici. Con riferimento alla democrazia moderna e alla psicologia di massa di Le Bon, questo è stato brillantemente espresso da Theodor Geiger: «La democrazia non è affatto il governo dei molti (oclocrazia), bensì il governo dei tutti [...]. Quando Le Bon parla contemporaneamente del "potere della democrazia" e del "potere della folla", non fa altro che confondere demos e plethos (ochlos), democrazia e popolo. Nella sua struttura intellettuale, la democrazia appare essere particolarmente instabile; un'oligarchia non può svilupparsi interamente sotto forme democratiche [...], né un'oclocrazia può emergere da essa senza intaccare le forme democratiche. Nella democrazia reale, che è estremamente rara, non ci sono ochlos. Questi appaiono solo quando la democrazia, a causa del problema del leader, inizia a fallire. In una democrazia, il tutto è portatore di una politica pianificata, organizzata e legale. La politica della strada è una politica del risentimento, i cui soggetti sono i polloi, una politica la cui caratteristica essenziale è proprio il rifiuto della politica legale e costituzionale. […] E la sensazione che ogni legame debba diventare schiavitù, a un certo punto porta alla negazione del vincolo cosciente, del sistema legale in generale. Tutte le masse sono anarchiche. Nello spirito di Tönnies, potremmo dire: è il ritorno alla volontà di coloro che disperano dell'ordine arbitrario; e l'ovvio paradosso di questa volontà è la tragedia sociologica delle masse» [*9]. Se, come è stato osservato, la trasformazione completa della massa in popolo è irraggiungibile, espressioni come "paradosso" o "tragedia sociologica" descrivono, secondo lo stesso schema logico, una situazione di stallo irrisolvibile. In realtà, ci troviamo di fronte a due facce della stessa medaglia: la voce del popolo non sarà mai un mormorio sedizioso, proprio perché la massa non formerà mai un'unità, perché una moltitudine di individui riuniti non avrà mai, in ultima analisi, una sola voce. Pertanto, il "popolo", come concetto efficiente all'interno della logica dello Stato, esiste paradossalmente in quanto la moltitudine non sarà mai un popolo. È quindi perfettamente logico e necessario che, dal punto di vista del capitalismo, una delle risposte a questa situazione sia l'anarco-capitalismo individualista. Il fatto che questa ideologia reagisca alla realizzazione, da parte delle masse, del loro tragico paradosso è dimostrato da quella che è la sua prima affermazione lamentosa: «Lo Stato non è "noi"» [*10]. Quando l'affermazione fondamentale dell'anarchismo («lo Stato è quell'organizzazione nella società che cerca di mantenere il monopolio dell'uso della forza e della violenza in una determinata area territoriale» [*11]) viene associata alla precisazione secondo cui «lo Stato vive necessariamente della confisca forzata del capitale privato, ed [...] è profondamente ed essenzialmente anticapitalista» [*12], appare evidente che né lo Stato né l'anarchia, ma il Capitale, è la vera fonte di questo mormorio che ora cerca di trasformare la propria debolezza in un punto di forza, la sua problematica dispersione in voci individuali discordanti, nella soluzione del suo problema. Naturalmente, questo trucco magico può avere solo un certo successo sul palcoscenico statale. D'altra parte, di fronte all'impossibilità di costituire soggetti reciprocamente antagonisti in un popolo, non si può che rispondere – come fece Schmitt – offrendo il mito dell'identità tra popolo e nemico: si potrebbe credere che questa risposta sia data in buona fede, dato che proviene da chi non può non credere nel popolo; tuttavia, essa è la risposta della controrivoluzione preventiva, vale a dire di coloro che, intimiditi o meno, confidano nella forza dell'apparato statale e devono salvaguardarlo a tutti i costi i due poli, la massa e il popolo; i quali non sono in realtà altro che i due poli funzionali (nella loro tensione più o meno latente) della macchina statale: è infatti che la capacità di governare all'interno del suo campo di tensione, a volte molto turbolento, ciò che dà senso al nome stesso di governo, o alla cosiddetta "arte di governare". I due estremi, storicamente caratterizzati e in collaborazione all'interno di questo sistema in costante oscillazione, sono: la prevalenza del demos, della democrazia organizzata e giuridica nel senso di Geiger; il prevalere della moltitudine, la follia disgregatrice delle masse, la quale tuttavia deve necessariamente assumere la forma dello Stato, questa volta totalitario. Quest'ultimo punto è una prova innegabile di