venerdì 28 febbraio 2025

Bolsonaro è preoccupato. Dovrebbe esserlo anche Trump!!

Scoperto un complotto omicida
L'ufficio del procuratore generale del Brasile, ha presentato alla Corte Suprema del paese delle accuse contro l'ex presidente Bolsonaro. Oltre a una dettagliata strategia per l'attuazione di un colpo di stato, durante le loro indagini, le autorità avrebbero anche trovato dei piani per l'assassinio del presidente Luiz Inácio "Lula" da Silva .
- di @Marcos Barreira -

Rio de Janeiro. L'onere della prova appare schiacciante. Il 18 febbraio, il procuratore generale Paulo Gonet ha depositato la tanto attesa accusa contro l'ex presidente del Brasile Jair Bolsonaro, e altri 33 imputati, presso la Corte Suprema Federale (STF). Tra gli accusati, ci sono generali e ministri. Le accuse, formulate nell'atto d'accusa, includono il tentato colpo di Stato del 2022, dopo che Bolsonaro aveva perso le elezioni presidenziali, la distruzione di beni culturali pubblici e la formazione di un'organizzazione criminale. Nel corso delle indagini, la polizia si è anche imbattuta in delle prove che suggeriscono come l'imputato avesse pianificato di assassinare l'attuale presidente Luis Inácio "Lula" da Silva, il giudice Alexandre de Moraes e il vicepresidente Geraldo Alckmin. Durante il suo mandato (dal 2018 al 2022), Bolsonaro aveva ripetutamente cercato il conflitto con l'STF, e aveva incitato i propri sostenitori contro le istituzioni democratiche, e contro l'STF in particolare. Si è temuto fin dall'inizio che Bolsonaro stesse accarezzando l'idea di continuare a  mantenere il suo incarico, dopo quattro anni, anche senza alcuna legittimità democratica. Più volte, egli ha espresso il suo disprezzo per le istituzioni democratiche. Nel luglio del 2021, l'indice di gradimento di Bolsonaro è crollato, a causa della sua disastrosa gestione della pandemia di Covid-19. Precedentemente, nel marzo 2021, il suo principale avversario politico, l'ex presidente Lula da Silva - tornato in carica dal 1° gennaio 2023 - aveva riguadagnato i propri diritti politici, in modo che non ci fosse più nulla a ostacolare la sua candidatura presidenziale. A un simile sviluppo, Bolsonaro ha reagito attraverso una campagna volta a delegittimare il sistema elettorale. Così, ad esempio, in occasione di un incontro con gli ambasciatori stranieri presso la sede del governo nel giugno 2022, aveva affermato che il sistema di voto elettronico del Brasile era suscettibile di manipolazioni e, a livello generale, ha diffuso la voce che fosse imminente una frode elettorale nei suoi confronti. Aizzate da queste narrazioni cospirative, dopo il primo turno delle elezioni presidenziali, ci sono state ripetute manifestazioni davanti alle caserme dell'esercito, dove i manifestanti richiedevano l'intervento militare a favore di Bolsonaro. Arrivando, a volte, al punto che questa dinamica si diffondesse anche all'interno delle caserme. Il 30 ottobre 2022, Bolsonaro è stato sconfitto al ballottaggio, e a dicembre ha lasciato il Paese, in direzione degli Stati Uniti, ancor prima dell'insediamento di Lula Da Silva. E lì si trovava, ancora l'8 gennaio, allorché, nella capitale Brasilia una settimana dopo la cerimonia di giuramento, sono scoppiati dei disordini; migliaia di sostenitori di Bolsonaro, provenienti da diverse regioni del paese, erano arrivati su convogli di autobus per bloccare le strade e assediare le sedi dei tre poteri statali. Alcuni sono anche riusciti a fare irruzione negli edifici governativi e giudiziari, e a devastarli. Allo stesso tempo, abbiamo visto anche attacchi minori alle stazioni di polizia. In quel momento, Lula non era a Brasilia e dichiarava lo stato di emergenza nello stato del Distrito Federal. Il suo governatore Ibaneis Rocha veniva temporaneamente rimosso dall'incarico, e il ministro della sicurezza della capitale, Anderson Torres, è stato arrestato.

Nel 2023 le indagini hanno preso velocità
Nel corso del 2023, le indagini, svolte dalla polizia federale, sulle presunte menti esistenti dietro i disordini, hanno preso slancio. In queste indagini, due figure chiave sono state: Anderson Torres, ministro della Giustizia sotto Bolsonaro, e Mauro Cid, un ufficiale dell'esercito, aiutante di campo personale dell'ex presidente e ora testimone chiave nel processo contro di lui. Torres è stato accusato di aver facilitato l'invasione e la distruzione di edifici pubblici. Nella sua abitazione, la polizia ha trovato un documento redatto nella sede del governo che dettagliava quali fossero le "misure legali" che i golpisti intendevano prendere: la sospensione delle elezioni presidenziali e l'arresto dei giudici della Corte Suprema (guidati dal giudice Alexan-dre de Moraes, che era diventato il principale bersaglio dell'estrema destra). Sul documento potevano essere lette le annotazioni personali fatte dallo stesso Bolsonaro. Sul computer di Mauro Cid, gli investigatori hanno ritrovato un video relativo a una riunione del Consiglio dei ministri del luglio 2022 durante il quale Bolsonaro e altri membri del governo discutevano apertamente dell'uso della forza al fine di impedire le elezioni.

Nome in codice "pugnale verde-giallo"
Nel corso di ulteriori indagini, la polizia federale si è imbattuta in un piano che a quanto pare prevedeva anche l'assassinio del presidente da Silva, oltre a quelli del suo vicepresidente Alckmin e del giudice Moraes. Il piano, nome in codice "pugnale verde e giallo", doveva essere attuato da unità militari speciali vicine a Bolsonaro. Nei messaggi audio e di testo pubblicati nel novembre 2023, e che gli investigatori hanno sequestrato, si vedono alti ufficiali dell'esercito che discutono del piano. I documenti che circolavano tra i golpisti sono stati redatti nell'ufficio del presidente il 9 novembre 2022, dieci giorni dopo la sconfitta elettorale. È presumibile che quel giorno, Bolsonaro abbia ricevuto il generale Estevam Theóphilo, responsabile di queste istruzioni per il colpo di Stato. Le indagini si sono svolte in stretta segretezza per tutto il 2023. Nel frattempo, la Corte Suprema ha iniziato a occuparsi dei processi di coloro che erano stati coinvolti nell'assalto agli edifici governativi. Alcuni di loro hanno ricevuto delle dure condanne, fino a 17 anni di carcere. Tuttavia, finora, in questi procedimenti nessun leader politico o militare è stato ritenuto responsabile. Ma per Bolsonaro le cose si stanno facendo sempre più difficili per Bolsonaro. Un anno dopo, nel corso l'incontro con gli ambasciatori, la Corte Suprema Elettorale (TSE) lo ha privato del diritto di candidarsi alle elezioni per otto anni. Il tribunale ha accettato le accuse di abuso di potere e di uso illegale dei canali di comunicazione statali ai fini dell'organizzazione dell'incontro. Ora, la nuova accusa contro Bolsonaro deve essere accettata dall'STF, e arriva nel momento in cui la richiesta di un'amnistia per i golpisti – organizzata dai sostenitori di Bolsonaro – sta diventando sempre più forte. Temendo un'altra condanna, Bolsonaro sta ora usando il proprio potere politico per riuscire a rovesciare la "Lei da Ficha Limpa" (Legge sulla purezza politica), che vieta ai politici condannati di candidarsi. Tuttavia, la sua situazione è assai complicata; in quanto - a differenza del Congresso, dove ha ancora una notevole influenza- nella Corte Suprema, si è formata un'ampia maggioranza che ora resiste a qualsiasi pressione politica.

- @Marcos Barreira - Pubblicato il 27.02.2025 su Jungle.World -

giovedì 27 febbraio 2025

… «E il cuore di simboli pieno»…

La produzione marxiana e l'inconscio freudiano: l'oblio del simbolico secondo Baudrillard
- di Sandrine Aumercier -

Durante gli anni '70, Baudrillard sviluppò una duplice critica di Marx e Freud. Da un lato, rivolta al mito capitalistico della produzione e dei bisogni, da cui lo stesso Marx sarebbe rimasto dipendente. Dall'altro, rivolta alla nozione freudiana dell'inconscio, che sarebbe stata indebitamente estesa dalla psicoanalisi a un'ontologia trans-storica. Viene qui presentato, e sottolineato l'interesse che riveste questa duplice critica [*1]. Mostreremo anche su cosa Baudrillard basi la sua concezione del simbolico, e i limiti dovuti alla sua teoria semiotica post-strutturalista dello scambio che si riflettono sulle critiche, altrimenti giustificate, che egli rivolge a Marx e Freud.

La critica di Baudrillard alla produzione
Ne "Lo specchio della produzione" (1973), Baudrillard descrive la frammentazione funzionale degli oggetti, che la dialettica pretende di riconciliare, facendoli entrare nel movimento della storia. Egli definisce come «proiezione paranoica», l'operazione attraverso la quale i concetti si generano a vicenda seguendo la finalità di una «scienza che vive solo di separazione». Pertanto, la scienza costruisce un'antropologia su misura di quelle funzioni che ha prima separato. Baudrillard analizza alcuni discorsi, come quello di Maurice Godelier: un antropologo marxista che si stupisce del fatto che gli esseri umani primitivi non producano un surplus economico. Godelier risolve questo problema dicendo che tutte queste società senza eccedenze producono solamente per «soddisfare i loro bisogni». Baudrillard vede in questo una naturalizzazione della produzione, la quale va di pari passo con la moderna naturalizzazione dei bisogni. Ma una volta che gli antropologi hanno naturalizzato la produzione, trovano anche difficile spiegare anche gli altri aspetti della "società". Ponendo i cosiddetti bisogni naturali alla base del fatto sociale, essi si interessano in maniera separata alle relazioni sociali; parentela, alleanze, ecc. Così facendo, sul modello della separazione cartesiana di anima e corpo, distinguono artificialmente tra sopravvivenza biologica e significati sociali. Già in "Per una critica dell'economia politica del segno" (1972), Baudrillard aveva sostenuto che non esiste un «minimo antropologico di vita». «L’uomo non è qui, sin dall’inizio, con i suoi bisogni, e destinato per natura a realizzarsi in quanto Uomo. Questa affermazione, propria del finalismo spiritualista, definisce in realtà, nella nostra società, la funzione-individuo, mito funzionale alla società produttivistica. Tutto il sistema dei valori individuali, tutta la religione della spontaneità, della libertà, della creatività, ecc., grondano del peso della scelta produttivistica. Anche le funzioni vitali si presentano immediatamente come «funzioni» del sistema. In nessun senso l’uomo si trova di fronte ai propri bisogni.» (Per una critica dell'economia politica del segno, p. 92). Baudrillard ribadirà questa critica ne "Lo specchio della produzione" affermando che ciò che chiamiamo "società" non esiste al di fuori dello scambio simbolico, il quale è il fatto sociale primordiale. Ne trae il modello dal "Saggio sul dono" (1925) di Marcel Mauss, nel quale Mauss descrive il ciclo del triplice obbligo di dare, ricevere e restituire, vedendolo come fondamento del fatto sociale. In questo senso, la sopravvivenza e la sussistenza non sono principi separati o realtà presociali. «Per i primitivi, mangiare, bere, vivere sono innanzitutto atti che si scambiano, e se essi non possono essere scambiati, allora non avvengono». (Lo specchio della produzione, p. 65). La prima a considerarsi critica, è stata la cultura occidentale; pertanto, essa concepisce sé stessa come universale, e porta così tutte le altre culture nel suo museo, sotto forma di vestigia a sua immagine. In questo modo, le estetizza senza riuscire perciò ad accedere al loro funzionamento simbolico. Le interpreta con le proprie categorie. La critica che inizia con l'Illuminismo non corrisponde ad altro che all'universalizzazione, da parte dell'economia politica, dei suoi stessi propri principi. In tal modo, il suo imperialismo si esprime tanto nel campo geopolitico quanto in quello epistemico. La dialettica viene così denunciata da Baudrillard come il sintomo di ciò che il sistema economico non vede circa la rottura che esso stesso costituisce. Secondo Baudrillard, il fatto di posizionare il capitalismo vedendolo come se fosse il coronamento della successione dei diversi modi di produzione, come il momento dialettico dell'emergere della coscienza critica, permette al sistema capitalistico (anche nella sua variante marxista) di ignorare le proprie categorie. Una lotta politica a un tale livello si trova così condannata a rimanere immanente al sistema. Baudrillard critica l'ideologia del lavoro, mostrando che Marx è comunque rimasto chiuso nelle categorie che voleva superare, dal momento che ha ripetutamente celebrato il lavoro come se si trattasse di un'eterna necessità del genere umano, per poter riuscire a produrre "valori d'uso" o "utilità". Nel corso della storia, secondo Marx, il metabolismo con la natura avrebbe assunto forme diverse, le quali si sono succedute fino ad arrivare alla forma capitalistica, basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. La forza-lavoro diventa perciò una merce al servizio della produzione di plusvalore, senza considerare quale sia il valore qualitativo del lavoro e dei prodotti. Secondo Baudrillard, il marxismo non denuncia la categoria del lavoro in sé, ma piuttosto l'alienazione delle forze produttive, che egli vorrebbe semplicemente liberare dal dominio dei capitalisti, e dalla morsa del quantitativo. La conseguenza di ciò è, secondo Baudrillard, che il sistema dell'economia politica produce, non solo un nuovo individuo che vende la propria forza-lavoro, ma anche l'idea stessa di forza-lavoro in quanto definizione fondamentale dell'umano. E questo essere umano si trova a essere destinato a produrre, a produrre e a superare continuamente sé stesso, in un'apologia del progresso e dello sviluppo, consustanziali all'economia. Simultaneamente, egli non cessa mai di idealizzare un oltre fittizio rispetto a questo produttivismo, che si suppone sarà liberato, a un certo punto, dall'imperativo della produzione grazie all'automazione della produzione stessa. La liberazione sociale perciò non mira alla liberazione categorica del lavoro e della produzione in sé, ma solo di quella che è una parte arbitraria del lavoro.

