Tra le tante cose, il racconto di Kafka su Josefine - la cantante del popolo dei topi - è una meditazione sulle relazioni esistenti tra parola e scrittura: nel racconto non si fa mai menzione alcuna di ciò che costituisce la dimensione scritta della letteratura/narrazione, ma si parla solamente della sua dimensione orale; è per mezzo del suono, unicamente ed esclusivamente, che Josefine comunica, ed è solo grazie al suono che il suo popolo interpreta la sua esibizione, la sua performance, la quale risulta essere allo stesso tempo insolita e familiare, affascinante e ripugnante. Al punto che, nel finale del racconto, la rappresentazione orale eseguita da Josefine si lega alla possibilità dell'oblio, della dimenticanza (a causa della pregiudiziale tendenza a biasimare quella memoria che è la scrittura, condannata da Platone; come ci ricorda Jacques Derrida quando scrive del "pharmakon", del veleno/rimedio). Vediamo che caso specifico di Kafka - e della tradizione ebraica, da lui mobilitata e recuperata nel racconto di Josefine - l'uso dell'oralità (che ne fanno tanto la cantante quanto il suo popolo) si lega anche alla sopravvivenza: il popolo dei topi è un popolo che vive sottoterra; ed è un popolo che pensa solo al lavoro, proprio in quanto è questa sua concentrazione a garantirne la sopravvivenza. E in questo caso, l'oralità diventa qualcosa che può essere mantenuta all'interno di, e grazie a, un cerchio di fiducia: la narrazione circola tra quelle che sono delle orecchie preparate, e avviene nel quadro di un ascolto collettivo che viene predisposto di generazione in generazione, in modo da riuscire così a evitare il contagio esterno (e su questo specifico punto del contagio, vediamo come ci siano importanti connessioni e punti di contatto tra la tradizione ebraica e quella greca: la tragedia greca del V secolo a.C. presenta e offre una carica di angoscia permanente riguardo il... contagio). Dall'incontro e dalla commistione di tradizione orale e oblio nasce un terzo tema, anch'esso fondamentale per Kafka: il silenzio (si pensi alla sua favola postuma "Il silenzio delle sirene"), può essere interpretato non solo come il necessario fine necessario di ogni narrativa/letteratura, ma viene anche declinato come se fosse il fine ineludibile di ogni pensiero (ed è un contemporaneo di Kafka - Wittgenstein - che sottolinea nel suo Tractatus, del 1921: «Tutto ciò che può essere detto si può dire in modo del tutto chiaro; e su ciò di cui non si può parlare si deve tacere»).
«”Presto verrà il momento in cui risuonerà il suo ultimo squittire, e finirà”, scrive Kafka di Josefine nel penultimo paragrafo del racconto. Il "popolo dei topi", sarebbe rimasto per Kafka l'immagine ultima della comunità», (Roberto Calasso: da "K". Adelphi).
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