qualcosa che era già evidente a Ortega y Gasset: «È piuttosto sconcertante sentire Mussolini proclamare, con esemplare petulanza, come se fosse una prodigiosa scoperta appena fatta in Italia, la formula: "Tutto per mano dello Stato; nulla al di fuori dello Stato; nulla contro lo Stato". Questo dovrebbe bastare a vedere nel fascismo un tipico movimento di uomini-massa. Mussolini ha trovato uno Stato mirabilmente costruito, non da lui, ma proprio dal quelle idee e da quelle forze contro cui sta combattendo: dalla democrazia liberale. Lui si limita solo a usarlo in maniera spregiudicata […] Attraverso e per mezzo dello Stato, una macchina anonima, le masse agiscono per sé stesse» [*13]. Una simile azione - veramente tipica delle masse - non nega in alcun modo la loro "tragedia", ma la conferma e la porta fino all'estremo. Così ora, ormai mitologicamente identificate con il popolo o con lo Stato, le masse, credendo in questo mito, non possono più fare altro che - in preda alla follia della guerra, in un impulso che è insieme distruttivo e autodistruttivo - rivoltarsi contro sé stesse.
4. Ora, si dirà che questo rapido schizzo mostra, nel migliore dei casi, solo quelli che sono alcuni aspetti del vecchio fenomeno novecentesco, ma che la nuova destra è qualcosa di ben diverso, così come è vero che, nei secoli, il capitalismo non rimane lo stesso. Diamo allora un'occhiata alle circostanze attuali. Più volte, è stato sottolineato come il liberalismo democratico si sgretoli, e che al suo posto stanno emergendo due nuove forme: da un lato, la democrazia illiberale, ossia la democrazia identitaria senza diritti (ad esempio, l'Ungheria di Orbán); dall'altro, il liberalismo globale antidemocratico (neoliberismo radicale europeo o americano). Come è stato osservato anche di recente e giustamente, a questa situazione non corrisponde una vera e propria dicotomia tra i due sistemi, quanto piuttosto un "equilibrio bipolare" [*14]. Da parte nostra, si può dedurre che questo equilibrio, pericolosamente teso fino al limite estremo del conflitto, è in realtà possibile solo all'interno del quadro costruito dalla stessa democrazia liberale democrazia liberale (uno sfondo che solo una situazione veramente dicotomica eliminerebbe dalla scena).Tuttavia, l'equilibrio bipolare viene mantenuto, ed esiste, anche all'interno dei due sistemi, i quali poi sperimentano anche delle influenze reciproche, confermando in un modo o nell'altro il vecchio paradosso delle masse: la democrazia senza diritti deve rafforzare le sue difese (autoritarie e poliziesche) contro le pressioni di una massa democratica latente; la democrazia illiberale, d'altra parte, non appare pacificata al suo interno, né lo sono le ultime vestigia delle democrazie liberali (basti pensare all'attuale minaccia neonazista in Germania). Walter Benjamin - marxista eterodosso - nel 1936 citava il vecchio e reazionario Le Bon. Seguendo la stessa logica, forse noi potremmo ancora ricordare Ortega y Gasset e il suo "señorito satisfecho"[giovane soddisfatto] [*15]. L'insoddisfazione è un lusso che il gentiluomo soddisfatto di sé può permettersi. Essa non è altro che il segno negativo nella scala della soddisfazione, che può anche arrivare (e non c'è contraddizione in questo) all'estremo della povertà vera e propria. La massa cronicamente insoddisfatta, che mormora contro lo Stato, è sempre e solo la massa-popolo, paradossalmente unita nel suo reciproco dissenso, e diretta, più o meno violentemente ed esplicitamente, contro i più deboli, contro gli ultimi della terra. Questo accade sia quando rivendica democraticamente i "suoi" diritti civili, o addirittura i diritti dell'individuo capitalista di fronte allo strapotere dello Stato, sia quando, al polo opposto, vota per partiti di estrema destra o scatena la propria violenza unendosi a dei gruppi fascisti. La massa piccolo-borghese dei clienti soddisfatti-insoddisfatti, alimentata dalla "cultura di destra", non sperimenterà mai una situazione di vera e propria contraddizione. Allo stesso tempo — e questo è il suo aspetto paradossale e persino tragico — deve a tutti i costi impedire che la contraddizione reale maturi. Per la folla di clienti insoddisfatti e insicuri che protestano o borbottano contro lo stato, le catene non potrebbero mai essere radicali. E le catene non saranno mai radicali finché la macchina alluderà a idee senza parole propagando mitologie contraddittorie, ma che proprio per questo sono in definitiva coerenti (Patria, Suolo, Tradizione, Identità... ma anche: Democrazia, Libertà, Diritti, Progresso...).