La critica dell'inconscio di Baudrillard
Come abbiamo detto, secondo Baudrillard, nelle società premoderne non esiste qualcosa come il lavoro, e neanche come la produzione, a meno che le categorie dell'economia non vengano retroproiettate. Ora, se questo nuovo individuo, così come questa idea della forza-lavoro sono un'invenzione recente, ciò non è senza conseguenze per quella concezione moderna del soggetto che la psicoanalisi ha reso suo oggetto di indagine. Baudrillard afferma: «Nelle società primitive non esistono né il modo di produzione né la produzione, così come, nelle società primitive non esiste la dialettica, né l'inconscio. Tutti questi concetti trovano applicazione solo nell'analisi delle nostre società regolate per mezzo dell'economia politica. In un certo qual senso, pertanto, questi concetti hanno solo un valore di boomerang. Se la psicoanalisi parla di inconscio nelle società primitive, allora chiediamoci cosa reprime la psicoanalisi stessa. Quando il marxismo parla del modo di produzione nelle società primitive, chiediamoci fino a che punto questo concetto non riesce a descrivere le nostre società storiche - ed è questo il motivo per cui viene esportato. E quando tutti i nostri ideologi cercano di finalizzare e razionalizzare le società primitive secondo i loro stessi concetti e di codificare i primitivi, chiediamoci che cosa li ossessiona nel voler vedere questa finalizzazione, questa razionalità, questo codice che gli scoppia sul viso. Anziché esportare il marxismo e la psicoanalisi (per non parlare dell'ideologia borghese, ma qui non c'è differenza), concentriamo piuttosto tutto l'impatto, tutta la messa in discussione delle società primitive proprio sul marxismo e sulla psicoanalisi.» (da "Lo specchio della produzione", p. 49). E Baudrillard denuncia anche nell'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, quello che vede come un discorso di liberazione che rimane però comunque segnato dall'illusione produttivista. Anche nella liberazione sessuale, vede un'illusione che vorrebbe liberare dei processi primari seguendo quella stessa struttura secondo cui, nel campo del marxismo, si vorrebbe liberare il valore d'uso. I corpi della "de-sublimazione repressiva" (nozione che Baudrillard riprende da Marcuse) allontanano la morte positivizzando la libido secondo il principio dello sviluppo delle forze produttive. «In entrambi i casi, il modello di liberazione è biologico e non simbolico». In epoca moderna, la morte diventa un evento fatale e irreversibile, e la vita un capitale edonistico. In tal modo, abbiamo de-socializzato e naturalizzato la morte facendone un fenomeno biologico, medico e scientifico, nel mentre che per gli uomini primitivi – ancora una volta – la morte è, come dice Baudrillard, una relazione sociale (ne "Lo scambio simbolico e la morte", p. 202). Nelle società premoderne, i vivi e i morti mantenevano tra di loro relazioni simboliche. Mentre noi, da parte nostra, fantastichiamo su uno stato di natura, su impulsi selvaggi e sul loro corollario immaginario: un desiderio che dovrebbe essere liberato, laddove «i cannibali, invece (...) pretendono semplicemente, per mezzo del loro cannibalismo, di vivere in società.» ("Lo scambio simbolico e la morte, p. 212). La morte non ha più il significato che gli è stato attribuito dalla psicologia moderna, vale a dire, quello di una realizzazione del desiderio e di un regolamento di conti. In questo senso, la morte biologica e i significati immaginari a essa collegati sono un'invenzione moderna. La nostra società si basa sull'allontanamento dei morti, i quali vengono posizionati all'esterno rispetto alla circolazione simbolica del gruppo. «Perché oggi non è normale essere morti, e questa è una novità» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 196). Va notato che Baudrillard scriveva questo trent'anni prima dell'irruzione di un transumanesimo disinibito che ha affermato «la morte della morte» (Laurent Alexandre) come  se fosse un obiettivo da raggiungere. Su questa base, Baudrillard invece sviluppò un'antropologia del simbolico, che definì come la circolazione e lo scambio di ciò che noi – vale a dire il mondo dell'economia – abbiamo imparato a separare e ad assolutizzare. Ora, ogni termine separato si riflette nel suo opposto immaginario, pur assumendo la consistenza del suo riferimento immaginario a una realtà. Baudrillard descrive le antinomie insolubili, che ne derivano, tra la parola e la cosa, tra il segno e il referente, tra l'immaginario e il reale, tra il bisogno e il desiderio, tra il vivo e il morto, ecc. È questo il risultato della negazione del simbolico che ne ha assicurato la circolazione. Simultaneamente, Baudrillard afferma anche che questa liquidazione del simbolico è solo apparente; Poiché, non cessando mai di esistere, il debito simbolico può solo essere stato dislocato in un altro luogo. «Paghiamo con la nostra morte continua e con la nostra angoscia della morte la rottura degli scambi simbolici con essi [i morti]. (…) Questo contenzioso enorme, fatto di tutte le obbligazioni e le reciprocità che noi abbiamo denunciato, è propriamente l'inconscio (…) L'Inc è sociale nel senso che è fatto di ciò che non si è potuto scambiare socialmente o simbolicamente.» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 208). La legge del padre, la proibizione dell'incesto, il complesso di Edipo, sono i residui privatizzati di questo sfratto dello scambio simbolico. Il simbolico non è un'istanza proibitiva né un luogo di rimozione, come vorrebbe il mito edipico della psicoanalisi, ma è piuttosto la circolazione sociale stessa, la quale mette in gioco l'intero metabolismo del gruppo. Per questa ragione, ogni analogia tra le osservazioni fatte dall'etnologia e quelle della psicoanalisi viene denunciata da Baudrillard in quanto mistificazione. L'economico e il simbolico vengono intesi come esclusivi l'uno l'altro (Lo scambio simbolico e la morte, p. 215). Baudrillard interpreta l'ipotesi freudiana della pulsione di morte, non come una verità eterna ma come un mito che ha qualcosa da dirci sulla nostra cultura e sullo stesso apparato concettuale della psicoanalisi, che renderebbe obsoleta. Questa ipotesi liquida la positività del principio di piacere, che sarebbe perciò così la stessa positività della teoria delle pulsioni e del produttivismo economico. Infine, Baudrillard ci suggerisce un ordine simbolico che non distingua più tra processi primari e secondari. «L'autonomizzazione dello 'psichico' è recente. Essa raddoppia, a un livello superiore quella del biologico. La linea questa volta passa tra l'organico, il somatico e... l'altro. Lo psichico esiste solo sulla base di questa distinzione(…) da cui risulta proprio il concetto di pulsione, che vuole costruire un ponte tra i due e semplicemente partecipa all'arbitrarietà di entrambi. La meta-psicologia della pulsione si riunisce qui alla metafisica dell'anima e del corpo: ne è la riscrittura a uno stadio più avanzato.L'ordine separato dello psichico deriva dalla precipitazione, nel nostro 'foro interiore', cosciente o inconscio, di tutto ciò di cui il sistema interdice lo scambio collettivo e simbolico.» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 234). È per questo che egli nega che la psicoanalisi e il marxismo abbiano mai detto qualcosa di rilevante sul simbolico. «Marx crede di ricuperare l'istanza fondamentale nell'economico e nel suo processo dialettico. In realtà ricupera, "attraverso" l'economico e le sue convulsioni, ciò che lo assilla sintomaticamente: la "stessa separazione di questo economico in quanto istanza" (…) "Ma questo è vero anche della psicoanalisi": sotto i termini d'inconscio e di lavoro dell'inconscio, Freud ricupera come istanza fondamentale ciò che, anche qui, è il risultato, sotto forma di psichismo individuale, d'una frattura del simbolico.(…) L'analisi di Marx e di Freud è critica. Ma né l'una né l'altra lo sono in rapporto alla separazione rispettiva del loro campo. Esse non sono coscienti della "coupure" che le onda. Sono sintomatologie critiche che, sottilmente, fanno del loro rispettivo campo sintomatico il campo determinante.» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 342). La diagnosi di Baudrillard è corretta solo nella misura in cui essa semplifica sia la teoria del metabolismo di Marx con la natura che la teoria delle pulsioni di Freud. Non c'è dubbio che queste tendenze possono essere trovate in Freud e Marx e nei loro successori. Ma non è meno vero che Marx sviluppi anche una teoria negativa delle categorie del capitalismo, la quale equivale a una critica della totalità sociale, e non solo della sua distribuzione sociologica (e che verrà sistematizzata dalla critica della dissociazione del valore). Allo stesso modo, Freud mira a una concezione non vitalista e non psicologica della pulsione, di cui la pulsione di morte è la formulazione più completa (e che Lacan sistematizzerà). Il verdetto di Baudrillard sulla loro rispettiva ignoranza della rottura epistemologica che li fonda, e li conduce a generalizzazioni trans-storiche, è tuttavia di grande rilevanza. La proposta di valutare il loro contributo critico alla luce di una teoria generale del simbolico andrebbe ripresa in una critica generale della forma sociale capitalistica.

Quale teoria del simbolico in Baudrillard?
Per poter collocare la proposta di Baudrillard in questa necessaria duplice critica di Marx e di Freud, ricordiamo che, per Baudrillard, l'economico e il simbolico si trovano in una relazione di mutua esclusione. L'economia riduce il fatto sociale, le attività umane, il ciclo degli scambi e i significati del corpo a una contabilità vitale, a una «gestione della vita in quanto sopravvivenza oggettiva». Riprendendo con discrezione gli sviluppi di Foucault e di Canguilhem, Baudrillard, a sua volta, afferma: «Come la medicina è quella del cadavere, così lo Stato è la gestione del corpo morto del "socius".» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 221). Il districarsi dei principi di vita e di morte, che Freud osservava nelle manifestazioni cliniche proprie del vincolo alla ripetizione (o pulsione di morte) resta, per Baudrillard, legato a una moderna evocazione del ciclo del debito simbolico. Tuttavia, la critica di Baudrillard richiede una definizione più precisa di che cosa significhi l'ipotesi della pulsione di morte. Alcuni psicoanalisti fanno del vincolo della ripetizione, il luogo stesso in cui viene esercitata la funzione simbolica illustrata dalla famosa storia della bobina. In effetti, la pulsione di morte freudiana non è una pulsione di morte, quanto piuttosto una pulsione a tornare all'inanimato, impigliato e arruolato nella traiettoria dell'eros. L'ipotesi della pulsione di morte dissolve ogni finalità utilitaristica della vita; tematizza una ricerca paradossale di piacere aggiuntivo, il quale non entra nell'economia del principio di piacere, se non addirittura lo contraddice violentemente, ma che tuttavia produce anche, niente di meno che la cultura. Rimane da teorizzare una differenza fondamentale, quella tra un vincolo di ripetizione simbolico e un vincolo di ripetizione che termina invece con la distruzione di tutto ciò che esiste. Il primo crea una società, il secondo rende impossibile farlo. Se gli psicoanalisti post-freudiani interpretano nel primo senso la pulsione di morte – almeno quelli che accettano l'ipotesi –  gli autori che fanno un uso non psicoanalitico del concetto di pulsione di morte spesso lo intendono in modo piatto nel secondo senso, mentre invece i lacaniani insistono sulla nozione di godimento, la quale costituisce una reinterpretazione della pulsione di morte. Però nessuno dei due schieramenti spiega cos'è che faccia la differenza, tra una tendenza simbolica e una tendenza mortale della costrizione alla ripetizione. Secondo Freud, questa differenza clinica sarebbe costituita dal suo grado di legame e di coinvolgimento con la "pulsione di vita". Ma la generalità in cui egli racchiude questa proposizione la rende difficilmente utilizzabile ai fini di una teoria coerente del simbolico. Da parte sua, Baudrillard intuisce che l'espulsione della morte dall'economia simbolica delle società moderne, e la promozione della vita come fine a sé stessa, hanno delle conseguenze in termini di "pulsione di morte". Ma ciò che Freud attribuisce a quello che considera un impulso più fondamentale degli altri, legato alla logica dei vivi, Baudrillard lo attribuisce a un effetto della separazione sociale dei vivi dai morti, la quale pone la vita umana in uno stato di sopravvivenza. «La morte sottratta alla vita, è la stessa operazione dell'economia politica - è la vita residua, ormai leggibile in termini operativi di calcolo e di valore. (…) La vita restituita alla morte, è l'operazione stessa del simbolico.» (Lo scambio simbolico e la morte, p. 201). Come abbiamo visto, Baudrillard prende in prestito dagli antropologhi, la sua teoria del simbolico. Questo indebitamento ha il merito di aprire uno scarto riflessivo riguardo alle categorie economiche - marxiane o freudiane - delle quali realizziamo un'antropologia spontanea, come se gli esseri umani di tutti i tempi non fossero mai stati altro che homo oeconomicus. Ma l'argomento diventa insufficiente allorché Baudrillard, in base a questo standard epistemico, lo applica senza mediazione alcuna alla nostra forma sociale. Egli esita costantemente tra l'osservazione della scomparsa dello scambio simbolico e l'affermazione della permanenza nascosta del simbolico. Il tono viene dato dalla prima frase ne Lo scambio simbolico e la morte: «Al livello delle formazioni sociali moderne, non c'è più scambio simbolico; non più come forma organizzatrice. Sicuramente, il simbolico le ossessiona come se fosse la loro morte.» (pag. 7). L'appassionato riferimento che Baudrillard - mutuandolo da Bataille,  che a sua volta fa una lettura molto riduttiva dell'antropologia di Marcel Mauss – fa alla morte e al sacrificio, lo porta a interpretare le nuove forme di violenza in termini di sacrificio simbolico e di logica del dono. Era questa la sostanza del suo commento all'11 settembre, che definiva come un "evento simbolico", una "sfida simbolica", che sarebbe stata compiuta dai terroristi, ma segretamente voluta da tutti ("Lo spirito del terrorismo"). Tuttavia, la sua analisi riprende parola per parola alcune delle proposizioni contenute ne Lo scambio simbolico e la morte, come se l'attentato al World Trade Center ne costituisse la realizzazione differita – venticinque anni dopo – e la conferma teorica. «Non attaccare mai il sistema in termini di rapporti di forze. Questo è l’immaginario (rivoluzionario) imposto dal sistema stesso, il quale sopravvive solo portando continuamente coloro che lo attaccano a battersi sul terreno della realtà, che è da sempre e per sempre il suo. Spostare invece la lotta nella sfera simbolica, dove la regola è quella della sfida, della reversione, del rilancio. Una lotta tale che alla morte si possa rispondere solo con una morte uguale o superiore. Sfidare il sistema con un dono al quale esso non può rispondere se non attraverso la propria morte e il proprio crollo.L’ipotesi terroristica è che il sistema si suicidi in risposta alle sfide multiple della morte e del suicidio. Perché né il sistema né il potere si sottraggono all’obbligo simbolico — ed è su questa insidia che poggia la sola possibilità di una loro catastrofe. In questo ciclo vertiginoso dello scambio impossibile della morte, quella del terrorista è un punto infinitesimale, ma in grado di provocare un’aspirazione, un vuoto, una convezione gigantesca». ("Lo spirito del terrorismo"). Se, per interpretare il terrorismo, Baudrillard sta chiaramente nuotando nel bel mezzo di una fantasia sul dono e sul contro-dono, ciò è perché egli estrapola i risultati dell'antropologia, portandoli su un terreno storico che non ha nulla a che fare con esso. In altre parole, commette l'errore opposto a quello che rimprovera ai fautori dell'economia: trae dal corpus etnologico elementi di analisi che generalizza e traspone al "sistema" attuale senza mettere in discussione l'assoluta specificità di questo stesso "sistema". Contrariamente a coloro che intendono l'umanità di tutti i tempi a partire da una generalizzazione dell'homo oeconomicus, egli descrive l'umano moderno sul modello trans-storico di un homo symbolicus tutto suo, come se la modernità non avesse prodotto anche un "nuovo tipo umano" congruente con il capitalismo (Theodor W. Adorno) che sfida proprio l'antropologia. Le osservazioni grezze dell'antropologia, non possono semplicemente informarci su ciò che abbiamo "perso", altrimenti finirebbero per costituire solo un discorso reazionario; invece, contrariamente, ci obbligano anche a tentare un'antropologia dei tempi moderni. In assenza di un simile sforzo teorico, il divario differenziale che l'antropologia critica reca in sé si perde in una nuova poltiglia trans-storica: interpretando come "sfide simboliche" quelli che sono atti spettacolari di un puro nichilismo – che certamente fa così loro troppo onore – Baudrillard non ci aiuta in alcun modo a capire che cosa sia diventato il simbolico, nella nostra forma sociale. In particolare, conferisce loro un potenziale per sconfiggere il sistema che essi non hanno: se attaccano il sistema nel punto del suo tallone d'Achille (l'ossessione per la sicurezza e la sopravvivenza biologica), non c'è niente in essi che riduca il loro significato ideologico al ristabilimento di uno scambio simbolico, che altrimenti sarebbe negato. In altre parole, Baudrillard va oltre la validità delle proprie analisi, conferendo al terrorismo un valore simbolico che viene direttamente trasposto a partire da osservazioni fatte su altre società, le quali sono tuttavia estranee al fatto del terrorismo. Egli riduce così la dimensione simbolica della morte – che è tuttavia il cuore del suo ragionamento – a una serie di atti violenti che avrebbero tutti lo stesso significato simbolico. Si potrebbe persino confondere questa proposizione con un'intuizione lacaniana. Ma Lacan era assai più cauto quando diceva: «ciò che viene rimosso nel simbolico, riappare nel reale» [*2]. Insistendo così sulla dimensione di un ritorno al reale di ciò che viene rifiutato (o rimosso, a seconda della formulazione) nel simbolico, egli non si è pronunciato sul quale fosse la qualità simbolica di ciò che ritorna.

