mercoledì 5 febbraio 2025

«Perché non ve ne tornate a casa ora che la guerra è finita?»…

A volte emerge un libro così originale, così maturo e senza tempo da farci pensare di aver scoperto un classico. Questa è l’opera prima dell’autore di Le transizioni e Gli invisibili, un esordio che ha sorpreso i lettori e la critica. «Il romanzo surreale e sorprendente di Statovci suggerisce che dobbiamo sempre guardarci allo specchio, e che l’amore e l’identità hanno molti riflessi, molti destini, molti linguaggi. A volte uno specchio rotto riflette qualcosa di più vero, così come l’amore che cerca di ricomporlo, attingendo ai luoghi più profondi» (The New Yorker). Negli anni Ottanta, in un villaggio della Jugoslavia, Emine è una giovane donna che spesso si scontra con le idee del mondo attorno a sé e con un padre severo e superstizioso. Per un capriccio, un uomo che conosce appena le chiede la mano, e lei in quel matrimonio intravede la possibilità di un cambiamento. Quando i Balcani in guerra si sgretolano, la famiglia fugge in Finlandia e la vita nel nuovo paese è dominata dalla paura e dalla vergogna. Accanto a lei, il figlio Bekim cresce in una terra dove a chi viene da fuori si comanda di accontentarsi di poco e di essere grati. Il ragazzo rischia di diventare un emarginato sociale, è un immigrato ed è gay, in un paese sospettoso verso gli stranieri fino alla violenza. Quando gli chiedono il suo nome, spesso ne inventa uno. A volte finge di essere russo. I duri del posto gli sputano in faccia. È ossessionato dalla pulizia e distaccato non solo dai suoi compagni di scuola ma anche dalla madre, che a sua volta è alla ricerca di una identità e di un futuro diversi. A parte incontri occasionali, l’unico compagno di Bekim è un enorme serpente, un boa che lascia vagare liberamente per l’appartamento. Poi, una notte in un gay bar, il giovane incontra un gatto come nessun altro. Questa creatura parlante, capricciosa, affascinante e manipolatrice lo guiderà in un viaggio sconvolgente nel passato, verso il Kosovo e i suoi demoni, per dare un senso alla storia magica e crudele della sua famiglia. Il primo romanzo di Pajtim Statovci è una continua sorpresa: un serpente letale, un gatto sprezzante e sexy; incontri online e matrimoni balcanici; il caos surreale del l’identità; le cose che cambiano quando cambia il nostro mondo, quelle che invece non cambiano mai; il catastrofico antagonismo tra padri e figli; l’attonito sentimento dell’amore. Statovci è uno scrittore di singolare originalità e potenza, e in questo suo esordio abbraccia la complessità del nostro mondo creando un’opera letteraria che possiede la forza di un classico del futuro.

(dal risvolto di copertina di: Pajtim Statovci, “Il mio gatto Jugoslavia” (trad. di Nicola Rainò). Sellerio, pp. 304, € 17)