5. Oggi, i concetti di classe, di classe rivoluzionaria, di lotta di classe, che Benjamin opponeva alla moltitudine fascista, godono di ben poco credito. Ma l'errore sta nello sguardo, si potrebbe replicare che le “catene radicali” non possono e non devono apparire nella prospettiva dominante delle masse o della «piccola borghesia planetaria in cui si sono dissolte tutte le vecchie classi sociali» [*16]. Dall'altra parte, bisogna anche chiederci se il nostro quadro interpretativo sia utile, o del tutto inutile a comprendere il tema della "Nuova Destra"; o, piuttosto, della novità in quanto tale. Questa incapacità potrebbe, infatti, corrispondere a un condizionamento della macchina mitologica. Il rischio, da cui Jesi stesso ci metteva in guardia, è quello di prendere troppo sul serio il modello, e pertanto di esserne paradossalmente affascinati. Proviamo a tornare ancora una volta, da questo punto di vista, alle circostanze attuali e riferiamoci a un esempio tratto da notizie assai recenti. In un articolo pubblicato qualche settimana fa (sul numero di aprile di Le Monde diplomatique), il saggista franco-israeliano Marius Schattner ha riflettuto sulle parole che sono state usate da Benjamin Netanyahu dopo il 7 ottobre, e soprattutto sulla questione dii quale sia la loro reale ed effettiva novità. Come è noto, «in una conferenza stampa tenuta a Tel Aviv il 28 ottobre 2023, e in una lettera del 3 novembre indirizzata ai soldati dell'IDF, nella quale elogiava la loro "lotta contro gli assassini di Hamas"», il primo ministro israeliano ha citato il passaggio del Deuteronomio (25.17): «Ricordati di ciò che ti ha fatto Amalek». L'utilizzo di questa retorica corrisponde, ovviamente, al tentativo di voler affermare la novità, o meglio al carattere inedito del conflitto in corso, conferendogli una "patina religiosa". Ma è proprio contro questa pretesa, che Schattner ripristina i diritti del principio di realtà. Infatti - come egli stesso sottolinea - «questo linguaggio [...] precede la reazione alle atrocità di Hamas del 7 ottobre». Le autorità israeliane hanno usato questa retorica per diversi anni, «anche se meno apertamente»: durante l'operazione Piombo Fuso nel 2008-2009, il rabbino capo dell'IDF Avichai Rontzki ha esortato i soldati dell'"esercito di Dio" a non mostrare pietà per il nemico, invocando le guerre di conquista in Canaan, la Terra Promessa. E nel 2014, durante l'operazione Protective Edge a Gaza, il generale Ofer Winter [...] ha scritto in un dispaccio ufficiale: «La storia ci ha scelto per essere in prima linea nella lotta contro il nemico terrorista di Gaza, che abusa, bestemmia e maledice le forze [di difesa] del Dio di Israele». All'epoca, simili dichiarazioni, da parte di un alto ufficiale militare, causarono uno scandalo e ne interruppero la sua carriera nell'esercito [*17]. Sembra, allora, che la "novità" consista in questo: per dispiegarsi nel modo più flagrante, la retorica politico-religiosa deve trovare il suo momento opportuno. Questo momento è stato offerto dalla violenza senza precedenti dell'attentato del 7 ottobre, il quale ha anch'esso un carattere innegabilmente mitologico, opposto e allo stesso tempo corrispondente. Nella stessa pagina del giornale, Anne Waeles cita lo storico dell'ebraismo Amnon Raz-Krakotzkin, autore di "Exil et souveraineté", ricordando anche l'avvertimento di Gershom Scholem circa i pericoli e le ambiguità dell'ebraico moderno nel suo ruolo di lingua nazionale; Raz-Krakotzkin sottolinea come l'ideologia dei coloni di estrema destra (rappresentati oggi dall'ala religiosa ultranazionalista del governo israeliano) sia coerente con un atteggiamento politico a lungo termine, vale a dire con lo sfruttamento di quell'ebraismo che il sionismo ha portato avanti in funzione del suo messianismo secolare. La posizione dei coloni, scrive, «non è diversa da quella dei sionisti laici; l'hanno semplicemente portata alla sua logica conclusione» [*18].