Per un'antropologia del mondo moderno, a partire dai criteri del mondo moderno
Pertanto, al di là delle rilevanti critiche al marxismo e alla psicoanalisi, Baudrillard sbaglia in quella che è la sua generalizzazione trans-storica, nella quale, al fine di criticare la critica, sollecita alcune forme sociali primitive che tuttavia, nel mondo moderno, non sono in grado di adempiere a questa funzione critica. In tal modo, così facendo egli ignora i contributi specificamente marxiani e freudiani alla teoria del simbolico, per sostituirli invece con una grande teoria del simbolico, il cui paradigma è stato estrapolato dalle società premoderne. Baudrillard sostiene che il marxismo e la psicoanalisi non dispongono di una teoria del simbolico. Ma non è perché Marx non usi il termine "simbolico", che egli non ha una teoria del simbolico. Per quanto riguarda Freud, tutta la sua opera può essere definita come una rivalutazione della funzione simbolica, presa a livello del soggetto, in una società che collettivamente nega il simbolico. Se Baudrillard può affermare l'assenza di una teoria del simbolico in Marx, lo fa poiché non afferra la teoria marxiana del valore. Egli diagnostica una sorta di mutazione contemporanea che Marx non sarebbe stato in grado di analizzare quando, nella Miseria della Filosofia, descrive il momento in cui il valore di scambio diventa universale al punto da assorbire tutto ciò che fino ad allora gli poteva sfuggire: virtù, amore, opinione, scienza, coscienza e così via. «È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per dirla in termini di economia politica, il tempo in cui ogni cosa morale o materiale, divenuta valore venale, è portata al mercato per essere stimata al suo giusto valore.» (Miseria della filosofia) Questa fase, viene interpretata da Baudrillard come l'inizio di una nuova epoca che rende obsoleta la legge del valore. Da questo punto di vista, Baudrillard è vicino a molti autori post-strutturalisti e post-operaisti che sempre continuato a interpretare la postmodernità come un'epoca di obsolescenza della legge del valore; cosa che permette loro di sostituirla con delle fantasie teoriche a proposito di quelle che sarebbero delle nuove forme di capitalismo. Qui, Baudrillard radicalizza la teoria che aveva sviluppato in "Per una critica dell'economia politica del segno", secondo cui la produzione economica non è una produzione di valori d'uso, incorporata nel processo di scambio, ma che in realtà è una produzione di segni, inconsapevole di sé stessa in quanto tale; o che quantomeno è stata ignorata come tale fino all'avvento dell'era postmoderna. Egli afferma che Marx aveva separato l'astrazione dal bisogno, dal valore d'uso (o dalla produzione per i bisogni) e dalla legge del valore. Dove il primo sarebbe per Marx una relazione trasparente con sé stesso, quella dell'uomo con i suoi bisogni, mentre il secondo atterebbe alla sfera del feticismo propriamente detto. Secondo Baudrillard, invece si tratterebbe di dimostrare, al contrario, che il valore d'uso non è indipendente dalla legge del valore stesso. Pertanto egli rimprovera alla semiologia contemporanea di accontentarsi di una descrizione strutturale della circolazione dei segni; è a questa che egli intende sostituire un'altra teoria del segno, secondo la quale è il segno a essere diventato il reale. La realtà si sarebbe ridotta a una pura circolazione di segni autoreferenziali. Il significato e il riferimento, sotto l'effetto della proliferazione dei segni, sarebbero perciò scomparsi. L'iper-realtà consisterebbe in questa «realtà liberata dal suo principio [il suo principio di realtà, che] diventa, in uno sviluppo esponenziale, integrale» [*3]. Baudrillard voleva pertanto realizzare, per mezzo di quella che lui chiama la "forma del segno", ciò che Marx aveva fatto con la "forma valore"; da cui il titolo magniloquente di "Per una critica dell'economia politica del segno" modellato su quello di Marx. Pertanto, egli analizza la nostra società dal punto di vista della legge del valore di scambio, rifiutando giustamente di ipostatizzare il valore d'uso come momento separato e naturale (quello del bisogno) dalla logica del valore. Ma in questo modo, egli intende produrre una teoria del segno, la quale rompe con la legge del valore, che egli interpreta solo come scambio di equivalenti, in modo che così possa allora opporre, a questa concezione tronca della logica del valore, un'altra logica che trascenderebbe la legge dello "scambio di equivalenti", e che consisterebbe appunto nel superfluo, nella trasgressione, nella sfida alla morte, nell'eccesso... Il problema però è che questa analisi non si basa sulla teoria marxiana del valore in senso stretto, vale a dire, della contraddizione nel processo e della crisi di valorizzazione in esso insita. Baudrillard interpreta la diminuzione della massa globale del valore economico come se corrispondesse a un'abolizione della legge marxiana del valore. Che la valorizzazione del valore si stia frantumando nei suoi stessi limiti, viene interpretato come se si trattasse di un vero e proprio fine della stessa legge del valore, il quale valore ora verrebbe trasmesso solo attraverso una semplice simulazione tautologica dei segni del lavoro. Il lavoro non sarebbe più un punto di forza, ma un segno. Avremmo continuato a lavorare per mantenere i segni del lavoro, mentre allo stesso tempo avremmo lasciato una società che si riproduce comunque attraverso il lavoro. A tutto ciò, non si può che obiettare, chiedendo se allora: «questa società si nutre di amore e di acqua fresca, in modo da poter così trascendere le leggi economiche della produzione?» Così facendo, Baudrillard ha preso alla lettera l'apparenza tautologica del funzionamento capitalistico, attribuendogli il fatto che esso sarebbe realmente diventato un'apparenza pura e nient'altro! Per lui, l'astrazione reale è diventata il reale di una simulazione (vedi Lo scambio simbolico e la morte, p. 53). L'immaginario sarebbe diventato il reale stesso. Come molti altri autori di questo periodo, affascinati dalla nozione di "scambio di equivalenti" e da quella della circolazione (Derrida, Goux, Lyotard, Deleuze e Guattari...), la teoria marxiana, non solo si riduce a una concezione puramente scambiatrice dell'economia, ma inoltre è anche a uno scambio di segni! La realtà dello scambio di segni sarebbe perciò la verità fondamentale del capitale. In questo modo, Baudrillard attribuisce ancora più realtà, - se non tutta la realtà - al cosiddetto processo di equalizzazione dei segni, nello scambio di merci, anziché al processo reale di valorizzazione nella produzione, su cui il sistema economico in quanto tale si sostiene, anche quando questo processo è privo di accumulazione. Solo perché un'auto si guasta non significa che smetta di aver bisogno di un motore per andare avanti. La nozione di astrazione reale (Alfred Sohn-Rethel) descrive meglio il paradosso della produzione partendo dal presupposto inverso di un'astrazione inscritta negli atti reali di produzione, e ciò fin dalle origini del capitalismo. Baudrillard non riesce a vedere che la "differenza assoluta"(quella del plusvalore ottenuto dal lavoro e del processo di valorizzazione che esso mantiene), su cui si basa il capitale,  è precisamente quella che il capitalismo, nella sua auto-spiegazione legittimante, nega costantemente, sostenendo che il lavoro vivo e quello morto sono intercambiabili. Negando simbolicamente la differenza tra esseri umani e macchine, l'economia può continuare a ignorare la fonte da cui vive. Questa negazione è all'origine della dissoluzione di tutti i vecchi sistemi simbolici, che vengono trattati dal mondo capitalistico come se tutto fosse ormai meccanizzabile e quindi commutabile; e come se non ci fosse alcuna differenza assoluta. Ci sarebbero solo differenze procedurali! Secondo Marx, il sistema capitalistico nega quindi che esista almeno una differenza assoluta, ed è proprio questa che ne accelera il collasso. Lacan suggerisce - proprio alla fine del suo seminario sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964) - che la psicoanalisi mira a una "differenza assoluta" [*4]. Infatti, proprio come il capitalismo ignora la differenza assoluta su cui si fonda, anche la psicologia ignora la differenza assoluta tra la logica del significante e la comunicazione. Supremazia dello scambio e uguaglianza nello scambio, sono solo il mito della scienza economica ufficiale. Questo mito copre, maschera e nega la legge del valore su cui invece il sistema economico si basa. La mascheratura è così efficace che perfino Baudrillard può prenderla per buona: non ci sarebbe più una legge del valore (della produzione), e resterebbe solo l'intercambiabilità indefinita dei segni commutabili sul mercato dei segni! Armato di un'interpretazione superficiale dell'era dell'informazione, delle telecomunicazioni e dell'automazione, Baudrillard conferisce al nuovo dell'informazione una qualità di autoconsistenza e di autonomia in relazione alla produzione di valore, il quale rimane così inspiegabile da un punto di vista economico. Per quanto rilevante possa essere la sua critica all'ideologia della produzione, la sua critica all'economia si mostra nella sua ignoranza dell'economia. La nuova supremazia del "segno" dovrebbe rendere obsoleta quella che egli chiama l'epoca della produzione, che era ancora quella di Marx. Quest'interpretazione si basa su una permanente ambiguità intorno al termine "valore", usato a volte in senso marxiano (quello dell'economia politica), a volte in senso morale di "ciò che vale" e che è rappresentato da un segno. Un errore frequente, ahimè, ma fatale a qualsiasi critica all'economia politica. Si passa impercettibilmente dal valore economico al valore del segno senza accorgerci che in Marx il valore economico ha una definizione precisa, che fonda teoricamente la sfera economica propriamente detta. Baudrillard crede perciò di fuggire dall'economia, ma lo fa ignorando la logica economica, sostituendola con una celebrazione astratta dello "scambio simbolico". Tale processo teorico consiste nel cominciare riducendo l'intera sfera economica a uno scambio di equivalenti, per poi decretare che questo scambio di equivalenti è una bufala, dato che nessuna società opera su un simile scambio. Esiste sempre un surplus. La promozione dell'eccesso, da parte sia di Bataille che di Baudrillard, si basa pertanto su una fantasia che riguarda l'economia, e non su un'analisi di quello che è invece il suo reale funzionamento. Così facendo, si può persino credere che si stia sfuggendo all'imperialismo dell'economia semplicemente assolutizzando una nozione antitetica di scambio, vale a dire uno scambio che non sarebbe uno "scambio di equivalenti", ma uno scambio sempre già segnato dall'eccesso. Così, alla fine, le penetranti analisi di Baudrillard sulla disponibilità del corpo produttivo e sulla naturalizzazione della produzione si riducono a essere una semplice ideologia in via di superamento, quella che egli chiama "l'economia politica del segno". L'interpretazione della produzione, vista come ideologia sotto il regime dell'equivalenza generale, gli fa perdere le conseguenze della propria intuizione. dal momento che egli non si pone la questione della sostenibilità materiale del sistema di produzione – che dovrebbe comunque essere analizzato con i criteri dell'economia e non con quelli della semiotica – si trova costretto a interpretare la crisi, non come una crisi materiale della produzione di valore, con il suo corteo di conseguenze sociali, quanto piuttosto come una crisi ideologica del paradigma produttivo, la quale viene colta e sostituita da una crescente incapacità del sistema di riprodursi simbolicamente sotto il regime cibernetico. Ma la cibernetica non è altro che il tentativo di compiere l'indistinzione tra uomo, macchina e natura per mezzo di una teoria sistemica generale degli scambi che Baudrillard non riesce tuttavia a criticare proprio a causa della sua stessa ipostasi di scambio. La negazione del simbolico da parte della cibernetica costituisce la generalizzazione del principio fondamentale dell'economia, vale a dire la presunta sostituibilità del lavoro morto al lavoro vivo. Resta il fatto – e Baudrillard insiste giustamente su questo punto – che, senza una funzione simbolica, nessuna società può esistere in quanto società, a meno che essa non diventi davvero l'alveare di Mandeville.