Per chi viene dal Kosovo vergognarsi è il minimo
- di Federica Manzon -

Per amare una casa occorre che sia fuori dalla nostra portata, scriveva lo scrittore bosniaco Alexandar Hemon da Chicago. Una verità inevitabile per molti autori balcanici, basti pensare allo jugoslavo Danilo Kiš, che trascorse gran parte della vita a Parigi continuando a scrivere pagine immortali sulla Voivodina che si era lasciato alle spalle; o Ismail Kadaré, forse il più grande scrittore albanese, che pur vivendo metà del tempo lontano da Tirana non ha mai smesso di raccontarla. Come se la geografia in cui siamo nati lasciasse su di noi una traccia più forte di qualsiasi nuova appartenenza. È senza dubbio così per Pajtim Statovci, autore nato in Kosovo nel 1990 e cresciuto in Finlandia, dove è arrivato quando aveva solo due anni, scappando con la sua famiglia dalla guerra. Statovci è conosciuto in Italia per il folgorante Le transizioni, pubblicato da Sellerio qualche anno fa, un romanzo che l’ha subito imposto come una delle voci più interessanti della nuova letteratura europea. Impressione confermata con il successivo Gli invisibili. Due romanzi che narrano le vite di giovani uomini sradicati - dall’Albania o dalla Serbia, dal Kosovo - in fuga verso altri paesi d’Europa dove sognano di poter essere se stessi senza nascondersi, di amare chi vogliono senza menzogne. Statovci ha la straordinaria capacità di far sì che la Storia si specchi nei destini individuali. Le sue pagine illuminano con lancinante dolcezza le fragilità, la rabbia e la malinconia di vite marginali e al contempo le proiettano in un universo più grande, che tiene insieme le ceneri del Novecento e le speranze, i tradimenti della nuova Europa. Fa questo fin dal suo esordio, "Il mio gatto Jugoslavia", recentemente pubblicato da Sellerio nella traduzione di Nicola Rainò. Qui il racconto procede su due piani: gli anni Ottanta in un villaggio del Kosovo jugoslavo dove Emine sogna la felicità e l’amore, ma si scontra con le idee conservatrici di un padre che la fa sposare a un ragazzo che ne ha chiesto la mano per il capriccio di averla incontrata una volta per strada; e gli anni Duemila dove suo figlio Bekim rischia di diventare un emarginato, perché gay e perché figlio di immigrati, nella Finlandia che guarda ai kosovari con poca simpatia: «perché non ve ne tornate a casa ora che la guerra è finita?». «Il finale di una storia non e` mai interessante come i dettagli dell’inizio», ci mette in guardia Statovci. E lui ci racconta gli inizi. Della guerra nei Balcani, quando, mentre in molti cominciavano a sentire la nostalgia di Tito, le strade si riempirono di carri armati e militari, e in Kosovo si iniziarono «ad allontanare gli albanesi dai posti di lavoro, dagli ospedali e dai corpi di polizia, e nelle scuole non si poté più studiare in albanese». E gli inizi del giovane Bajram in Finlandia, dove se gli chiedono come si chiama, lui risponde Michael o Jon, per evitare la seconda domanda: da dove vieni? E se proprio continuano a indagare, dichiara di essere originario della Bulgaria o della Russia, di un posto qualunque, purché non desti nella mente un’immagine legata al Kosovo, «perché erano tutte immagini negative». In questo romanzo la voce della madre e del figlio si rincorrono, alle volte pare di confonderle per quanto si somigliano (questo forse il solo tratto che dice uno Statovci non completamente maturo), e ci mostrano una donna che ha «sognato così tanto, fino a piangere per quello che immaginava», e un ragazzo che conosce come primo sentimento la vergogna, per tutto quello che lui e la sua famiglia sono. Entrambi fanno i conti con il clima politico e sociale dei paesi in cui crescono. L’autore ne dà un ritratto che rompe ogni stereotipo e ci consegna una verità che non possiamo ignorare: gli ultimi anni del Novecento furono quelli in cui, nel cuore dell’Europa, le donne pagarono lo scotto più duro per le insicurezze e le ambizioni degli uomini; i primi anni del nuovo Millennio hanno visto crollare davanti ai flussi migratori l’ideale di tolleranza e accoglienza su cui era stata fondata l’Unione Europea. Ma non sono solo i temi a fare di Pajtim Statovci uno dei più interessanti scrittori della nuova generazione, ma anche il modo in cui dialoga con la tradizione letteraria. Il suo gatto jugoslavo, che tanto ricorda il Behemoth di Bulgakov, e il serpente che Bekim sogna e poi si porta a casa sono, nella storia della letteratura e delle religioni, manifestazioni che accompagnano il Diavolo. Statovci ne fa un uso dirompente perché si serve di questi due animali per mostrarci che il Male spesso non sta in coloro che per definizioni sono considerati compagnie diaboliche, ma altrove: nella migliore società europea che guarda con disgusto a tutti coloro da cui si aspetta il peggio, siano essi serpenti, gatti neri o migranti senza patria.

- Federica Manzon  - Pubblicato su TuttoLibri del 4/5/2024 -

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