6. A questo punto, per trarre una conclusione, riprendiamo il modello della "macchina mitologica" e proviamo a spostare lo sguardo dalla cronaca di oggi a quella di ieri. In un articolo del 1968, intitolato "Gli arabi e Israele. Sionismo politico e spirituale", Furio Jesi ha espresso la sua riluttanza circa la dipendenza del sionismo spirituale dallo Stato, visto come mezzo o percorso verso l'obiettivo spirituale di Sion. Esprimeva dubbi sul fatto che un tale cammino verso la meta spirituale della perfezione potesse fermarsi proprio nello Stato di Israele, il quale, come tutti gli Stati, era allora, e sarà sempre, fatalmente coinvolto in un complesso gioco di interessi politici. Oltre a ciò, Jesi criticava aspramente anche il sionismo politico che, estraneo alla religione, ne prendeva, e faceva propri, elementi di propaganda. Ha espresso la sua «… ripugnanza verso qualsiasi strumentalizzazione politica di miti o credenze religiose, [...] ripugnanza nei confronti del comportamento di uomini come David Ben-Gurion, studioso di testi biblici, ma notoriamente laicista, disposto – quando la ragione politica lo richiede – a indossare il mantello rituale e a pregare in pubblico» [*19]. Se la nostra preoccupazione per la retorica di Netanyahu, oggi assomiglia al sentimento di repulsione che Jesi ha provato quasi sessant'anni fa, ciò non è perché quella retorica sia vecchia, e non nuova. Se succede, è perché ieri come oggi la macchina funziona riferendo gli eventi storici attuali a un passato mitico, cioè trasformando il nemico di oggi in un "eterno nemico". Se questo accade, è perché ieri come oggi la macchina lavora riconducendo l'attualità storica a un passato mitico, vale a dire trasformando il nemico di oggi nel “nemico eterno”. In tal modo, essa proietta questo Ur-passato sull'attualità del presente al fine di fabbricarlo. Così facendo, ancora una volta, la cultura di destra - «una vera e propria immobilità cadaverica che pretende di essere una perenne forza viva» - non ha mai smesso di rigenerarsi. In altre parole, la macchina opera manipolando il tempo storico: continua a far apparire la novità, mettendola in relazione con un fenomeno eterno. Pertanto, è invincibile o indistruttibile? Porre questa domanda significa, in un certo senso, anche attivare il meccanismo, e quindi cedere efficacemente al suo potere di fascinazione. Invece, come ha sottolineato Jesi, «quel che è necessario distruggere, non sono le macchine, le quali si riformerebbero come fanno le teste dell'Idra, quanto piuttosto la situazione che rende le macchine reali e produttive. La possibilità di questa distruzione è esclusivamente politica...» [*20]. La risposta alla domanda in che cosa consista la novità della destra, e a quella sui problemi e i pericoli della nuova destra, consiste nel porre la questione della distruzione. Ogni e qualsiasi distruzione, che però rimane interna al funzionamento della macchina, è di fatto condannata al fallimento, all'inanità, al risentimento o al sacrificio di sé e degli altri (febbre della guerra, odio per gli “stranieri” e così via). È tuttavia possibile non rimanere sopresi dalla presenza di residui della cultura di destra anche laddove meno ce lo aspettiamo. È possibile analizzare il funzionamento della macchina e, di conseguenza, possiamo anche vedere quali sono le condizioni di questo funzionamento. Infine, e di conseguenza, è anche possibile non essere solidali con tali condizioni e con il ruolo che esse ci assegnano. Solo questa possibilità può coincidere con un tipo nuovo di solidarietà, che potrà essere veramente e positivamente distruttiva.