Il capitalismo ha un principio differenziale fondamentale. E questo principio socialmente operativo – vale a dire, la sua capacità di formare la società – è la legge del valore. L'unica "differenza assoluta" che domina il sistema è pertanto quella esistente tra il dispendio energetico di forza-lavoro umana che crea valore, da un lato, e dall'altro il dispendio energetico della forza-lavoro macchinica che non lo crea. L'intera sopravvivenza del sistema economico, e l'intero sviluppo interno della sua crisi si basano su questa differenza, che viene radicalmente negata dalla scienza economica ufficiale. L'economia si basa sulla negazione del proprio fondamento; Essa estende e moltiplica i suoi giochi di prestigio, trasformando gradualmente tutto ciò che esiste in uno sforzo assolutamente vano di equalizzazione astratta degli scambi, di cui la termodinamica, la cibernetica e i sistemi sono la massima espressione. Quanto più l'intera vita umana viene mercificata - cioè resa monetizzabile e scambiabile (nei termini di Marx: virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc.) - tanto più l'economia finisce per trovarsi messa con le spalle al muro dalla propria legge del valore. In questo modo, la legge fondamentale del capitale (la creazione di valore dal lavoro) assorbe gradualmente l'intera funzione simbolica, senza abolire la legge del valore che ne costituisce il limite simbolico. Raccontando a sé stesso il suo processo come se fosse uno scambio egualitario tra partner contrattuali alla pari, il capitale copre il proprio funzionamento simbolico: la produzione di un aumento di valore proveniente unicamente dal lavoro umano, in una forma sociale che tende a eliminare il lavoro umano dalla produzione. Più l'egualitarismo si afferma nel discorso, più questa legge fondamentale del valore viene mascherata. Lo sforzo di livellare tutte le differenze mira – invano – ad arrivare a quella differenza che governa la produzione di valore. Ciononostante, impone la sua legge ferrea a tutta la società. È simbolico, in quanto è al centro della riproduzione della totalità della società capitalistica e la tiene insieme, anche negativamente. La celebrazione narcisistica, o reazionaria, della piccola differenza, fatta sulle rovine dell'ordine simbolico, non ha nulla da dirci sul simbolico. Il simbolico è costituito proprio dalla differenza assoluta, quella che fa consistere un ordine sociale, e non dalla semplice affermazione di uno scarto processuale, differenziale, che Derrida ha chiamato différance. Nel capitalismo, la differenza assoluta è perciò quella della produzione di valore, omogenea al processo storico di riduzione - di tutti gli esseri e le cose, di tutti i processi -  a delle quantità calcolabili, attraverso una serie di operazioni meccaniche, formalificabili, con cui la macchina simula il vivente, senza mai sostituirlo. La sua completa sostituzione dovrebbe coincidere con il crollo definitivo del sistema, ma anche con l'abolizione della funzione simbolica che avviene sotto lo scatenarsi dell'automatismo della ripetizione (della pulsione di morte). L'automatismo della ripetizione testimonia il fatto che questo unico principio simbolico, che presiede alla creazione del valore economico, assorbe gradualmente l'intera funzione simbolica. La separazione sociologica dei vivi e dei morti diagnosticata da Baudrillard, trarrebbe quindi beneficio dall'essere collocata in questa matrice fondamentale della riproduzione globale del sistema economico. Baudrillard prende alla lettera l'auto-spiegazione del capitale – la promozione di piccole differenze basate sulla negazione della propria differenza fondamentale. Il capitale ci dice che non c'è più alcuna differenza simbolica (che ci sono solo variabili), ma ci nasconde il suo principio simbolico fondamentale, un principio di riproduzione che assorbe tutte le altre funzioni simboliche nella speranza di sopravvivere. Questo è precisamente il punto di intersezione tra la psicoanalisi come critica della psicologia e il marxismo come critica dell'economia politica. Che dire allora della psicoanalisi? Gli psicoanalisti, che Lacan chiamava i «praticanti della funzione simbolica» [*5], si fanno carico delle ricadute individuali di questo ordine capitalista, il cui unico fondamento simbolico è la produzione di valore attraverso il lavoro. La psicoanalisi si occupa delle conseguenze, che per l'individuo ha l'essere un ingranaggio in questo modo di produzione. Si tratta delle vestigia di una funzione simbolica che è in procinto di scomparire. Essa tratta questo ordine simbolico dal punto di vista degli effetti della soggettività che esso implica. Si torna alle conseguenze soggettive di questa differenza assoluta costantemente negata dall'ordine economico, per il quale assolutamente tutto, senza eccezioni – le parole e le cose – è scambiabile sul mercato. Nonostante la promozione post-lacaniana di un'ideologia astratta del “linguaggio”, la psicoanalisi si occupa solo dei residui dell'ordine simbolico da cui è emersa, ossia l'ordine capitalistico, poiché un sistema simbolico è definito dalla sua natura collettiva. Pertanto, come disciplina e come discorso, è soggetta allo stesso progressivo riassorbimento di tutto il resto dell'ordine simbolico nel “soggetto automatico” capitalista. Sebbene possa aiutare alcuni soggetti a cavarsela, non è in grado di resistere da sola a questo rullo compressore. L'ipostasi del singolare, su cui si basa una certa lettura della psicoanalisi, è espressione della tendenza postmoderna a ignorare la natura di questo rullo compressore. Poiché la comprensione della logica economica ha conseguenze anche per la teoria della lotta contro l'economia. Ne lo Scambio simbolico e la morte Baudrillard afferma che "il sistema" (da lui invariabilmente designato in tale forma indefinita) non sarà mai distrutto dall'intervento diretto: il capitale ricicla ogni critica. Sarebbe quindi necessario spostare la lotta sul terreno simbolico. Cosa significa questo, secondo Baudrillard? «Sfidare il sistema con un dono a cui esso non può rispondere, se non con la propria morte e con il proprio collasso». (Lo scambio simbolico e la morte, p. 64) Questa posizione, immutata, attraversa tutto il suo lavoro.Lo troviamo nella sua interpretazione del terrorismo come atto singolare che si oppone al trionfo della globalizzazione, e come sfida alla morte, o sfida alla logica moderna dello sfratto sociale della morte. Questo per conferire agli atti anomici un potere simbolico positivo ed enfatico. Questa interpretazione nasce da un'ipostasi di morte identificata con lo "scambio simbolico" nelle società premoderne, e poi trasposta senza ulteriori indugi nella società capitalistica, il cui "sistema" viene decifrato solo come un sistema di segni commutabili che assorbe ogni riferimento alla realtà. L'interpretazione della morte nel capitalismo rimane quindi inchiodata a osservazioni sociologiche che non riescono a cogliere il rapporto fondamentale tra i vivi e i morti nel processo di produzione capitalistico, nucleo reale di un'autofagia della funzione simbolica in sé.

- Sandrine Aumercier - pubblicato il 16/2/2025*** su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -

*** Questo testo è la versione scritta di una relazione tenuta al seminario "Psicoanalisi e capitalismo" il 15 febbraio 2025 al Café Plume di Berlino, basata sulla lettura collettiva di brani selezionati dai libri di Jean Baudrillard Lo specchio della produzione e lo scambio simbolico e la morte.

NOTE:

[1] Su quel che segue, ci baseremo su Jean Baudrillard, Pour une critique de l'économie politique du signe (Parigi, Gallimard, 1972); Jean Baudrillard, Le miroir de la production, Parigi, Galilea, 1975; Jean Baudrillard, L'échange symbolique et la mort, Paris, Gallimard, 1976; Jean Baudrillard, Simulacra et simulations, Paris Galilée, 1981.

[2] Jacques Lacan, Da un altro all'altro, Parigi, Seuil, 2006, p. 321.

[3] Raphaël Bessis, Lucas Degryse, "Intervista a Jean Baudrillard", Le Philosophoire, 2003/1, n. 19.

[4] Jacques Lacan, Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Paris, PUF, 1973, p. 248 , Parigi, PUF, 1973, p. 248: «Il desiderio dell'analisi non è un puro desiderio. È il desiderio di ottenere la differenza assoluta, quella che interviene quando, di fronte al significante primordiale, il soggetto si trova per la prima volta nella condizione di sottomettersi ad esso.»

[5] Jacques Lacan, "Fonctions et champ de la parole et du langage", in Écrits, Paris, Seuil, 1966, p. 284.

martedì 25 febbraio 2025

Josefine

Tra le tante cose, il racconto di Kafka su Josefine - la cantante del popolo dei topi - è una meditazione sulle relazioni esistenti tra parola e scrittura: nel racconto non si fa mai menzione alcuna di ciò che costituisce la dimensione scritta della letteratura/narrazione, ma si parla solamente della sua dimensione orale; è per mezzo del suono, unicamente ed esclusivamente, che Josefine comunica, ed è solo grazie al suono che il suo popolo interpreta la sua esibizione, la sua performance, la quale risulta essere allo stesso tempo insolita e familiare, affascinante e ripugnante. Al punto che, nel finale del racconto, la rappresentazione orale eseguita da Josefine si lega alla possibilità dell'oblio, della dimenticanza (a causa della pregiudiziale tendenza a biasimare quella memoria che è la scrittura, condannata da Platone; come ci ricorda Jacques Derrida quando scrive del "pharmakon", del veleno/rimedio). Vediamo che caso specifico di Kafka - e della tradizione ebraica, da lui mobilitata e recuperata nel racconto di Josefine - l'uso dell'oralità (che ne fanno tanto la cantante quanto il suo popolo) si lega anche alla sopravvivenza: il popolo dei topi è un popolo che vive sottoterra; ed è un popolo che pensa solo al lavoro, proprio in quanto è questa sua concentrazione a garantirne la sopravvivenza. E in questo caso, l'oralità diventa qualcosa che può essere mantenuta all'interno di, e grazie a, un cerchio di fiducia: la narrazione circola tra quelle che sono delle orecchie preparate, e avviene nel quadro di un ascolto collettivo che viene predisposto di generazione in generazione, in modo da riuscire così a evitare il contagio esterno (e su questo specifico punto del contagio, vediamo come ci siano importanti connessioni e punti di contatto tra la tradizione ebraica e quella greca: la tragedia greca del V secolo a.C. presenta e offre una carica di angoscia permanente riguardo il... contagio). Dall'incontro e dalla commistione di tradizione orale e oblio nasce un terzo tema, anch'esso fondamentale per Kafka: il silenzio (si pensi alla sua favola postuma "Il silenzio delle sirene"), può essere interpretato non solo come il necessario fine necessario di ogni narrativa/letteratura, ma viene anche declinato come se fosse il fine ineludibile di ogni pensiero (ed è un contemporaneo di Kafka - Wittgenstein - che sottolinea nel suo Tractatus, del 1921: «Tutto ciò che può essere detto si può dire in modo del tutto chiaro; e su ciò di cui non si può parlare si deve tacere»).

«”Presto verrà il momento in cui risuonerà il suo ultimo squittire, e finirà”, scrive Kafka di Josefine nel penultimo paragrafo del racconto. Il "popolo dei topi", sarebbe rimasto per Kafka l'immagine ultima della comunità», (Roberto Calasso: da "K". Adelphi).

fonte: Um túnel no fim da luz

domenica 23 febbraio 2025

Una Strada nel Terremoto…

Perché cantare il mondo in rovina?
- Concepire scenari terrificanti ha una peculiare funzione immaginativa. Ci porta a riflettere: ci sono alternative alla logica del capitale, che trascina il mondo verso il disastro? E, quindi, ad affinare le soggettività per poter affrontare ciò che il sistema ritiene ineludibile  -
di Débora Tavares

L'idea che ci troviamo a vivere in un film, o in un libro distopico, trova costantemente un'eco in quella che è la nostra realtà contemporanea. E questo non è un caso, visto che le condizioni materiali in cui viviamo sembrano determinare le idee che abbiamo. Sulla base di una simile premessa, si può fare una buona riflessione facendo uso del concetto di "realismo capitalista", propostoci da Mark Fisher: in quanto esso ci invita a pensare a come, non solo stiamo vivendo in una distopia, ma come tutto questo sia qualcosa di più complesso e, soprattutto, di contraddittorio, dal momento che la realtà è, di fatto, ancora più degradante e limitante di quanto possono mai riuscire a esserlo molte distopie letterarie. A partire da questo, l'analisi secondo cui la realtà supera la finzione può essere meglio compresa partendo dalla prospettiva del materialismo storico dialettico, la quale ci permette di vedere questa "distopia capitalista" come il risultato di processi storici ed economici che sono in costante trasformazione. Come ci ricorda Brecht, «Nei tempi oscuri si potrà ancora cantare? Allora si dovrà cantare dei tempi oscuri» [*1]. In altre parole, nei tempi di crisi, l'elaborazione nell'arte e nella cultura sembra essere un potente strumento di riflessione e di trasformazione. Sembra che provenga da questo la sensazione di essere stati inseriti in una crudele sceneggiatura distopica.    

Mark Fisher sottolinea come sia «più facile immaginare la fine del mondo, piuttosto che la fine del capitalismo». Una tale affermazione riflette una condizione secondo cui veniamo avvertiti del fatto che il capitalismo si è naturalizzato, fino al punto da essere diventato una "realtà ineluttabile", la quale riprende i dettami neoliberisti di Margaret Thatcher allorché affermava che non esiste alternativa al capitalismo; consacrato attraverso TINA (there is no alternative), che impone la presunta logica ineludibile del capitale. Nella prospettiva materialista dialettica, questa naturalizzazione avviene a partire dall'egemonia dell'ideologia capitalista, la quale ci impedisce la percezione delle alternative; dopotutto, Marx diceva che «le idee della classe dominante sono, in ogni epoca, le idee dominanti» [*2]. Ed ecco che così, in questo modo, la sensazione di una distopia, proprio ora e qui, cessa di essere un futuro lontano, ma diventa essa stessa una condizione presente e sistemica, nella quale viene compromessa persino la capacità stessa di immaginare la fine del capitalismo. La distopia letteraria, nella quale spesso vengono denunciati regimi oppressivi e realtà disumanizzanti, funge pertanto da forma di critica sociale e culturale. Tuttavia, il capitalismo spezza il legame tra passato e presente, producendo una disconnessione rispetto all'origine delle catastrofi e alimentando l'assenza di speranza. Gregory Claeys [*3], riflette sul fatto che ciò che sembra irreale nella finzione si rivela essere invece storicamente accurato, e cattura le estreme perversioni della mentalità che governa il capitalismo. Questo dimostra che la narrativa distopica ci aiuta a vedere cos'è già la realtà, ma lo fa attraverso dei mezzi metaforici. Sotto il capitalismo, l'ideologia diventa un meccanismo di controllo che impedisce una critica efficace del sistema, rafforzando l'idea che esso sia naturale e ineluttabile. A partire dal XIX secolo, Marx ci permette di capire meglio come l'ideologia non sia neutrale: essa è una costruzione storica, e quindi può – e deve – essere superata. In tutta la sua opera, Marx ci ricorda come l'educazione, il lavoro e persino la cultura siano plasmati da questa ideologia, che penetra tutte le sfere della vita sociale ed elimina la speranza di un futuro diverso. È una tale prospettiva di analisi, quella che ci consente di capire che la sensazione di svegliarsi, e di trovarsi di fronte a un telegiornale distopico, emerge dalle stesse contraddizioni interne del capitalismo. Se da un lato questo sistema promette un certo grado di progresso e di benessere per alcuni  - quello che Chomsky chiama «socialismo per i ricchi, capitalismo per i poveri» [*4] - dall'altro, per gli emarginati, genera invece povertà, alienazione e distruzione dell'ambiente, a spese del loro sfruttamento, creando così un mondo pieno di opportunità solo per chi ha il potere. Gregory Claeys sottolinea il fatto che la struttura di una narrazione distopica rivela le suddette contraddizioni ed evidenzia anche quanto la stessa struttura capitalistica alimenti la disuguaglianza e la distruzione. Un altro aspetto ricorrente, allorché affrontiamo questo tema della distopia, è quello dell'avanzamento tecnologico che, anziché promuovere la libertà, intensifica invece proprio il controllo sugli individui.

Walter Benjamin [*5] ci ricorda in che modo, nel capitalismo, il progresso funzioni solo per alcuni: «Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta.» Benjamin ci ricorda anche che, sotto il capitalismo, la tecnologia viene sviluppata e utilizzata per consolidare il potere delle élite, non per umanizzare e migliorare la comunicazione tra le comunità. Nella società odierna, la sorveglianza e il controllo digitale rappresentano una nuova forma di alienazione e oppressione, un potere invisibile che limita l'autonomia dei soggetti, e che ora produce più valore nel formato delle piattaforme e degli oligopoli tecnologici. In tal modo, la cultura, nel tardo capitalismo, diventa anche uno strumento di controllo, poiché funziona come una sovrastruttura istituzionale che rafforza i valori dell'infrastruttura economica: sfruttamento, disuguaglianza e profitto. L'intrattenimento di massa e la pubblicità consolidano lo status quo, rafforzando l'ideologia capitalista, tanto che alcune opere distopiche, come 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley, hanno già elaborato questa riflessione in forma letteraria, poiché gli oggetti culturali sono una costruzione che riflette nella forma e nel contenuto i rapporti di produzione della società nella quale sono stati creati. Così, anziché pensare di trovarci spersi nei corridoi del Ministero dell'Amore di 1984, possiamo invece riflettere sul ruolo che queste narrazioni hanno rispetto a un mondo in rovina. La distopia sfida il sistema egemonico, immaginando realtà che rompano con i valori dominanti. Agisce come uno strumento immaginativo, consentendo un cambiamento di prospettiva e promuovendo la speranza di rompere con i valori attuali. Concependo lo scenario peggiore (da qui il termine distopia, in greco un "brutto posto"), la narrazione distopica ci invita a pensare a cosa possiamo fare per evitare che un simile scenario si materializzi. Tale funzione immaginativa, è in grado di proiettare un esito alternativo ed egualitario, e forse è per questo che la letteratura è così uno dei tanti altri spazi nel quale possiamo immaginare ciò che il sistema ritiene impossibile: la fine del capitalismo. Ecco perché è necessario ribadire che non viviamo in una distopia, dal momento che la realtà supera già la finzione, proprio in quanto essa è ancora più crudele, contraddittoria e - letteralmente - reale. La speranza di una società emancipatrice, viene vista come "ingenua" solo perché il sistema attuale blocca la nostra capacità di immaginare un futuro diverso. Tuttavia, è proprio dall'analisi critica e a partire da una mobilitazione efficace che si intravede una realtà umanizzante, come suggeriva Carlos Drummond [*6]: «allora è il momento di ricominciare tutto da capo, senza illusioni e senza fretta, ma con la testardaggine dell'insetto che cerca una via nel terremoto».

- Débora Tavares - Pubblicato il 21/2/2025 su OutrasPalavras -
 

Riferimenti

[1] BRECHT, Bertold. Bertolt Brecht: Poesia: 60. São Paulo: Perspectiva, 2019.

[2] MARX, Karl. L'ideologia tedesca. São Paulo: Boitempo, 2007.

[3] CLAEYS, Gregorio. Distopia: una storia naturale. Oxford: Oxford University Press, 2018.

[4]POLYCHRONIOU, C. J. "Socialismo per i ricchi, capitalismo per i poveri: un'intervista con Noam Chomsky". Truthout, 11 dicembre 2016.

[6] DRUMMOND, Carlos. Autoritratto e altre cronache. São Paulo: Record, 2018.

sabato 22 febbraio 2025

Col Sangue agli Occhi…

Per capire il tardo fascismo
Il critico culturale italiano avverte: le analogie con Hitler o Mussolini sono di scarso valore. L'ultradestra si abbevera ai metodi della dominazione coloniale e razzista, riemerge ogni volta che l'ordine del capitale è sotto scacco ed è convocata dalle democrazie liberali...
- di Lisa Lowe -

Nel mondo contemporaneo, le bombe distruggono inesorabilmente scuole, ospedali e riserve d'acqua, costringendo le persone ad abbandonare le proprie case. Le misure di "austerità" approfondiscono quelle che già sono le voragini economiche globali, nel mentre che i governi autoritari sottopongono i più vulnerabili, poveri e senzatetto, alla violenza di stato e all'incarcerazione. È un tempo questo, per usare le parole scritte da Gramsci in un carcere fascista un secolo fa, nel quale «(...)il vecchio mondo muore e il nuovo non può nascere»; dove i fallimenti di un vecchio ordine politico-economico e i "sintomi morbosi" degli Stati-nazione imperiali afflitti da crisi di legittimazione convivono con le alternative emergenti che faticano a nascere. In tutto il mondo, le folle scendono in piazza per chiedere un cessate il fuoco a Gaza; per protestare contro le uccisioni di uomini e donne neri disarmati, da parte della polizia, in Nord America; per chiedere alloggi per i migranti, e la fine dell'incarcerazione di massa; e per proteggere i corsi d'acqua e la Terra dalle estrazioni e dalle costruzioni di oleodotti. Il caos che deriva dalla morte del regime reca in sé le sue stesse atrocità insieme alle nuove forme di terrore, ma rende anche possibili tuttavia anche quelle nuove relazioni sociali che non sono ancora state realizzate. Questi movimenti collettivi – che attraversano diverse storie coloniali e capitalistiche, insieme alle loro regioni e popolazioni – comprendono delle condizioni differenziate ma interconnesse di promessa e di pericolo, che proprio in questo momento storico urgente, e talvolta incomprensibile, si uniscono tra di esse.

   Ho letto il libro erudito, elegantemente ponderato e pazientemente argomentato di Alberto Toscano [***], "Late Fascism" [N.D.T.: in italiano, "Tardo Fascismo", edizioni Derive Approdi], come uno sforzo per offrirci i mezzi storici e filosofico-politici per poter comprendere il fascismo nel nostro tempo; mentre che si fanno i conti con il fascismo a lungo termine. I linguaggi politici disponibili sono saturi di logiche liberali, e così spesso velano e ostacolano la comprensione del "presente politico". Contribuiscono all'errato riconoscimento del "fascismo", mostrandocelo come spettacolare ed eccezionale, piuttosto che invece come parte integrante del moderno matrimonio tra democrazia liberale e capitalismo. Il "tardo fascismo" di Toscano, sottolinea come questo errato riconoscimento sia un ostacolo primario alla comprensione, all'organizzazione e alla lotta efficace contro le molteplici contraddizioni del nostro presente politico. Nel discutere la natura e l'eziologia del tardo fascismo, Toscano ci accompagna oltre gli esempi europei del  "tipo ideale" di fascismo relativo al periodo tra le due guerre, e decostruisce la presunta opposizione tra fascismo e democrazia liberale, sottolineando come il fascismo non sia monolitico o generico, e come esso non abbia un modello unico e statico, passando per il quale possiamo identificare delle analogie, spuntando un elenco di caratteristiche, e sostiene che dovremmo invece affrontare il fascismo vedendolo come un processo che ha molteplici origini, località e temporalità, e che si verifica dinamicamente in relazione a delle condizioni specifiche. In un certo senso (sebbene non la metta esattamente proprio così), Toscano sostiene che «il fascismo è una struttura, e non un evento», nel senso che non è un'aberrazione del periodo bellico europeo, né uno stato naturale originario dal quale emerge l'antidoto alla libertà politica liberale; ma rappresenta piuttosto una caratteristica persistente della storia del liberalismo colonizzatore, e del capitalismo coloniale. La democrazia liberale non è l'antidoto al fascismo, ma ne è piuttosto la sua condizione di possibilità. Il governo fascista può anche includere - ma non è limitato esclusivamente a essi - anche gli stati autoritari ultranazionalisti. Nell'ambito degli Stati liberali, questo fenomeno alimenta la perdita economica e l'abbandono sociale, accumula le irrisolte energie libidiche ataviche sprigionate dalle crisi e dalle crudeltà dell'ordine sociale diseguale, e le rivolge contro gli altri soggetti razziali, religiosi, sessuali e di genere. Toscano elabora inoltre l'ipotesi che si possa intendere il fascismo in quanto costellazione di formazioni reattive per mezzo di apparati ideologici e statali, i quali hanno l'obiettivo di mantenere, o sostenere, un ordine sociale in decadenza. Questo non è separabile dai colonialismi, ma viene a essere piuttosto intimamente interconnesso all'espropriazione indigena storica e in corso, alla schiavitù e alla controrivoluzione delle piantagioni; i diversi fascismi si dispiegano in opposizione e in previsione di ribellioni insurrezionali che sfidano o trasformano l'attuale regime di proprietà, a partire dai popoli, dai luoghi e dalle regioni in cui viene stabilita l'occupazione e un tenue dominio. È questo il motivo per cui Toscano, per le sue incisive teorie sul fascismo, attinge in particolare alle tradizioni nere radicali e anticoloniali, non solo al fine di dimostrare che, se lo limitiamo all'Italia di Mussolini e alla Germania di Hitler, lo fraintendiamo! Ma anche per sostenere che il fascismo è una formazione ancorata al capitalismo razziale e coloniale, che lo precede e che persiste al di là dell'esempio europeo. Tra i molti contributi preziosi del libro, c'è quello che affronto nel resto dei miei commenti.