- Andrea Cavalletti - pubblicato come «The New Right Machinery» su Crisis & Critique, vol. 11, °1, 16/7/2024.
NOTE:
1 - Hannah Arendt, Lying in Politics. Reflections on the Pendragon Papers, in Crises of the Republic. Lying in Politics, Civil Disobedience, On Violence, Thoughts on Politics and Revolution (New York: Harcourt Brace & Co., 1972), pp. 7–12.
2 - Furio Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista (Andrea Cavalletti ed) (Nottetempo, 2011), p. 285. (Per quanto riguarda il termine Rivoluzione, si vedano le considerazioni di Jesi su Rosa Luxemburg e il suo «pessimismo concreto sulle utopie di una rivoluzione riuscita una volta per tutte», in Furio Jesi, ”Il tempo giusto della rivoluzione: Rosa Luxemburg e il problema della democrazia della democrazia operaia”, in "Spartakus. La simbologia della rivolta", (a cura di Andrea Cavalletti. Bollati Boringhieri).
pp. 173–182).
3 - Ivi.
4 - Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'era della sua riproducibilità tecnologica. Einaudi
5 - Ivi
6 - Cfr. Gabriel Tarde, «Le Public et la foule» (1898), in L'Opinion et la foule, Paris, PUF, 1989 [1901], p. 39; Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi
7 - Thomas Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino (De cive). Utet
8 - Carl Schmitt, Sul Leviatano [1938], Il Mulino. Purtroppo, sappiamo da quale punto di vista politico Schmitt fece la sua analisi critica del Leviatano nel 1938.
9 - Theodor Geiger, Die Masse und ihre Aktion: ein Beitrag zur Soziologie der Revolutionen, Stuttgart, Ferdinand Enke, 1926, pp. 44, 101.
10 - Murray N. Rothbard, Anatomy of the State (Auburn: Ludwig von Mises Institute, [1974] 2009), p. 11
11 - Ivi.
12 - Ivi, p. 42.
13 - José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE.
14 - Massimo De Carolis, Convenzioni e governo del mondo, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 180.
15 - José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE.
16 - Giorgio Agamben, La comunità che viene. Bollati Boringhieri
17 - Marius Schattner, "I pretesti biblici dell'estrema destra per l'espulsione di massa", su Le Monde diplomatique, aprile 2024, p. 10.
18 - Anne Waeles, "La cooptazione dell'ebraismo da parte del sionismo", in Le Monde diplomatique, aprile 2024, p. 10. Vedi anche Amnon Raz-Krakotzkin, Exil et souveraineté. Judaïsme, sionisme et pensée binationale, pref. Carlo Ginzburg, trad. Catherine Neuve-Église, Paris: La Fabrique, 2007.
19 - Furio Jesi, "Gli Arabi e Israele. Sionismo politico e spirituale. Gli opposti nazionalismi", in Resistenza. Giustizia e libertà, marzo 1968, p. 3. (settembre 1968
20 - Furio Jesi, "Conoscibilità del Festival "(1976), in "Il tempo della festa", a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo.
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