   I pensatori anticoloniali sono stati gli analisti più acuti del fascismo. Nel suo "Discorso sul colonialismo", del 1950, il martinicano Aimé Césaire identificò le origini del fascismo nel progetto di sottomissione coloniale, affermando che l'Europa riuscì a riconoscere la vergogna e la brutalità della «umiliazione dell'uomo» solo quando essa venne adoperata dai nazisti contro gli europei bianchi; qualcosa che «fino ad allora era stata riservata esclusivamente agli arabi d'Algeria, ai coolies dell'India e ai neri dell'Africa» [*1]. In "Come l'Europa ha sottosviluppato l'Africa", il guyanese Walter Rodney ha scritto che «il fascismo è stato un mostro generato da genitori capitalistici... Il prodotto finale di secoli di bestialità capitalistica, di sfruttamento, dominio e razzismo esercitati al di fuori dell'Europa» [*2]. George Padmore, di Trinidad, ha considerato l'apartheid in Sudafrica come lo Stato fascista classico, e il poeta afroamericano Langston Hughes ebbe spesso a dichiarare che le condizioni affrontate dai neri in America sono state "fasciste". Detto in altri termini, prima che la violenza nazista incarnasse il fascismo, i pensatori radicali neri stavano già descrivendo in dettaglio i fascismi, nel loro essere associati all'espropriazione coloniale e alla schiavitù razziale. Toscano cita "The Black Reconstruction in America" (1935), di W.E.B. Du Bois, leggendolo come testo chiave nell'analisi dell'intreccio tra fascismo e democrazia liberale. Du Bois sosteneva che la schiavitù era al centro del moderno capitalismo liberale. La brutale mercificazione degli esseri umani da parte della schiavitù, non ha smentito solo quelle che erano le pretese di democrazia liberale da parte degli Stati Uniti. La possibilità di una ribellione degli schiavi, ebbe anche il potere di trasformare quel sistema di violenta disuguaglianza razziale, e rese possibile ai liberali riuscire a parlare di "libertà universale". Du Bois affermava che la schiavitù non era un'aberrazione della democrazia liberale negli Stati Uniti; ma che essa era, e ha continuato ad essere, sistemica e costitutiva della democrazia americana, e dell'estensione del potere degli Stati Uniti in tutto il mondo. Il libro racconta la storia di mezzo milione di lavoratori neri che, attraverso il loro massiccio esodo, dalle piantagioni di schiavi del Sud, crearono una situazione simile a quella di una sorta di sciopero generale. Venne paralizzato il sistema delle piantagioni,fu rovesciata la Confederazione e si costrinse il Nord a dover assumere , come causa. l'abolizione della schiavitù. Ma "The Black Reconstruction" finisce per relazionare quella che Du Bois chiama la «controrivoluzione della proprietà»: la libertà dei neri venne bloccata per mezzo del consolidamento di un'alleanza bianca tra industriali del Nord e oligarchi del Sud, mentre si persuadevano i lavoratori contadini bianchi a rompere quella che si era configurata come un'alleanza interrazziale con i lavoratori neri. La “controrivoluzione della proprietà” ha esemplificato proprio una configurazione fascista che sosteneva il capitale bianco e la supremazia bianca in opposizione a una potenziale “insurrezione” che avrebbe potuto porre fine alla schiavitù e all'apartheid razziale, consentendo di sostituirle un ordine sociale costruito sull'accumulazione per mezzo dell'assoggettamento di esseri umani in cattività. In particolare, Toscano si concentra quello che Cedric Robinson chiamava il «la costruzione nera del fascismo». Mostra fino a che punto, oggi, siano sottovalutati i teorici del fascismo americano; dalle Pantere Nere della fine degli anni '60 e dei primi anni '70, agli scritti carcerari e alla corrispondenza dei prigionieri politici, come Angela Davis e George Jackson. Pertanto, invita a ripensare il dibattito teorico sul fascismo, facendolo in relazione alla situazione dei neri americani incarcerati sotto il capitalismo razziale. In quanto prigionieri politici, Davis e Jackson intendevano il fascismo vedendolo come una forma di controrivoluzione preventiva, che utilizzava strutture carcerario-giudiziarie per poter sopprimere le minacce all'ordine sociale capitalistico strutturato sulla dominazione bianca, che venivano percepite.In altri termini, i fascismi sono segnali di crisi del capitalismo razziale e degli eccessi imperiali, che si installano sia sulle debolezze dell'ordine politico-economico che sulla vulnerabilità dell'opposizione ad esso. Toscano commenta dicendo che il fascismo è «reattivo, non solo in termini di contenuto sociale, ma anche sotto il profilo temporale, in quanto risponde, o immediatamente, a una potenziale rivolta rivoluzionaria trionfante o, in maniera mediata, a una sfida oramai vinta o in via di estinzione» [*3].

   Nel comprendere che il capitalismo è intrinsecamente instabile, possiamo osservare come esso entri in crisi allorché la contraddizione tra accumulazione e sfruttamento raggiunge un livello insostenibile, insopportabile che si esprime - da un lato - nella sovrapproduzione, nella diminuzione dei profitti e nella disoccupazione; e dall'altro nell'aumento delle disuguaglianze economiche, nella segregazione razziale e nel controllo delle comunità povere e non bianche. Negli Stati Uniti, queste contraddizioni hanno prodotto, dialetticamente, antagonismi per tutti gli anni '70, che esplosero nei movimenti radicali del Potere Nero, Marrone, Giallo e Rosso, negli scioperi dei lavoratori, nelle ribellioni urbane e nei movimenti sociali, dalle femministe nere, fino ai movimenti anti-apartheid e a quelli contro la guerra. A tutti loro, lo Stato ha risposto accrescendo la propria capacità militare, le forze di polizia e carcerarie dello Stato. Ruth Wilson Gilmore ci ha insegnato molto su come, negli anni '80, queste contraddizioni abbiano portato all'espansione del sistema carcerario degli Stati Uniti. Per giustificare sé stesso e il suo monopolio della forza, lo Stato ha lavorato ideologicamente, in modo da costringere a un'identificazione con la cittadinanza multiculturale, punendo così, invece, tutte le "minacce" alla sicurezza nazionale di quella cittadinanza, distinguendo, nel farlo, tra l'uso "legittimo" della forza da parte della polizia e delle forze armate, da una parte, e la violenza "illegittima" del dissenso e della ribellione, dall'altra. Nonostante l'espansione delle funzioni repressive dello Stato abbia moltiplicato gli spazi in cui le comunità sono state rese vulnerabili alla violenza dello Stato, tale violenza tuttavia non si limita solo all'incarcerazione, alla militarizzazione o alla polizia. Le comunità povere, immigrate e razzializzate, precedentemente colonizzate, sono state anche devastate dalle privatizzazioni neoliberali, dalla deregolamentazione e dall'estrattivismo: tutte cose che proteggono le imprese e minano le tutele del lavoro e dell'ambiente degli indigeni; dalla suburbanizzazione e dalla sorveglianza mirata degli spazi sociali urbani; dal panico morale nei confronti della “criminalità urbana”, degli immigrati, delle donne nere e non bianche e delle comunità queer. Anche queste sono tutte operazioni legate e coinvolte nell'espansione dello Stato carcerario statunitense. Angela Davis e George Jackson, nei loro scritti e nella corrispondenza carceraria, discutono l'espansione del sistema carcerario, da parte dello stato degli Stati Uniti, vedendolo come una forma esemplare di fascismo, la quale combina il capitalismo monopolistico, l'imperialismo e le crisi capitalistiche con la soppressione controrivoluzionaria del dissenso politico. In "Tardo Fascismo", Toscano discute a proposito di una delle lettere dal carcere di George Jackson, che si trova in "Col Sangue agli Occhi" (1972). Jackson scrive:

«Quando vengo intervistato da un membro della vecchia guardia e indico il cemento e l'acciaio, il minuscolo dispositivo elettronico di ascolto nascosto nel condotto di ventilazione, la falange di scagnozzi che ci scruta con il suo registratore di plastica a malapena funzionante che gli è costato una settimana di lavoro, e faccio notare che queste sono tutte manifestazioni del fascismo, egli tenterà invariabilmente di confutarmi definendo il fascismo semplicemente come un affare geo-politico economico in cui solo un partito è autorizzato a esistere e non è consentita alcuna attività politica di opposizione.» [*4]. Jackson identifica la prigione come un apparato del fascismo, e lo fa dal punto di vista di un prigioniero politico nero accusato di attività rivoluzionaria armata, che poi è stato assassinato dalle guardie carcerarie. Come prigioniero politico nero, inquadrato in quanto "minaccia" ribelle al monopolio della forza dello Stato, Jackson scrive in maniera trasparente circa la configurazione controrivoluzionaria del fascismo, e sottolinea la materialità del complesso industriale carcerario, dalle tecnologie di sorveglianza, al lavoro svalutato del personale carcerario. Jackson sta commentando il fascismo, e lo vede come ciò che Gilmore avrebbe poi chiamato la «ristrutturazione dello Stato capitalista» mentre cerca di andare avanti, ma non ci riesce. Gilmore enfatizza come la “soluzione carceraria”, adottata dallo Stato razziale americano del dopoguerra per far fronte al fallimento del capitalismo, non sia un fenomeno isolato. La decisione di costruire prigioni che incarcerino in modo sproporzionato uomini e donne neri – e di investire in punizioni industriali, in polizia e militarismo, piuttosto che nel benessere pubblico, nell'assistenza sanitaria o nelle scuole – è stata fondamentale ai fini di una riorganizzazione strutturale di «uno scenario di accumulazione ed espropriazione» del dopoguerra. Come osserva Toscano, il fascismo non è solo una ristrutturazione controrivoluzionaria dello Stato capitalista. Si tratta anche di un'azione preventiva e anticipatrice rispetto a una resa dei conti differita, soppressa o in corso.

- Lisa Lowe - 3/5/2024 -  Pubblicato su Outras Palavras il 17/2/2025

***Alberto Toscano è uno dei teorici politici più significativi e originali del nostro tempo. In "Tardo Fascismo", si occupa di un ampio spettro di pensiero antifascista: da Ernst Bloch, George Bataille e Leo Lowenthal ad Angela Davis e George Jackson; da Stuart Hall e Ruth Wilson Gilmore a Jairus Banerji e a Furio Jesi. Ritraendo il fascismo, non come un monolite ma come una serie di risposte alla crisi coloniale e razziale del capitalismo, egli aiuta a far emerge il fascismo dall'impasse dell'analogia, fornendoci le risorse per comprendere efficacemente il nostro presente storico. Inoltre, l'esame che Toscano fa, della lunga durata del fascismo, si riferisce alla colonialità del presente. Nelle parole di Cedric Robinson, «resuscita eventi che sono stati sistematicamente cancellati dalla nostra coscienza intellettuale» [*5].  E ci permette di comprendere le nostre condizioni attuali in un modo del tutto nuovo.

NOTE:

1 - Discorso sul Colonialismo, Monthly Review Press, 1955/1972.

2 - Walter Rodney, Como a Europa subdesenvolveu a África, Verso Books, 1972/2018.

3 - Toscano, p34.

4 - George Jackson, Col Sangue agli occhi. Einaudi, citato da Toscano.

5 - Cedric Robinson, An Anthropology of Marxism, Ashgate, 2001.

giovedì 20 febbraio 2025

«una vera e propria immobilità cadaverica che pretende di essere una perenne forza viva» !!

Il Macchinario della Nuova Destra
- di Andrea Cavalletti -

1. Qualora non credessimo, o non fossimo interessati a credere, in quella che è un'autodefinizione tecnica, potremmo credere veramente all'esistenza di una “Nuova Destra”? E questo aggettivo, "nuovo", può essere applicabile a una fazione che, ad ogni costo e con ogni mezzo, ha sempre lavorato solo per conservare e salvaguardare le condizioni di dominio e di sfruttamento? Qualunque sia la risposta, il rischio rimane quello di continuare a ricadere nell'abitudine (un vizio antico, appunto) di cercare sempre dei fenomeni "nuovi" da capire, ossia di credere nel mito della novità (termine positivo), la quale sostituisce necessariamente tutto ciò che è stato scritto e trasmesso (termine negativo: il non nuovo). Questo mito si basa sulla linearità del progresso, e quindi sul presupposto secondo cui il vecchio fenomeno sarebbe quello che è stato già compreso; mentre invece quello nuovo diventa l'inconsueto, ovvero, ciò che dobbiamo capire. In altre parole, ci viene chiesto di comprendere un cambiamento: una novità della quale, però, supponiamo di conoscere già quali sono le condizioni. Ovviamente, una simile concezione della novità è paradossale, ma la sua ragion d'essere risiede proprio in quella forza dell'abitudine che nasconde l'evidenza. In realtà, l'idea stessa che ci sia sempre qualcosa di nuovo non è altro che l'affermazione secondo cui gli eventi seguono sempre il medesimo ordine, vale a dire, la pretesa di introdurre il consueto nell'insolito, lo stabile nell'instabile: si tratta sempre della stessa vecchia idea, la quale parla di un impulso al rinnovamento, e che rimane sempre la stessa. Riguardo ciò che oggi è il nostro problema, questa idea rappresenta l'altra faccia della concezione del fascismo, quella che lo vede come "fenomeno eterno": una definizione forse non incongrua, ma che va maneggiata con grande cautela e cura, poiché è proprio il fascismo (sia esso "vecchio" o "nuovo") che, per mezzo della particella "UR-", ne definisce i suoi concetti. Negli anni '70, quando il fascismo italiano (la cui continuità era rappresentata in parlamento dal Movimento Sociale Italiano) si impose sulla scena politica come se fosse qualcosa di nuovo, vale a dire, come "neofascismo", il mitologo Furio Jesi, nel suo libro "Cultura di destra", descrisse quello che è «l'elemento più caratteristico e diffuso della cultura di destra», definendolo come un «vero e proprio immobilismo cadaverico che pretende di essere una perenne forza vitale». Citando l'espressione di Oswald Spengler, «idee senza parole», Jesi descriveva l'ideologia di destra come una «macchina linguistica, o mitologica» che funziona diffondendo una fitta rete di cliché, stereotipi, luoghi comuni, formule che appaiono chiare proprio perché non hanno bisogno di essere compresi. Ecco che questo modo, ogni parola si riduce a essere un semplice intermediario di quello che precede tutte le parole, come se ognuna di esse alludesse a qualcosa, e che però non dovrebbe essere detto, un segreto che da sempre è stato condiviso dai soggetti e che, pertanto, li definisce in quanto appartenenti a un gruppo specifico. La macchina mitologica allude sempre a un mito, a qualcosa che risale al passato più remoto (identità, patria, origine, sangue e suolo). In altre parole, ci offre dei resoconti del mito (mitologie) che si riferiscono al mito, e allo stesso tempo lo nascondono. La macchina ci restituisce le mitologie di cui è fatta la sua superficie, mentre che allo stesso tempo allude alla presenza non verificabile del mito al suo interno. Per certi aspetti, questo modello linguistico e cognitivo ricorda la famosa descrizione che ci ha dato Foucault del dispositivo disciplinare del Panopticon, dove la presenza non verificabile del guardiano al centro della torre fa sì che i prigionieri si sentano sempre osservati. In maniera analoga, ai fini del funzionamento della macchina mitologica, non è essenziale che l'esistenza del suo contenuto sia certa: ciò che viene richiesto, è che semplicemente una tale esistenza sia possibile, ossia non verificabile. E se nel modello di Bentham la condizione coercitiva esclude tassativamente la possibilità di non credere alla presenza del guardiano, nel caso della macchina, cioè in assenza di coercizione, credere o non credere nell'esistenza del mito non è propriamente un'alternativa. La piena efficienza della macchina coincide con la sua totale indifferenza alle dicotomie vero/falso, credenza/incredulità. Ciò che dichiara di sostenere bisogna che sia semplicemente credibile, non vero in modo assoluto, ma possibilmente verosimile o plausibile.  Ad esempio, quando si tratta di razzismo antisemita: coloro i quali credono nei Protocolli dei Savi di Sion, non si preoccupano troppo della loro autenticità. La cospirazione non dev'essere un fatto comprovato, ma basta che essa sia semplicemente una possibilità. Pertanto, la macchina non opera sul piano della menzogna politica, e dell'azione politica  che richiede la menzogna: essa funziona a livello di chiacchiere e dicerie, che, per così dire, agiscono sulle azioni e le influenzano. E per quanto arrivi sempre “il punto, superato il quale mentire diventa controproducente”, e alla fine “il tentativo di sbarazzarsi dei fatti[*1] si dimostra fallimentare; c'è da dire che la macchina mitologica, tuttavia, non incorre in questi rischi. . Di conseguenza, la cultura di destra è per definizione una cultura complottista. Nelle parole di Jesi, si tratta della cultura, o della lingua, formata da quelle che sono idee senza parole, ossia formata solo da parole allusive, parole con la lettera maiuscola: Nazione, Famiglia... ma anche: Libertà, Rivoluzione [*2]. Come spiega Jesi: «la maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale della destra [...] È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano» [*3]. Le mitologie possono cambiare e rinnovarsi, ma la macchina continua a funzionare per conto suo. Per essere più precisi (e anche un po' ripetitivi), ciò che nasconde il centro immobile - quello che allude all'origine, al passato molto remoto o non verificabile - è proprio la novità.. Inoltre, la macchina può essere paragonata al Panopticon, dal momento che essa rappresenta l'uovo di Colombo, secondo quello che Karl Kerényi chiamava la "tecnicizzazione del mito". Realizza, in modo automatico e con la massima efficienza, la produzione e lo sfruttamento di mitologie, per scopi politici. Ora, come sappiamo, le mitologie politiche sono state prodotte per influenzare le masse: il funzionamento della macchina mitologica non costituisce altro che la produzione della "massa" stessa. Potremmo dire che la macchina mitologica produce – o aiuta a produrre – l'uomo-massa, e potremmo anche definirla come un dispositivo di soggettivazione in grado di operare su larga scala. In tal senso, l'ideologia di destra è sempre vecchia e allo stesso tempo sempre nuova, poiché le mitologie si rinnovano e si modificano quando necessario, a seconda che si collochino nel polo positivo o in quello negativo di questo instancabile dispositivo: mitologie del benessere o della sicurezza, mitologie della libertà di espressione, mitologie del Credito o del Debito illimitato, la mitologia degli immigrati che «stanno avvelenando il sangue del paese», la mitologia della Grande Sostituzione e quella dello Stile di Vita Americano, la mitologia della Famiglia Cristiana Eterosessuale e quella dell'Eredità Ariana...
 
2. Che cos'è una massa, cioè, il prodotto e, allo stesso tempo, il soggetto agente della macchina mitologica? Nel 1936, Walter Benjamin descriveva le masse come la piccola borghesia, la cui essenza è puramente psicologica... «la massa, concepita come un'entità impenetrabile e compatta, la massa, di cui Le Bon e altri hanno fatto l'oggetto della loro "psicologia di massa", è quella della piccola borghesia. La piccola borghesia non è una classe; infatti, in realtà, si tratta solo di una massa. E quanto maggiore è la pressione che su di essa esercitano le due classi antagoniste [in mezzo a cui essa si trova] – la borghesia e il proletariato – tanto più essa diventa compatta. In tale massa, l'elemento emotivo descritto nella psicologia delle folle costituisce un fattore determinante» [*4]. Questa non-classe, questa massa compatta, o massa in quanto tale, questo "sociologico scherzo della natura", è costituita dalla moltitudine di consumatori che sono stati radunati dal mercato capitalistico, la cui aggregazione casuale, segnata dagli antagonismi reciproci, diventa per i soggetti stessi semplicemente perturbante: «In questa masse, infatti, l'elemento emozionale descritto nella psicologia delle masse è un fattore determinante - sia che esse diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, sia che diano libero sfogo al fervore bellico, o all'odio per gli ebrei, o all'istinto di autoconservazione» [*5]. Ma questa disturbante vicinanza tra individui estranei l'un l'altro può venire da loro razionalizzata e vista come un «"destino" nel quale la "razza" si trova riunita» (Benjamin), o, potremmo persino dire, come identità, o come identità del "Popolo".  Le forze disgregatrici interne, vengono perciò rivolte contro lo straniero, il quale viene anche percepito come se fosse «il nemico nascosto in mezzo a noi». A questo punto, tornando al modello di Jesi, potremmo dire che la macchina mitologica funziona come uno strumento in grado di produrre e dirigere queste forze. La loro origine attiva risiede nella difficile, o impossibile, integrazione dell'individuo nella collettività, vale a dire, in quel sentimento di reciproca aggressività esistente tra consumatori, la quale non può e non deve essere placata, ma va piuttosto sfruttata e indirizzata verso un obiettivo che la macchina è sempre in grado di produrre. A dirigersi contro questo nemico, è una massa, una semplice moltitudine, la quale si definisce comunque popolo, presumendo così di avere una sola volontà. Tuttavia – e ancora una volta a rischio di essere ripetitivi e scontati – bisogna essere chiari: la massa in quanto tale non è un fenomeno naturale, ma è un prodotto storicamente caratterizzato. È la massa degli individui consumatori, isolati, egoisti, in competizione tra loro, ma uniti nello spazio del mercato capitalistico. La massa che razionalizza una simile condizione e che riconosce sé stessa in quanto "il popolo" è di conseguenza il risultato di un'ulteriore manipolazione. Quest'opera di fabbricazione viene portata avanti, e controllata, per mezzo di proiezioni mitologiche (e attraverso una prassi coerente fatta di intimidazione e di persuasione) dall'apparato statale: "il popolo", in realtà, non è altro che il soggetto della sovranità statale. Del resto, una perfetta trasformazione della massa in un popolo non potrà mai essere ottenuta, e ciò perché il mercato ha sempre bisogno di clienti, e il carattere antagonistico e competitivo di tutti questi clienti contraddice il carattere unitario de "il popolo". Il conflitto interno alla moltitudine (ovvero la competizione reciproca dei singoli soggetti messi insieme grazie al mercato capitalista) corrisponde così alla tensione continuamente irrisolta tra "massa" e "popolo". In altre parole, si tratta della tendenza contraddittoria in una moltitudine di individui che considerano oppressivo e illiberale proprio l'apparato stesso che dovrebbe costituirli in quanto "popolo", vale a dire, come quell'unità organizzata che essi affermano di essere (anche quando protestano).
 
3. La massa – o la folla – è un essere diviso, ed è - come è stato notato molte volte -  anche un essere effimero («un raggio di sole lo aggrega; un acquazzone la disperde», scriveva Gabriel Tarde, ed Elias Canetti gli farà eco: «la pioggia è la massa nell’istante della scarica, e della massa simboleggia pure il dissolvimento») [*6]: ma è scissa, perché la sua natura effimera dipende proprio dalla sua pretesa di essere duratura. L'economia di mercato capitalistica, con la sua sovrastruttura statale, è l'apriori storico della sua peculiare, instabile o "asociale socievolezza". Pertanto, anche in questo dobbiamo riconoscere la classica contrapposizione, evidenziata da Hobbes, tra il popolo e la moltitudine («la moltitudine contro il popolo»). Come si legge nel De Cive (XII, 8): «Il popolo è qualcosa che è uno, che ha una sola volontà, e al quale si può attribuire un'unica azione; niente di tutto questo può dirsi propriamente di una moltitudine. Il popolo governa in tutti i regimi. Perché anche nelle monarchie governa il popolo, poiché il popolo vuole per volontà di un solo uomo; ma la moltitudine sono i cittadini, cioè i sudditi. In una democrazia e in un'aristocrazia, i cittadini sono la moltitudine, ma la corte è il popolo. E in una monarchia, i sudditi sono la moltitudine, e (per quanto paradossale possa sembrare) il re è il popolo. Il volgo e coloro che poco riflettono su queste verità parlano sempre di un gran numero di uomini come se fossero il popolo, cioè la città; Dicono che la città si è ribellata contro il re (il che è impossibile), e che il popolo vuole o non vuole ciò che i sudditi mormoranti e scontenti vorrebbero o non vorrebbero, con il pretesto che il popolo incita i cittadini contro la città, cioè la folla contro il popolo» [*7].  Abbiamo già citato la famosa formula di Kant. Ma ora dobbiamo anche ricordare le parole scritte da Carl Schmitt, proprio a proposito della teoria di Hobbes e del passaggio dalla moltitudine (cioè lo stato di natura o la guerra di tutti contro tutti) al popolo (cioè lo stato civile): «Gli uomini che si uniscono in angosciosa inimicizia non possono vincere l'inimicizia, la quale è la premessa della loro unione» [*8]. Inoltre, non possiamo dimenticare che l'opposizione hobbesiana è stata descritta molte volte anche nel gergo dei sociologi politici. Con riferimento alla democrazia moderna e alla psicologia di massa di Le Bon, questo è stato brillantemente espresso da Theodor Geiger: «La democrazia non è affatto il governo dei molti (oclocrazia), bensì il governo dei tutti [...]. Quando Le Bon parla contemporaneamente del "potere della democrazia" e del "potere della folla", non fa altro che confondere demos e plethos (ochlos), democrazia e popolo. Nella sua struttura intellettuale, la democrazia appare essere particolarmente instabile; un'oligarchia non può svilupparsi interamente sotto forme democratiche [...], né un'oclocrazia può emergere da essa senza intaccare le forme democratiche. Nella democrazia reale, che è estremamente rara, non ci sono ochlos. Questi appaiono solo quando la democrazia, a causa del problema del leader, inizia a fallire. In una democrazia, il tutto è portatore di una politica pianificata, organizzata e legale. La politica della strada è una politica del risentimento, i cui soggetti sono i polloi, una politica la cui caratteristica essenziale è proprio il rifiuto della politica legale e costituzionale. […] E la sensazione che ogni legame debba diventare schiavitù, a un certo punto porta alla negazione del vincolo cosciente, del sistema legale in generale. Tutte le masse sono anarchiche. Nello spirito di Tönnies, potremmo dire: è il ritorno alla volontà di coloro che disperano dell'ordine arbitrario; e l'ovvio paradosso di questa volontà è la tragedia sociologica delle masse» [*9]. Se, come è stato osservato, la trasformazione completa della massa in popolo è irraggiungibile, espressioni come "paradosso" o "tragedia sociologica" descrivono, secondo lo stesso schema logico, una situazione di stallo irrisolvibile. In realtà, ci troviamo di fronte a due facce della stessa medaglia: la voce del popolo non sarà mai un mormorio sedizioso, proprio perché la massa non formerà mai un'unità, perché una moltitudine di individui riuniti non avrà mai, in ultima analisi, una sola voce. Pertanto, il "popolo", come concetto efficiente all'interno della logica dello Stato, esiste paradossalmente in quanto la moltitudine non sarà mai un popolo. È quindi perfettamente logico e necessario che, dal punto di vista del capitalismo, una delle risposte a questa situazione sia l'anarco-capitalismo individualista. Il fatto che questa ideologia reagisca alla realizzazione, da parte delle masse, del loro tragico paradosso è dimostrato da quella che è la sua prima affermazione lamentosa: «Lo Stato non è "noi"» [*10]. Quando l'affermazione fondamentale dell'anarchismo («lo Stato è quell'organizzazione nella società che cerca di mantenere il monopolio dell'uso della forza e della violenza in una determinata area territoriale» [*11]) viene associata alla precisazione secondo cui «lo Stato vive necessariamente della confisca forzata del capitale privato, ed [...] è profondamente ed essenzialmente anticapitalista» [*12], appare evidente che né lo Stato né l'anarchia, ma il Capitale, è la vera fonte di questo mormorio che ora cerca di trasformare la propria debolezza in un punto di forza, la sua problematica dispersione in voci individuali discordanti, nella soluzione del suo problema. Naturalmente, questo trucco magico può avere solo un certo successo sul palcoscenico statale. D'altra parte, di fronte all'impossibilità di costituire soggetti reciprocamente antagonisti in un popolo, non si può che rispondere – come fece Schmitt – offrendo il mito dell'identità tra popolo e nemico: si potrebbe credere che questa risposta sia data in buona fede, dato che proviene da chi non può non credere nel popolo; tuttavia, essa è la risposta della controrivoluzione preventiva, vale a dire di coloro che, intimiditi o meno, confidano nella forza dell'apparato statale e devono salvaguardarlo a tutti i costi i due poli, la massa e il popolo; i quali non sono in realtà altro che i due poli funzionali (nella loro tensione più o meno latente) della macchina statale: è infatti che la capacità di governare all'interno del suo campo di tensione, a volte molto turbolento, ciò che dà senso al nome stesso di governo, o alla cosiddetta "arte di governare". I due estremi, storicamente caratterizzati e in collaborazione all'interno di questo sistema in costante oscillazione, sono: la prevalenza del demos, della democrazia organizzata e giuridica nel senso di Geiger; il prevalere della moltitudine, la follia disgregatrice delle masse, la quale tuttavia deve necessariamente assumere la forma dello Stato, questa volta totalitario. Quest'ultimo punto è una prova innegabile di qualcosa che era già evidente a Ortega y Gasset: «È piuttosto sconcertante sentire Mussolini proclamare, con esemplare petulanza, come se fosse una prodigiosa scoperta appena fatta in Italia, la formula: "Tutto per mano dello Stato; nulla al di fuori dello Stato; nulla contro lo Stato". Questo dovrebbe bastare a vedere nel fascismo un tipico movimento di uomini-massa. Mussolini ha trovato uno Stato mirabilmente costruito, non da lui, ma proprio dal quelle idee e da quelle forze contro cui sta combattendo: dalla democrazia liberale. Lui si limita solo a usarlo in maniera spregiudicata […] Attraverso e per mezzo dello Stato, una macchina anonima, le masse agiscono per sé stesse» [*13]. Una simile azione - veramente tipica delle masse - non nega in alcun modo la loro "tragedia", ma la conferma e la porta fino all'estremo. Così ora, ormai mitologicamente identificate con il popolo o con lo Stato, le masse, credendo in questo mito, non possono più fare altro che - in preda alla follia della guerra, in un impulso che è insieme distruttivo e autodistruttivo - rivoltarsi contro sé stesse.
 
4. Ora, si dirà che questo rapido schizzo mostra, nel migliore dei casi, solo quelli che sono alcuni aspetti del vecchio fenomeno novecentesco, ma che la nuova destra è qualcosa di ben diverso, così come è vero che, nei secoli, il capitalismo non rimane lo stesso. Diamo allora un'occhiata alle circostanze attuali. Più volte, è stato sottolineato come il liberalismo democratico si sgretoli, e che al suo posto stanno emergendo due nuove forme: da un lato, la democrazia illiberale, ossia la democrazia identitaria senza diritti (ad esempio, l'Ungheria di Orbán); dall'altro, il liberalismo globale antidemocratico (neoliberismo radicale europeo o americano). Come è stato osservato anche di recente e giustamente, a questa situazione non corrisponde una vera e propria dicotomia tra i due sistemi, quanto piuttosto un "equilibrio bipolare" [*14]. Da parte nostra, si può dedurre che questo equilibrio, pericolosamente teso fino al limite estremo del conflitto, è in realtà possibile solo all'interno del quadro costruito dalla stessa democrazia liberale democrazia liberale (uno sfondo che solo una situazione veramente dicotomica eliminerebbe dalla scena).Tuttavia, l'equilibrio bipolare viene mantenuto, ed esiste, anche all'interno dei due sistemi, i quali poi sperimentano anche delle influenze reciproche, confermando in un modo o nell'altro il vecchio paradosso delle masse: la democrazia senza diritti deve rafforzare le sue difese (autoritarie e poliziesche) contro le pressioni di una massa democratica latente; la democrazia illiberale, d'altra parte, non appare pacificata al suo interno, né lo sono le ultime vestigia delle democrazie liberali (basti pensare all'attuale minaccia neonazista in Germania). Walter Benjamin - marxista eterodosso - nel 1936 citava il vecchio e reazionario Le Bon. Seguendo la stessa logica, forse noi potremmo ancora ricordare Ortega y Gasset e il suo "señorito satisfecho"[giovane soddisfatto] [*15]. L'insoddisfazione è un lusso che il gentiluomo soddisfatto di sé può permettersi. Essa non è altro che il segno negativo nella scala della soddisfazione, che può anche arrivare (e non c'è contraddizione in questo) all'estremo della povertà vera e propria. La massa cronicamente insoddisfatta, che mormora contro lo Stato, è sempre e solo la massa-popolo, paradossalmente unita nel suo reciproco dissenso, e diretta, più o meno violentemente ed esplicitamente, contro i più deboli, contro gli ultimi della terra. Questo accade sia quando rivendica democraticamente i "suoi" diritti civili, o addirittura i diritti dell'individuo capitalista di fronte allo strapotere dello Stato, sia quando, al polo opposto, vota per partiti di estrema destra o scatena la propria violenza unendosi a dei gruppi fascisti. La massa piccolo-borghese dei clienti soddisfatti-insoddisfatti, alimentata dalla "cultura di destra", non sperimenterà mai una situazione di vera e propria contraddizione. Allo stesso tempo — e questo è il suo aspetto paradossale e persino tragico — deve a tutti i costi impedire che la contraddizione reale maturi. Per la folla di clienti insoddisfatti e insicuri che protestano o borbottano contro lo stato, le catene non potrebbero mai essere radicali. E le catene non saranno mai radicali finché la macchina alluderà a idee senza parole propagando mitologie contraddittorie, ma che proprio per questo sono in definitiva coerenti (Patria, Suolo, Tradizione, Identità... ma anche: Democrazia, Libertà, Diritti, Progresso...).
 
5. Oggi, i concetti di classe, di classe rivoluzionaria, di lotta di classe, che Benjamin opponeva alla moltitudine fascista, godono di ben poco credito. Ma l'errore sta nello sguardo, si potrebbe replicare che le “catene radicali” non possono e non devono apparire nella prospettiva dominante delle masse o della «piccola borghesia planetaria in cui si sono dissolte tutte le vecchie classi sociali» [*16]. Dall'altra parte, bisogna anche chiederci se il nostro quadro interpretativo sia utile, o del tutto inutile a comprendere il tema della "Nuova Destra"; o, piuttosto, della novità in quanto tale. Questa incapacità potrebbe, infatti, corrispondere a un condizionamento della macchina mitologica. Il rischio, da cui Jesi stesso ci metteva in guardia, è quello di prendere troppo sul serio il modello, e pertanto di esserne paradossalmente affascinati. Proviamo a tornare ancora una volta, da questo punto di vista, alle circostanze attuali e riferiamoci a un esempio tratto da notizie assai recenti. In un articolo pubblicato qualche settimana fa (sul numero di aprile di Le Monde diplomatique), il saggista franco-israeliano Marius Schattner ha riflettuto sulle parole che sono state usate da Benjamin Netanyahu dopo il 7 ottobre, e soprattutto sulla questione dii quale sia la loro reale ed effettiva novità. Come è noto, «in una conferenza stampa tenuta a Tel Aviv il 28 ottobre 2023, e in una lettera del 3 novembre indirizzata ai soldati dell'IDF, nella quale elogiava la loro "lotta contro gli assassini di Hamas"», il primo ministro israeliano ha citato il passaggio del Deuteronomio (25.17): «Ricordati di ciò che ti ha fatto Amalek». L'utilizzo di questa retorica corrisponde, ovviamente, al tentativo di voler affermare la novità, o meglio al carattere inedito del conflitto in corso, conferendogli una "patina religiosa". Ma è proprio contro questa pretesa, che Schattner ripristina i diritti del principio di realtà. Infatti - come egli stesso sottolinea - «questo linguaggio [...] precede la reazione alle atrocità di Hamas del 7 ottobre». Le autorità israeliane hanno usato questa retorica per diversi anni, «anche se meno apertamente»: durante l'operazione Piombo Fuso nel 2008-2009, il rabbino capo dell'IDF Avichai Rontzki ha esortato i soldati dell'"esercito di Dio" a non mostrare pietà per il nemico, invocando le guerre di conquista in Canaan, la Terra Promessa. E nel 2014, durante l'operazione Protective Edge a Gaza, il generale Ofer Winter [...] ha scritto in un dispaccio ufficiale: «La storia ci ha scelto per essere in prima linea nella lotta contro il nemico terrorista di Gaza, che abusa, bestemmia e maledice le forze [di difesa] del Dio di Israele». All'epoca, simili dichiarazioni, da parte di un alto ufficiale militare, causarono uno scandalo e ne interruppero la sua carriera nell'esercito [*17]. Sembra, allora, che la "novità" consista in questo: per dispiegarsi nel modo più flagrante, la retorica politico-religiosa deve trovare il suo momento opportuno. Questo momento è stato offerto dalla violenza senza precedenti dell'attentato del 7 ottobre, il quale ha anch'esso un carattere innegabilmente mitologico, opposto e allo stesso tempo corrispondente. Nella stessa pagina del giornale, Anne Waeles cita lo storico dell'ebraismo Amnon Raz-Krakotzkin, autore di "Exil et souveraineté", ricordando anche l'avvertimento di Gershom Scholem circa i pericoli e le ambiguità dell'ebraico moderno nel suo ruolo di lingua nazionale; Raz-Krakotzkin sottolinea come l'ideologia dei coloni di estrema destra (rappresentati oggi dall'ala religiosa ultranazionalista del governo israeliano) sia coerente con un atteggiamento politico a lungo termine, vale a dire con lo sfruttamento di quell'ebraismo che il sionismo ha portato avanti in funzione del suo messianismo secolare. La posizione dei coloni, scrive, «non è diversa da quella dei sionisti laici; l'hanno semplicemente portata alla sua logica conclusione» [*18].
 
6. A questo punto, per trarre una conclusione, riprendiamo il modello della "macchina mitologica" e proviamo a spostare lo sguardo dalla cronaca di oggi a quella di ieri. In un articolo del 1968, intitolato "Gli arabi e Israele. Sionismo politico e spirituale", Furio Jesi ha espresso la sua riluttanza circa la dipendenza del sionismo spirituale dallo Stato, visto come mezzo o percorso verso l'obiettivo spirituale di Sion. Esprimeva dubbi sul fatto che un tale cammino verso la meta spirituale della perfezione potesse fermarsi proprio nello Stato di Israele, il quale, come tutti gli Stati, era allora, e sarà sempre, fatalmente coinvolto in un complesso gioco di interessi politici. Oltre a ciò, Jesi criticava aspramente anche il sionismo politico che, estraneo alla religione, ne prendeva, e faceva propri, elementi di propaganda. Ha espresso la sua «… ripugnanza verso qualsiasi strumentalizzazione politica di miti o credenze religiose, [...] ripugnanza nei confronti del comportamento di uomini come David Ben-Gurion, studioso di testi biblici, ma notoriamente laicista, disposto – quando la ragione politica lo richiede – a indossare il mantello rituale e a pregare in pubblico» [*19]. Se la nostra preoccupazione per la retorica di Netanyahu, oggi assomiglia al sentimento di repulsione che Jesi ha provato quasi sessant'anni fa, ciò non è perché quella retorica sia vecchia, e non nuova. Se succede, è perché ieri come oggi la macchina funziona riferendo gli eventi storici attuali a un passato mitico, cioè trasformando il nemico di oggi in un "eterno nemico". Se questo accade, è perché ieri come oggi la macchina lavora riconducendo l'attualità storica a un passato mitico, vale a dire trasformando il nemico di oggi nel “nemico eterno”. In tal modo, essa proietta questo Ur-passato sull'attualità del presente al fine di fabbricarlo. Così facendo, ancora una volta, la cultura di destra - «una vera e propria immobilità cadaverica che pretende di essere una perenne forza viva» - non ha mai smesso di rigenerarsi. In altre parole, la macchina opera manipolando il tempo storico: continua a far apparire la novità, mettendola in relazione con un fenomeno eterno. Pertanto, è invincibile o indistruttibile? Porre questa domanda significa, in un certo senso, anche attivare il meccanismo, e quindi cedere efficacemente al suo potere di fascinazione. Invece, come ha sottolineato Jesi, «quel che è necessario distruggere, non sono  le macchine, le quali si riformerebbero come fanno le teste dell'Idra, quanto piuttosto la situazione che rende le macchine reali e produttive. La possibilità di questa distruzione è esclusivamente politica...» [*20]. La risposta alla domanda in che cosa consista la novità della destra, e a quella sui problemi e i pericoli  della nuova destra, consiste nel porre la questione della distruzione. Ogni e qualsiasi distruzione, che però rimane interna al funzionamento della macchina, è di fatto condannata al fallimento, all'inanità, al risentimento o al sacrificio di sé e degli altri (febbre della guerra, odio per gli “stranieri” e così via). È tuttavia possibile non rimanere sopresi dalla presenza di residui della cultura di destra anche laddove meno ce lo aspettiamo. È possibile analizzare il funzionamento della macchina e, di conseguenza, possiamo anche vedere quali sono le condizioni di questo funzionamento. Infine, e di conseguenza, è anche possibile non essere solidali con tali condizioni e con il ruolo che esse ci assegnano. Solo questa possibilità può coincidere con un tipo nuovo di solidarietà, che potrà essere veramente e positivamente distruttiva.

- Andrea Cavalletti - pubblicato come «The New Right Machinery» su Crisis & Critique, vol. 11, °1, 16/7/2024.

NOTE:

1 -  Hannah Arendt, Lying in Politics. Reflections on the Pendragon Papers, in Crises of the Republic. Lying in Politics, Civil Disobedience, On Violence, Thoughts on Politics and  Revolution (New York: Harcourt Brace & Co., 1972), pp. 7–12.
  2  - Furio Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista (Andrea Cavalletti ed) (Nottetempo, 2011), p. 285. (Per quanto riguarda il termine Rivoluzione, si vedano le considerazioni di Jesi su Rosa Luxemburg e il suo «pessimismo concreto sulle utopie di una rivoluzione riuscita una volta per tutte», in Furio Jesi, ”Il tempo giusto della rivoluzione: Rosa Luxemburg e il problema della democrazia della democrazia operaia”, in "Spartakus. La simbologia della rivolta", (a cura di Andrea Cavalletti. Bollati Boringhieri).
pp. 173–182).
  3 - Ivi.
4 - Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'era della sua riproducibilità tecnologica. Einaudi
5 - Ivi
6 - Cfr. Gabriel Tarde, «Le Public et la foule» (1898), in L'Opinion et la foule, Paris, PUF, 1989 [1901], p. 39; Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi
7 - Thomas Hobbes, Elementi filosofici sul cittadino (De cive). Utet
8 - Carl Schmitt, Sul Leviatano [1938], Il Mulino. Purtroppo, sappiamo da quale punto di vista politico Schmitt fece la sua analisi critica del Leviatano nel 1938.
9 - Theodor Geiger, Die Masse und ihre Aktion: ein Beitrag zur Soziologie der Revolutionen, Stuttgart, Ferdinand Enke, 1926, pp. 44, 101.
10 -  Murray N. Rothbard, Anatomy of the State (Auburn: Ludwig von Mises Institute, [1974] 2009), p. 11
11 - Ivi.
12 - Ivi, p. 42.
13 - José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE.
14 - Massimo De Carolis, Convenzioni e governo del mondo, Macerata, Quodlibet, 2023, p. 180.
15 - José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, SE.
16 - Giorgio Agamben, La comunità che viene. Bollati Boringhieri
17 - Marius Schattner, "I pretesti biblici dell'estrema destra per l'espulsione di massa", su Le Monde diplomatique, aprile 2024, p. 10.
18 - Anne Waeles, "La cooptazione dell'ebraismo da parte del sionismo", in Le Monde diplomatique, aprile 2024, p. 10. Vedi anche Amnon Raz-Krakotzkin, Exil et souveraineté. Judaïsme, sionisme et pensée binationale, pref. Carlo Ginzburg, trad. Catherine Neuve-Église, Paris: La Fabrique, 2007.
19 - Furio Jesi, "Gli Arabi e Israele. Sionismo politico e spirituale. Gli opposti nazionalismi", in Resistenza. Giustizia e libertà, marzo 1968, p. 3. (settembre 1968
20 -  Furio Jesi, "Conoscibilità del Festival "(1976), in "Il tempo della festa", a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo.