venerdì 29 novembre 2024

La maledetta proprietà…

La strana genealogia del concetto di capitalismo
- di Marcello Musto -

Malgrado venga considerato come il più importante critico del capitalismo, raramente Karl Marx ha usato tale termine. La parola risulta assente anche nei primi grandi classici dell'economia politica. Non solo essa non trova alcun posto nelle opere di Adam Smith e di David Ricardo, ma non è stata utilizzata nemmeno da John Stuart Mill né tantomeno dalla generazione degli economisti contemporanei di Marx. Quello che veniva usato, era il termine Capitale – comune fin dal XIII secolo – ma non il termine Capitalismo, che da Capitale deriva. È stata, dall'inizio, una parola usata soprattutto da chi si opponeva all'ordine di cose esistente, e peraltro aveva una connotazione assai più politica, che economica. I primi a usarlo - Capitalismo - sono stati alcuni pensatori socialisti, e lo hanno fatto sempre in modo dispregiativo. In Francia, in una ristampa del suo famoso "L'organisation du travail", Louis Blanc sosteneva che l'appropriazione del capitale – e, attraverso il capitale stesso, anche del potere politico – era stata monopolizzata dalle classi ricche. Queste classi lo avevano concentrato nelle proprie mani, e pertanto, così facendo,  ne avevano limitato l'accesso alle altre classi sociali. Ben lungi dal voler cercare di rovesciare le basi economiche della società borghese, Blanc si era dichiarato a favore della «soppressione del capitalismo, ma non del capitale». Così, in Germania, l'economista Albert Schäffle - ridicolizzato con l'epiteto di "socialista da poltrona" - nel suo libro "Capitalismo e socialismo" difendeva le riforme statali in modo che alleviassero gli aspri conflitti che, a causa della "egemonia del capitalismo", si stavano ampiamente diffondendo. Fin dal suo primo utilizzo, non c'è mai stata una definizione condivisa del concetto di capitalismo. Tuttavia, questa difficoltà è cambiata in seguito, venendo meno, nel momento in cui il termine cominciò ampiamente a diffondersi, guadagnando così popolarità. "Il capitalismo moderno" di Werner Sombart, e "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo", di Max Weber -  entrambi pubblicati all'inizio del XX secolo - avevano lo scopo di mostrare, malgrado alcune differenze, quella che era l'essenza del capitalismo, vedendola nello spirito di iniziativa, nel freddo calcolo razionale e nella ricerca sistematica del vantaggio personale. Quei libri, hanno contribuito non poco alla divulgazione del termine. Tuttavia, è stato soprattutto grazie alla diffusione della critica marxista della società che la parola capitalismo – a cui l'Enciclopedia Britannica ha dedicato per la prima volta una voce solo nel 1922 – ha acquisito diritto di cittadinanza nelle scienze sociali. Oltre tutto, dopo essere rimasto ai margini - se non addirittura esplicitamente respinto - nel discorso teorico delle principali correnti dell'Economia Politica, sarà grazie all'opera di Marx che il concetto di capitalismo acquisirà centralità anche in questa disciplina. E pertanto,  anziché continuare a essere concepito come un sinonimo di una pratica decisionale politica volta a beneficiare le classi dominanti, è stato grazie a Marx che ha acquisito il significato di un sistema di produzione specifico, basato sulla proprietà privata delle fabbriche e sulla creazione di plusvalore. In un certo senso, si può dire che il contributo involontario, dato da  Marx, alla diffusione del termine "capitalismo" sia  stato paradossale. Totalmente assente dai libri da lui pubblicati, sebbene nei suoi manoscritti il termine "Kapitalismus" compaia assai sporadicamente; apparve solo in cinque occasioni, sempre en passant, e senza che lui ne fornisse mai una descrizione specifica! Con ogni probabilità, Marx riteneva che si trattasse di una nozione che non era sufficientemente focalizzata sull'economia politica, ma che fosse piuttosto legata esclusivamente a una critica della società, più morale che scientifica. Infatti, nel momento in cui aveva dovuto scegliere il titolo della sua Magnum Opus, aveva optato per l'utilizzo del termine "Capitale", e non per "Capitalismo". Al posto di quest'ultima parola, ne preferiva altre, che riteneva più appropriate per poter definire il sistema economico e sociale esistente. Nei Grundrisse, si riferisce al "modo di produzione del capitale", mentre pochi anni dopo, nei "Manoscritti economici" del 1861-63, adotta la formula "modo di produzione capitalistico". Questa espressione, appare anche nel Primo Libro del Capitale, dove il famoso paragrafo iniziale recita: «La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si manifesta come una "immane raccolta di merci"». Da allora in poi, sia nella traduzione francese così come nella seconda edizione tedesca del primo volume del Capitale, Marx userà sempre anche la formula "sistema capitalistico". Lo ripeterà anche nelle bozze preliminari della famosa lettera a V. Zasulic del 1881. In questi e in molti altri scritti sulla critica dell'economia politica, Marx non ha mai fornito una definizione concisa e sistematica di che cosa fosse il "modo di produzione capitalistico". Pertanto, il modus operandi del capitalismo può essere pienamente compreso solo collegando tutte le molteplici descrizioni delle sue dinamiche, contenute nel Capitale.

Nel primo volume, Marx afferma che «L’epoca capitalistica è, dunque, caratterizzata dal fatto che la forza di lavoro assume anche per lo stesso lavoratore la forma di una merce, di sua proprietà, mentre il suo lavoro assume la forma di lavoro salariato». La differenza cruciale con il passato è che i lavoratori non vendono i prodotti del loro lavoro – che sotto il capitalismo non sono più di loro proprietà – bensì il loro lavoro. Per Marx, il processo di produzione capitalistico si basa sulla separazione della forza lavoro e delle condizioni di lavoro; una condizione questa, che il capitalismo «riproduce e perpetua» per poter così garantire lo sfruttamento permanente del proletariato. Questo modo di produzione «costringe l'operaio a vendere costantemente la sua forza-lavoro per vivere, e permette costantemente al capitalista di comprarla per arricchirsi». Inoltre, Marx ha sottolineato il modo in cui il capitalismo differisce da tutti i precedenti modi di organizzazione produttiva a causa di un'altra ragione peculiare. Tale differenza consiste nell'«unità del processo lavorativo e del processo di creazione del valore». Marx descrive il processo di produzione capitalistico come un modo di produzione che ha una duplice natura: «da un lato, è un processo di lavoro sociale per la fabbricazione di un prodotto, mentre dall'altro, è un processo di valorizzazione del capitale». Ciò che guida il modo di produzione capitalistico «non è il valore d'uso o il piacere, ma il valore di scambio e la moltiplicazione». Il capitalista è stato descritto da Marx come un «fanatico della valorizzazione del valore», come un essere che «costringe, senza alcuno scrupolo, l'umanità a produrre per il gusto di produrre». In questo modo, il modo di produzione capitalistico genera l'espansione e la concentrazione del proletariato, insieme a un livello di sfruttamento della forza lavoro senza precedenti. Infine, pur concentrandosi certamente sull'economia, l'analisi di Marx del sistema capitalistico non era diretta esclusivamente ai rapporti di produzione, ma costituiva una critica globale della società borghese che includeva la dimensione politica, le relazioni sociali, le strutture giuridiche e l'ideologia, nonché le implicazioni che determinano su ciascun individuo. Pertanto, egli non considerava il capitale come «una cosa, ma come uno specifico rapporto sociale di produzione, appartenente a una specifica formazione storica della società».  Pertanto, non è eterno e può essere sostituito – attraverso la lotta di classe – da una diversa organizzazione socio-economica.

- Marcello Musto -  20/10/2024 -

giovedì 28 novembre 2024

Pensando ad altro…

La mente vagabonda esplora l'universale preoccupazione umana per la distrazione e i metodi che anticamente abbiamo trovato per resisterle. Un’opera che ci proietta nel mondo dei monaci del Medioevo, facendoci scoprire che nemmeno una vita di preghiera e isolamento è mai stata libera dalla deconcentrazione. La riduzione della soglia d’attenzione sembra una caratteristica tipica della nostra era ipertecnologica, un effetto dell’influenza dei social media e dell’enorme quantità di stimoli che riceviamo. Quanti libri non finiti rimangono sui nostri comodini? Chi può dire di essere in grado di lavorare senza guardare continuamente lo smartphone? Tutti, oggi, ci sentiamo più distratti. Ciò che invece ci rivela la storica Jamie Kreiner è che anche i più impensabili dei nostri avi, i monaci e gli eremiti medievali, avevano il nostro stesso identico problema. Dall’asceta del IV secolo Simeone Stilita, che diede avvio alla pratica di vivere su una colonna, alla badessa del VII secolo Sadalberga, che si imponeva lunghi periodi di totale silenzio, fino a Ugo di San Vittore, che nel XII secolo scrisse una guida su come tenersi occupati costruendo mentalmente l’immagine di un’arca, ognuno di loro ha dovuto inventarsi ogni giorno un modo per combattere il demone della distrazione. Questo libro ci mostra come la lotta per rimanere concentrati sia qualcosa di «più antico della nostra tecnologia», invitandoci a imparare da questi antichi maestri ad avere fiducia nella capacità della nostra mente di cambiare. Perché è solo imparando ad accettare le nostre mancanze che potremo superarle, dato che nemmeno nascondendoci in una remota caverna saremo mai in grado di fuggire da noi stessi.

(dal risvolto di copertina di: Jamie Kreiner, "La mente vagabonda. Cosa ci insegnano i monaci medievali sulla distrazione". Traduzione di Luisa Agnese Della Fontana. il Saggiatore, pagg. 352, € 26)

Impariamo dai monaci a pensare di pensare
- Sulla concentrazione. Per Jamie Kreiner la mente costruisce storie complesse e le condivide come facevano i cenobiti quando si raccontavano le visioni, incerti se fossero opera del demonio o immagini della fantasia -
di Marco Belpoliti

Davvero come sostiene qualcuno gli smartphone e i social media sono fonte continua di distrazione? Non sarà vero proprio il contrario: questi strumenti catturano la nostra attenzione, la organizzano e la sfruttano anche economicamente. La distrazione, come mostrano le storie dei monaci dei primi secoli del cristianesimo, è più antica delle nostre tecnologie digitali. Loro, uomini religiosi del passato, lottavano tenacemente per non essere distratti senza avere nessuno strumento a portata di mano se non il proprio pensiero, come racconta Jamie Kreiner in La mente vagabonda, libro il cui sottotitolo recita: Cosa ci insegnano i monaci medievali sulla distrazione. Lo scopo di questi consacrati era quello di concentrarsi su Dio, ma erano continuamente distratti da altri pensieri, così alcuni decidevano d’allontanarsi dalle comunità cenobitiche in cui vivevano per cercare luoghi in cui appartarsi al fine di condurre una vita solitaria, da anacoreti, e tuttavia anche lì erano inseguiti dai demoni tentatori, come racconta Evagrio Pontico in Gli otto spiriti malvagi. Lui stesso aveva trovato rifugio in una zona a ovest del delta del Nilo. Sono stati questi uomini e donne religiose, che hanno ingaggiato una lotta mentale con tutto ciò che li sviava dal pensiero del Creatore, a inventare tecniche psichiche per restare concentrati nella preghiera, sino al punto da creare motivi metacognitivi, come si dice oggi: pensando al pensare cercavano di riportare ordine nel caos intellettivo che gli spiriti del male producevano in loro. Secondo questi uomini del passato la distrazione ha tuttavia una origine genetica: deriva dalla separazione iniziale dell’umanità da Dio. Furono Adamo ed Eva nel momento in cui disubbidirono a Dio, scrive un asceta, a scegliere di concentrarsi su sé stessi perdendo così per sempre il Paradiso Terrestre.  

Nei trattati monastici ci sono vere e proprie analisi della distrazione a partire dall’idea che sia provocata prima di tutto da una volontà forte e non, come comunemente si crede, da una volontà debole. E tuttavia Evagrio Pontico racconta come nei monasteri fosse sempre in agguato il demone meridiano che sviava l’orante dal suo compito: leggendo il monaco è preso dal sonno, si stiracchia, stropiccia gli occhi, distoglie lo sguardo dal libro e dopo averlo piegato «lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo». La concentrazione e la distrazione, come mostra il libro di Jamie Kreiner, conducono in una sorta di “cul de sac” che Joshua Cohen, scrittore e campione di memoria, ha così brillantemente sintetizzato: «Diventare consapevoli dell’attenzione è creare attenzione. Diventare consapevoli dell’attenzione è distruggere attenzione». Detto altrimenti: ciò che cattura la nostra attenzione, impedendo alla nostra mente di distrarci, costituisce a sua volta una forma di distrazione. Che fare? Davvero la distrazione è il nemico quotidiano con cui condurre anche oggi una guerra continua sino a opporgli una resistenza estenuante e necessaria come facevano i monaci e le monache medievali, sino a suggerirci d’imitare, almeno metaforicamente, gli stiliti come il celebre Simone, cui Luis Buñuel ha dedicato un bellissimo film, Simon del deserto? Intanto non tutti i distratti sono uguali; ne esistono di vario tipo. Gli eremiti li avevano già riconosciuti nel corso dei loro esercizi, ad esempio: i distratti dispersivi e i distratti assorti, come ha spiegato in un suo libro Alessandra Aloisi, La potenza della distrazione (il Mulino). Proprio i secondi sono quelli che sviluppano uno degli elementi decisivi del pensare stesso. Dannandosi l’anima alla ricerca della concentrazione su Dio gli anacoreti hanno infatti mostrato che la nostra mente non stacca mai anche quando è impegnata a fare altro, e quando vaga lontano dal compito assegnato finisce comunque per trovare qualcosa d’imprevisto e d’inatteso. L’ha spiegato bene un professore di psicologia, Michael C. Coballis in un suo libro, La mente che vaga (Cortina), secondo cui senza distrazione non ci sarebbe pensiero. Proprio muovendosi con la mente qua e là, seguendo sentieri strani, immagini mnemoniche del passato, ricordi ricorrenti, o altre visioni similari, come quelle che Italo Calvino racconta nella sua lezione americana sulla Visibilità, accade che qualcosa di nuovo piova dentro la nostra fantasia, come dice il verso dantesco di Purgatorio (XVII, 25) citato dall’autore delle Cosmicomiche, il quale distraendosi a leggere le pagine di Scientific American ha finito per trovare le frasi necessarie a far viaggiare nello spazio e nel tempo il suo proteo palindromo Qfwfq.

La teoria della mente è un campo che i monaci hanno arato con costanza e determinazione scoprendo le proprietà ricorsive del pensiero stesso, in cui l’assoluta libertà coincide sovente con la totale ossessività, così che i confini tra l’una e l’altra sono altamente labili. In realtà, come gli anacoreti della Cappadocia avevano compreso, noi siamo distratti perché abbiamo un corpo e una mente ad esso collegata. Anche nel sonno conosciamo forme di distrazione affascinanti come il sogno e le allucinazioni. Allo stesso modo la distrazione non è solo un elemento che ci isola, poiché come spiega Coballis, dal momento che ogni comprensione è immersa in altre comprensioni, e non siamo mai soli nei pensieri dei pensieri. C’è un’altra idea che il professore di psicologia suggerisce nei suoi studi: la connessione che esisterebbe tra il vagare con la mente e la narrazione delle storie. Proprio come mostrano le visioni dei monaci del deserto la mente umana possiede grandi capacità di costruire racconti complessi, ingarbugliati, contorti e anche di condividerli con gli altri sotto forma di storie, come facevano quei cenobiti quando si raccontavano l’un l’altro le loro visioni incerti se fossero opera del demonio o invece immagini liberate dalla loro stessa fantasia. Poi c’è un’altra buona ragione per essere distratti. L’ha scritto Montaigne: pensare ad altro alimenta la speranza, un sentimento di cui oggi abbiamo molto bisogno.

- Marco Belpoliti - Pubblicato su Domenica del 17/3/2024 -

Una sorprendente triangolazione !!

In una lettera inviata a Susan Sontag il 14 gennaio 1966, Joseph Cornell le scrive di star leggendo con attenzione e piacere il suo libro "Contro l'interpretazione"; in particolare - nel libro - il saggio dedicato a Michel Leiris. Il saggio è costituito dalla recensione che la Sontag fa di un libro di Leiris del 1939, e che in inglese si chiama "Manhood", mentre il titolo orginario è "L'Âge d'homme". Ma nella lettera, Cornell non va più a fondo, non parla esattamente quali siano state quelle parti del saggio che lo hanno toccato di più (sebbene si deduce che sia chiaramente coinvolto in un'esperienza di lettura fortemente carica di riconoscimento e identificazione), ma è possibile dedurre che si riferisca anche ai momenti nei quali Sontag scrive che - in Leiris – perfino i successi sembrano essere dei fallimenti; e in cui argomenta che sembra che Leiris stesse quasi cercando di "eliminare" il proprio corpo (giudizi, questi, che valgono perfettamente anche per la poetica di Cornell). Una triangolazione sorprendente: Cornell legge Leiris attraverso la lettura di Sontag.

Il fatto è che Cornell era molto attratto dalla letteratura francese: essa rappresentava una delle poche materie in cui egli eccelleva quando frequentava il college, ed è per questo che la letteratura francese accompagnerà Cornell per tutta la vita (quando cerca dei libri, per strada, in edicola, nelle librerie dell'usato; quando cerca ispirazione per le sue scatole e per i suoi collage). Leiris era nato nel 1901; Cornell, nel 1903; Sontag, nel 1933. È curioso, tuttavia, notare che uno degli accostamenti che Sontag fa, è tra Leiris e Norman Mailer – visti entrambi in quanto coinvolti in una "lacerazione" ed "esposizione" delle loro soggettività (il saggio è del 1964, cosa che spiega, almeno in parte, l'apparizione di Mailer - la cui irrilevanza, oggi, sessant'anni dopo, appare direttamente proporzionale alla pertinenza e alla freschezza dell'opera di Leiris). Poche righe, dopo questo accostamento, alla fine del saggio, nelle quali Sontag tocca un punto importante: il collegamento tra il libro di Leiris e il suo immediato contesto di apparizione, vale a dire, le avanguardie del primo Novecento, la scena modernista: è questo ambiente che rende il libro di Leiris erratico e inconcludente, poiché esso deve essere letto come se fosse uno degli elementi di un "progetto di vita", all'interno del quale la letteratura è «un'azione, che porta ad altre azioni», scrive Sontag.

fonte: Um túnel no fim da luz

mercoledì 27 novembre 2024

Sfruttamento e/o Razzismo

Sullo sfruttamento e sul razzismo
Obiezioni a una tendenza nella formazione della teoria antirazzista

di JustIn Monday

Nell'antologia "The Diversity of Exploitation", si afferma che non c'è «mai stata quasi alcuna discussione» su «come classe e razza» siano collegate; cosa che potrebbe essere facilmente fraintesa per essere un tentativo di ingraziarsi un favore perenne da parte della sinistra [*Vedi: Eleonora Roldán Mendívil/Bafta Sarbo (Hrsg.), "Die Diversität der Ausbeutung", Berlin 2023 [*1]]. Naturalmente, la questione del collegamento tra le due cose è stata invece discussa, e piuttosto a lungo. L'esito delle discussioni, è sempre stato però lo stesso: vale a dire, che l'una non si fonde con l'altra, e che quindi, riguardo le rispettive lotte, non può essere postulata alcuna gerarchia; e questo per quanto la "questione sociale" sia  in qualche modo più generale, rispetto alle diverse discriminazioni, mentre tutto il resto rimane piuttosto confuso e multidimensionale. Ecco perché la maggior parte delle persone si attiene a una sorta di intersezionalità [N.d.T.: come una sorta di intersecazione e sovrapposizione delle diverse identità di ciascuno] che ha fatto di necessità virtù, volendo in tal modo lasciare a tutti, e a ciascuno - nel modo in cui la società l'ha messa insieme - quella che è la propria immagine di sé che viene chiamata "identità". Sembra essere implicito, che ciò sia possibile senza conflitti, senza che "l'identità" dell'uno violi in modo permanente "l'identità" dell'altro. L'unica eccezione a questo è costituita dagli ebrei, i quali devono assicurare il loro "antisionismo", prima di poter chiedere l'immunità. Pertanto, a prima vista, sembra che «l'antirazzismo materialistico», che i curatori del volume rivendicano per sé stessi, sia così solo il titolo pomposo di un'altra affermazione fatta nel contesto di queste ben note scaramucce. Tuttavia, a un secondo sguardo, una valutazione del genere appare troppo facile. Il relativo successo del volume, giunto alla sua quarta edizione, è probabilmente dovuto a una promessa di radicalità in esso contenuta e che si esprime in modo più chiaro nel saggio centrale [*2] del co-editore Bafta Sarbo. In esso, l'autrice "discute" la questione di «come classe e razza» siano tra di esse correlate, e dà una risposta che dimostra come la sua domanda doveva essere intesa come socialmente critica. Il razzismo, secondo il teorema centrale del saggio, è «una forma oggettiva di pensiero nel contesto della relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento» [*3]. Ovvero, leggermente variato: «Il principio della razzializzazione non è quindi arbitrario, nonostante l'inesistenza di razze biologiche o di circoli culturali chiaramente definibili. L'appartenenza a un gruppo razzializzato, è determinata dalla collocazione temporale e spaziale dell'integrazione nella produzione capitalistica come forza lavoro. Il razzismo, è quindi una relazione sociale tra persone che sono incluse nella produzione e che vengono sfruttate in modi diversi» [*4]. Sarbo mira perciò a un concetto di razzismo che non dovrebbe basarsi esclusivamente sulla sistematizzazione delle esperienze. Allo stesso tempo, sembra avere il vantaggio di integrare queste "esperienze" con una descrizione sociologica. È difficile trascurare il fatto che la divisione globale del lavoro ha modelli che corrispondono, almeno approssimativamente, a dei limiti razziali. In questo modo, Sarbo va oltre la tesi intersezionalista, secondo cui i "diversi rapporti di potere" sono "intrecciati in vari modi". Tuttavia, l'intersezionalismo non è all'altezza per altre ragioni, poiché le idee su come gli altri razzializzati si relazionano al lavoro sono già parte del razzismo; e vanno dall'idea che gli "estranei" siano pigri per natura, e se pertanto debbano o meno essere costretti a lavorare, fino all'idea opposta secondo cui, a causa dei loro standard inferiori, sarebbero in grado - e disposti a farlo - di sottrarre lavoro a "noi" . Entrambe queste idee sono razziste dal momento che esprimono giudizi collettivizzanti sull'intero gruppo esterno. Una simile tematizzazione del lavoro non avviene a partire da nessun'altra "relazione di potere". Piuttosto, il razzismo rappresenta un mito relativo al contesto sociale di un mondo nel quale il lavoro costituisce la forma dominante di appropriazione della natura. Le attribuzioni specifiche di classe, per contro, formulano giudizi individuali. Ad esempio, presumono che tutti i non-proprietari dei mezzi di produzione siano individualmente riluttanti a fare le cose, sebbene collettivamente assumano questo come se fosse una predisposizione della loro "razza" o "cultura". Parallelamente a questa individualizzazione, la differenza di classe viene fatta scomparire in un processo di auto-razzializzazione, alla fine del quale troviamo un "noi" nazionale e la sua forza lavoro totale. In contrasto con l'orgoglio lavorativo del “noi” della classe non è fin dall'inizio una categoria che appare come esperienza nella coscienza quotidiana. Tutte le immagini della classe che possono essere riprese in un'immagine identitaria di sé richiedono l'identificazione dell'individuo con la supremazia del processo di valorizzazione capitalistico. Pertanto, in un primo momento appare plausibile quando Sarbo sostiene - seguendo Stuart Hall - che «la relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento, che nel razzismo si esprime come relazione sociale, che esiste materialmente ed è reale, [...] viene distorta solo nell'ideologia razzista, nella forma di una relazione tra razze o culture» [*5] , e così rappresentata. Formulato in questo modo, bisogna che l'emergere della coscienza di classe debba necessariamente andare di pari passo a un rifiuto antirazzista della «deformazione» ideologica della «relazione tra sfruttamento e supersfruttamento».  L'«antirazzismo materialista» di Sarbo, trae la sua promessa di radicalismo a partire da questo rifiuto di un'unità di tutti gli sfruttati ciechi al razzismo, e mescolato insieme al tentativo di ricondurlo a qualcosa che non sia di per sé razzista. Ciò rappresenta, in prospettiva, la fine dell'antirazzista  «compito di Sisifo». Il super-sfruttamento - che, secondo l'interpretazione dell'autrice, non può essere voluto nemmeno da chi viene regolarmente sfruttato-  è da lei identificato come il tallone d'Achille su cui punta il suo antirazzismo. Tutto ciò, sembra essere più facile da combattere, rispetto all'intruglio irrazionale che la maggior parte delle altre teorie antirazziste vede davanti a sé. A differenza di queste ultime, l'eccessivo sfruttamento può essere attaccato concretamente, e rappresenta pertanto un unico punto di rottura.

Il “momentum”, ovvero il falsificatore e il residuo irrazionale
Tuttavia, questa attenzione su un singolo punto di rottura ha un prezzo, che diviene evidente nel modo in cui viene gestito l'irrazionalismo. Dal momento che, naturalmente, i curatori del volume sono consapevoli del fatto che il razzismo non si esaurisce nello sfruttamento. Basandosi sui pogrom che hanno accompagnato la riunificazione, e sul genocidio tedesco degli Herero e dei Nama [N.d.T.:  in Namibia, fra il 1904 e il 1907], Sarbo sottolinea esplicitamente che «la violenza razzista [...] per il capitale [...] costituisce una distruzione della forza lavoro,  e quindi la base più importante dell'accumulazione del capitale» [*7]. Invece [*8], qui si ipotizza una «dialettica di sfruttamento e distruzione» , la quale è «essenzialmente caratteristica delle formazioni razziste» [*9]. Può essere. Tuttavia, questa ipotesi è in aperto contrasto con la norma succitata, dal momento che solleva la questione del perché solo uno dei due poli di questa presunta dialettica debba essere utilizzato come base per un concetto materialistico di razzismo. Viene in tal modo sollevata la questione dell'altro polo, quello dell'annientamento: il super-sfruttamento e l'annientamento, semplicemente, non sono la medesima cosa; e questo nemmeno Sarbo  lo dice. Il super-sfruttamento può essere definito in modo tale da tendere a portare alla morte degli sfruttati, in quanto, a lungo termine, mina quel che è il minimo necessario per la riproduzione della forza lavoro a lungo termine. Secondo questa versione, tuttavia, il sovrasfruttamento è diverso anche dalla violenza razzista, la quale viene attuata consapevolmente, e con odio e sforzo soggettivo. Per far sì che la relazione possa essere definita dialettica, lo sfruttamento dovrebbe contenere anche l'annientamento e, secondo una logica interna, l'uno dovrebbe continuamente confluire e convertirsi nell'altro, e viceversa. A questi problemi, Sarbo controbatte affermando «che il razzismo va inteso come un fenomeno indipendente e contraddittorio che non può essere derivato solo dai bisogni del capitale, ma esistere a partire dal fatto che esso sviluppa un proprio slancio» [*10]. Qui, «slancio» si riferisce a uno sviluppo che inizia dopo che la cosa è stata messa al mondo dalle esigenze del capitale. Da un punto di vista epistemologico, tuttavia, questa soluzione è una vera e propria rivelazione, poiché un concetto deve riferirsi esattamente a quegli aspetti di una cosa in cui essa è originale, proprio perché ha un suo slancio. Per rimanere all'esempio di Marx: un concetto di capitale può essere formato poiché esso appare come una forma reificata di quelle che sono delle relazioni sociali soggette a leggi proprie. Lo slancio del capitale è stato preceduto da un'indipendenza del valore di scambio e del denaro, che porta con sé la costrizione a continuare ad accumulare. In maniera analogica, un concetto analogo di razzismo dovrebbe quindi determinare, anch'esso, con precisione il modo in cui ottiene la sua indipendenza. Sarbo vuole seguire il modello marxiano, ma però limita il suo concetto alla funzione che la cosa da comprendere svolge in funzione di qualcos'altro; vale a dire in funzione dell'accumulazione del capitale. La conseguenza è che il processo di, per così dire, di “snaturamento” rimane non discusso, e questo sebbene la promessa iniziale di radicalità richieda invece una risposta alla domanda su «come, da questa differenza economica, dal sovra-sfruttamento della forza lavoro coloniale, nasca l'ideologia razzista» [*11]. Tuttavia, il testo non mostra un vero e proprio processo di sviluppo. La sezione “Razzismo come ideologia” - che dovrebbe sopperire a questo compito -  si limita a descrivere solo gli effetti che vengono prodotti da una "ideologia" in tal modo distorta distorta, limitandosi a sottolineare che «la razza, una categoria creata dall'uomo, insieme a una differenza prodotta economicamente, appare come se fosse una differenza naturale» [*12]. Tuttavia, il riferimento alla naturalizzazione non rappresenta la prova che la differenza naturalizzata sia stata creata da una distorsione della differenza economica. Al contrario: visto che la natura, almeno in questo contesto, viene considerata come un sinonimo di «immutato» e «immutabile», quello che viene detto è che, semplicemente, si potrebbe trattare di una forma feticistica, se non addirittura una «forma-pensiero oggettiva», visto che l'essenza dell'apparenza materiale non può più essere vista. Per dimostrare che la "razza" è davvero qualcosa di «simile al feticismo del denaro» [*13] mancano due punti cruciali: in primo luogo, non si può presumere che una genesi così poco chiara sia basata sul feticismo. Piuttosto, le ambiguità potrebbero anche essere dovute a dei meccanismi di difesa soggettivi, o psicologici, i quali continuano a mantenere nell'inconscio quelle che sono le connessioni importanti per il presunto feticcio. Nel caso del razzismo, abbiamo molti elementi che suggeriscono che sia proprio questo, perché, contrariamente al feticismo del denaro, le attribuzioni razziste non solo sono più diversificate in termini di contenuto, ma la loro intensità si distribuisce in maniera diversa tra i rispettivi membri della società. Nessuno può sfuggire alla partecipazione all'ordine razzista attraverso un pensiero non razzista. E tuttavia, i tentativi di disimparare il pensare e l'agire secondo categorie razziste non si traducono necessariamente in un solo stesso tipo di perdita di realtà, che potrebbe risultare dal tentativo di disimparare il riconoscimento soggettivo del feticcio della merce o del denaro. E questa è una chiara indicazione del fatto che, dopo tutto, il razzismo non è una forma di pensiero oggettiva. In secondo luogo, andrebbe dimostrato che il feticcio si basa esattamente sulla presunta relazione e su nessun'altra. Nel caso del feticismo del denaro, questo è abbastanza semplice, poiché esso è indiscutibilmente legato alla forma-valore,  dato che il denaro stesso vale qualcosa, e ha un numero gestibile di proprietà, tutte riconducibili ad alcune funzioni nelle transazioni economiche. "Razza" o "cultura", invece, da parte loro, includono anche delle idee sull'etica del lavoro e sull'abilità delle persone razzializzate, così come anche delle idee sulla loro sessualità. Inoltre, i razzisti preferiscono affermare la costante della “razza” e della “cultura” per mezzo di una teoria dell'ereditarietà, e non sotto forma di teoria economica. Si potrebbe quindi sostenere, con una giustificazione almeno pari, che “razza” e “cultura” sono feticci della sessualità o delle relazioni di genere. A favore di quelle teorie postmoderne del razzismo che si basano sulla comprensione di Foucault della biopolitica, bisogna almeno notare in questo contesto che esse si sforzano di prendere in considerazione tutti questi aspetti del pensiero razzista. Rimanere indietro rispetto alla comprensione di Foucault è semplicemente riduttivo.  Da questo punto di vista, l'antirazzismo "materialista", e quello intersezionale sono sulla stessa barca: nessuno dei due può rappresentare la connessione che viene creata dal concetto di biopolitica. È in questo modo che nascono le diverse "identità", che si suppone si limiterebbero a sovrapporsi solo l'una all'altra, ma senza ferirsi a vicenda.

La definizione di super-sfruttamento
La questione se sia o meno possibile fornire i due punti mancanti richiede uno sguardo al nucleo economico della tesi, vale a dire, alla presunta "relazione reale" tra sfruttamento e super-sfruttamento. Da un lato, "l'antirazzismo materialista" considera la relazione tra persone qualitativamente diverse, mentre dall'altro lato, vede che la differenza insorge solo a causa della variazione quantitativa. Il "circa" rispetto al termine super-sfruttamento è teso a indicare che si tratta di una questione che  è "più o meno lo stesso", vale a dire lo sfruttamento. In questo modo, lo sfruttamento andrebbe oltre sé stesso. La definizione è quella secondo cui: il super-sfruttamento «si ottiene pagando un salario più basso rispetto alla media sociale, o al limite inferiore rispetto a quello socialmente negoziato; oppure estendendo l'orario di lavoro oltre quelli che sono i limiti della normale giornata lavorativa» [*14]. Misurata alla luce di questa definizione, la variante riduzionista, secondo la quale il rapporto tra sfruttamento e super-sfruttamento rappresenta l'unica base materiale del razzismo, è in realtà già fuori dai giochi. Comunque si formi, nelle singole costellazioni storiche, il rapporto, definito in questo modo, esiste solo perché i livelli salariali e le ore di lavoro di due gruppi sono stati confrontati tra loro per poter ottenere intuizioni, e criticare la differenza. Rispetto al rapporto tra lavoro e capitale - che è una realtà dal momento che le maschere caratteriali di entrambe le parti hanno diritti e doveri nel processo lavorativo, in quanto scambiano la forza lavoro con il denaro e viceversa - il rapporto tra sfruttamento e super-sfruttamento invece non ha alcuna realtà. Non esiste una forma sociale in cui, nella loro prassi, le persone sfruttate si riferiscano al sovra-sfruttato. Tuttavia, la relazione che può  esistere tra questi due gruppi empiricamente costruiti deve pertanto essere di tipo diverso. La scienza conosce molte di queste relazioni, dalla bilancia commerciale con l'estero, al tasso di natalità. Queste condizioni, però, non vengono a essere mediate attivamente, ma piuttosto passivamente, dalla totalità. A partire da questa affermazione, lo sfruttamento e il super-sfruttamento possono al massimo essere visti come momenti parziali di un contesto più ampio. Tuttavia, il concetto di tale connessione deve poi includere anche tutte quelle forme di mediazione attiva che pongono lo sfruttato e il sovra-sfruttato in una relazione che non è solo costruita empiricamente. Ma ciò significa che non si tratta solo di un unico elemento di errore. Tuttavia, un'analisi più attenta della definizione proposta da Sarbo rivela che essa nasconde addirittura una forma di mediazione attiva di cui occorre tenere conto: si tratta del limite inferiore, negoziato, del salario, il quale, grazie al contratto collettivo, contiene in realtà una forma attiva che comprende le maschere caratteriali rese armonizzate in “partner di contrattazione collettiva”. Ma, volendo, questa forma può essere considerata anche solo come una spiegazione per le varianti del razzismo a partire dall'ultimo terzo del XIX secolo in poi, poiché prima non esisteva: o i lavoratori non erano affatto organizzati, o le loro associazioni erano vietate. La cosa ha origine nel secondo terzo del XIX secolo, e viene legalizzata in Gran Bretagna nel 1872, in Francia nel 1884 e in Germania nel 1897. Ciononostante, la contrattazione collettiva come spiegazione rimane fuori discussione, dal momento che ogni esclusione dal processo negoziale, o dal contratto collettivo negoziato deve già essere basata sulla differenza "distorta", e non su quella economicamente reale, che verrebbe distorta. Se così non fosse, la legge dovrebbe discriminare tra sfruttati e sovra-sfruttati in base a dei criteri economici, e non in base a confini nazionali, alla nazionalità o allo status di residenza. Per spiegare il razzismo delle epoche precedenti, Sarbo rimane fin dall'inizio solo al "rapporto con la media", la cui esistenza e il cui ammontare però non sono stati negoziati e poi fissati. Questo varia a seconda della situazione del mercato (del lavoro), ed è noto senza una ricerca empirica, oltre a essere viziato per il solo fatto che i valori inferiori alla media sono già inclusi in ogni formazione media. È pertanto discutibile che le differenze qualitative nel razzismo, siano la distorsione di tali differenze quantitative fluide. Tanto più che le fantasie razziste al riguardo, avvertono rispetto a un vantaggio costante per i "sovra-sfruttati", e mirano a un trattamento ineguale. In questo modo, esprimono il desiderio di un confine chiaro tra "noi" e "loro", che al momento non esiste.
Da dove questo desiderio provenga, diventa ovvio allorché si considera anche il concetto marxiano di sfruttamento. Lo sfruttamento consiste – sempre secondo Sarbo – nel fatto che «il salario pagato ai lavoratori si misura in base a quanto è necessario in media per riprodurre la forza lavoro, e non in base al valore prodotto dai lavoratori» [*15]. Lo sfruttamento, la ragione dell'esistenza del capitale, è quindi l'appropriazione di questa differenza chiamata plusvalore. La "media" non si riferisce al livello dei salari, bensì al valore delle merci necessarie alla riproduzione della forza lavoro. Il valore della merce forza-lavoro non si basa su un processo di negoziazione, ma viene determinato soprattutto a partire dalla produttività del capitale, che produce le merci necessarie alla riproduzione. Il salario deve essere "misurato" rispetto a questo valore, poiché i suoi beneficiari non possono nutrirsi se il salario si trova permanentemente al di sotto di esso. Se questo concetto di sfruttamento viene considerato valido, la popolazione mondiale in continua crescita, di cui una percentuale enormemente alta è stata ed è ancora razzializzata nel corso della storia, non può essere stata permanentemente sovra-sfruttata. Il concetto di razzismo di Sarbo, richiede che il super-sfruttamento «non designi uno stato di emergenza, ma piuttosto una relazione, la quale rappresenta una pietra angolare dell'accumulazione capitalista»[*16]. Si può sostenere che l'indifferenza alla vita e alla morte delle persone razzializzate all'estero sia immanente al razzismo. Tuttavia, questa differenza potenzialmente qualitativa non favorisce l'accumulazione in modo che essa ottenga profitti più elevati. Tutt'al più, la realizzazione dell'indifferenza distrugge la forza lavoro, e quindi soddisfa il criterio con cui Sarbo dà inizio allo "slancio" del razzismo. È una chiara indicazione del fatto che questo non va separato dal concetto materialistico. Se la dinamica del razzismo contraddice gli interessi capitalistici, Senza che ciò possa essere ricondotto agli interessi imposti dal proletariato, l'irrazionalità di entrambe le parti va presa in considerazione per quanto riguarda il formarsi del concetto, e deve essere determinata la sua forma. Il problema diventa ancora più chiaro quando si cerca di capire la relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento nel caso della schiavitù [*17]. Da un lato, Sarbo fa precedere il suo saggio con la citazione: «La schiavitù non proviene dal razzismo, ma è il razzismo che proviene dalla schiavitù», di Eric Williams, mentre dall'altro mostra chiaramente che il razzismo gioca un ruolo nel processo economico. Tuttavia, la schiavitù rientra interamente in quell'epoca del capitalismo, nella quale i salari del proletariato emergente – incontestati da tutte le parti – erano appena sufficienti per sopravvivere. Naturalmente, i lavoratori schiavi avevano esattamente gli stessi bisogni riproduttivi dei lavoratori salariati. Da un punto di vista quantitativo, al capitale non importa in quale forma esso fornisca il valore delle merci necessarie alla riproduzione della forza-lavoro. Pertanto, la differenza di forma che ha reso la schiavitù uno scandalo a sé stante rimane il fattore decisivo: gli schiavi non erano pagati di meno, ma non erano pagati affatto dal mmento che venivano forniti come proprietà dipendente. Si può quindi supporre che in realtà le "caratteristiche razziali" fissate nel razzismo schiavista, siano legate a questa differenza reale, vista nel senso di una critica materialistica della forma. Soprattutto perché gran parte della mitologia associata legittimava la negazione della capacità delle persone di funzionare come soggetti liberi e autonomamente disciplinati dalla propria forza lavoro. Questa è la prossimità del razzismo schiavista al razzismo coloniale, che i colonizzatori usarono per giustificare la loro missione civilizzatrice che consisteva nel costringere gli indisciplinati a comprendere la natura del lavoro. Poiché non si trattava dello sfruttamento della forza lavoro, ma più fondamentalmente dell'educazione e della formazione di una forza lavoro sfruttabile, questo spiega anche perché nel razzismo le idee sul lavoro si mescolano a quelle sulla sessualità: nei miti di origine del soggetto ancora da formare, le due cose si fondono in modo indifferenziato l'una nell'altra [*18]. Sarbo menziona vari aspetti di questo processo [*19], ma li tratta come illustrazioni secondarie della differenza tra sfruttamento e sovrasfruttamento che è al centro del suo lavoro.

  Così facendo, le sfugge il fatto che è proprio questa differenza a essere più immaginaria che reale. La differenza è voluta e rivendicata sia dal capitale che dal lavoro, come dimostra la storia del razzismo negli Stati Uniti fino alla Guerra Civile. Il lavoro degli schiavi sembrava particolarmente redditizio per i proprietari di schiavi, e questo perché la differenza immaginaria ipostatizzava il loro reale controllo sugli schiavi. I proprietari di schiavi erano convinti che le forme di rifiuto si alcune prestazioni specifiche, da parte della schiavitù,  potessero essere contrastate per mezzo di una brutale disciplina fisica,resa possibile a partire dal fatto che non c'era la paura di perdere il salario. Tuttavia, le lesioni inflitte hanno in tal modo ulteriormente limitato l'efficienza della loro proprietà, e hanno pertanto ridotto la sua capacità di lavorare più di quanto fosse il valore prodotto. È nell'ambito di questo conflitto che è nata la fantasia razzista, secondo la quale gli schiavi incarnano una forza lavoro naturalmente data, pura e pertanto indistruttibile, il cui lavoro non richiede soggettività. Allo stesso tempo, i proprietari di schiavi hanno approfittato della necessità di provvedere agli schiavi, spacciandola come bontà patriarcale e mostrandola come segno di civiltà superiore. I proletari, che non erano ancora stati omogeneizzati nella loro forma di bianchi, ed erano immigrati dall'Europa, a loro volta si scandalizzavano del fatto che gli schiavi stessero meglio di loro stessi, a causa della sicurezza dell'approvvigionamento, per quanto non dovevano essere annoverati tra i civilizzati. Così, una parte dei proletari ha propagandato l'abolizione della schiavitù, ma lo ha fatto solo per richiedere il ritorno in Africa di tutti gli schiavi liberati, non meno velenosamente paternalistici di quanto lo fossero i loro "nemici di classe". La giustificazione razzista per la richiesta , era quella secondo cui in America non erano in grado di sopravvivere come lavoratori salariati doppiamente liberi. Tutte queste componenti elementari dell'impeto del razzismo, sono permeate da delle formazioni irrazionali, perché immaginarie. Esse, al momento della loro creazione, si trovavano già presenti anche su entrambi i lati della relazione di classe, sebbene con motivazioni diverse. E questo costituisce il caso del secondo esempio di Sarbo: il razzismo tedesco contro i lavoratori migranti dopo la seconda guerra mondiale. Certo, il termine “sovrasfruttamento” sembra più ovvio in questo caso, perché nel frattempo sono esistiti gruppi salariali negoziati e i cosiddetti “lavoratori ospiti” hanno dovuto riprodursi a un livello inferiore alla media.  Tuttavia, gli accordi di reclutamento con i paesi di origine prevedevano gli stessi contratti collettivi sia per i lavoratori migranti che per i membri della "razza superiore" post-fascista locale. E anche se l'uguaglianza sancita dagli accordi è il risultato di pressioni politiche da parte dei sindacati, e anche se in pratica c'erano certamente molti modi per aggirare le disposizioni, tali accordi non possono essere fatti diventare il fulcro del razzismo. Le associazioni dei capitalisti vedevano i "lavoratori ospiti" come manodopera a basso costo, nonostante i salari concordati collettivamente, perché i costi dell'istruzione e della formazione erano già stati sostenuti nei paesi di origine. Inoltre, inizialmente si prevedeva che anche la pensione sarebbe ricaduta sui paesi di origine, dal momento che il "lavoro ospite" sarebbe di nuovo sparito, non appena il "corpo del popolo" ospitante avesse rimediato alla carenza di manodopera che aveva motivato tutto ciò. Come era accaduto per la schiavitù, l'idea dell'assenza di soggettività degli altri continuava a essere al centro del razzismo. Tuttavia, nel frattempo, la situazione era cambiata in modo tale che non era più la forza lavoro individuale a essere delimitata in modo immaginario, bensì la forza lavoro sociale totale, la quale, nello Stato autoritario, si era auto-razzializzata. Inoltre, la migrazione di manodopera dell'epoca, una volta stabilita la pressione capitalistica generale al lavoro, era volontaria. I migranti, che secondo il teorema del sovra-sfruttamento avrebbero dovuto essere sfruttati nei loro Paesi d'origine, almeno nel caso in cui si fosse trattato di ex Stati coloniali europei, dovevano trovare relativamente attraente il loro “sovra-sfruttamento” in Germania, altrimenti non sarebbero partiti. Questo dimostra due cose: in primo luogo, le gerarchie che appaiono razzializzate sono quelle del processo lavorativo, in cui il processo di valorizzazione gioca solo un ruolo generale. Il capitale cerca, ad esempio quando si lamenta della carenza di manodopera qualificata, di procurarsi la forza lavoro mancante in base alla forma materiale dei suoi mezzi di produzione. In secondo luogo, il capitale deve agire contro il razzismo della riproduzione già altamente istituzionalizzata della forza lavoro totale in forma nazionale, al fine di imporre l'importazione di forza lavoro. Gran parte dello slancio razzista di quest'epoca era dovuto alle istituzioni che volevano respingere il “lavoro ospite” come elemento estraneo al “corpo del popolo”. In questo conflitto, ancora oggi il capitale appare occasionalmente come una forza antirazzista. Ciò avviene sempre quando si cerca di conciliare i suoi presupposti irrazionali, tra cui la disponibilità delle masse a fungere da forza lavoro, con le esigenze della razionalità tecnica delle forze produttive. Si tratta di una rivendicazione di disposizione e identità che è fondamentalmente permeata da idee razziste. Il razzismo ha quindi aspetti economici funzionali. Ma anche sotto questi aspetti, la quantità di plusvalore potenziale costituisce solo la questione secondaria più importante del mondo. L'aspetto principale del razzismo da un punto di vista economico, invece, è il suo contributo a disciplinare gli individui come portatori di forza lavoro. Ad ogni modo, il razzismo è sempre stato più complesso e articolato rispetto ai suoi aspetti economici: nella sua attuale manifestazione in forma di razzismo di crisi, ha sviluppato nuovi elementi che non vanno più a vantaggio dello sfruttamento economico del bacino di manodopera, ma mirano a vietarne la svalutazione. Lo dimostrano al meglio quelle fantasie secondo le quali “noi” non possiamo più permetterci la prosperità, motivo per cui “noi” non dovremmo rinunciare al lavoro. I razzisti di oggi chiedono l'esclusione dei razzializzati da quel lavoro che essi difendono in quanto loro proprietà. Questo non significa affatto che essi sarebbero soddisfatti se il contributo di questi altri alla riproduzione del capitale, con cui vengono identificati, cessasse effettivamente. In ogni caso, i razzisti, soprattutto quando si arrovellano sull'“identità” e la “sovranità” della Nuova Destra, non intendono più riconoscere le forme della propria dipendenza dal capitale, e quindi anche dalle sue altre forze di lavoro. In questo modo, svaniscono sullo sfondo tutti quegli elementi che legittimano e/o eroicizzano la funzione del lavoro al servizio del capitale. Il razzismo passa quindi, dall'essere un mito nel contesto sociale di un mondo in cui il lavoro è la forma dominante di appropriazione della natura, a essere un mito in cui il lavoro, come ogni altra forma di mediazione sociale, viene presupposto come se fosse cultura, la quale, come la natura, è immediata.   

- JustIn Monday  - da "Über Ausbeutung und Rassismus" su https://www.phase-zwei.org/ -

NOTE:

1 - Cfr. Eleonora Roldán Mendívil/Bafta Sarbo (eds.), The Diversity of Exploitation, Berlino 2023.
2 - Bafta Sarbo, Razzismo e relazioni di produzione sociale, in: Mendívil/Sarbo, Diversità, 37-63.
3 - Ibidem, 44s.
4 - Ibidem, 58.
5 - Ibidem, 61.
6 - Ibidem, 63.
7 - Ibidem, 60.
8 - Sarbo rifiuta la tesi diffusa in questo contesto secondo cui le differenze razziali non riflettono gli interessi del capitale, quanto piuttosto la competizione tra i proletari. Il suo ragionamento è singolare, ma poiché la competizione non fornisce una spiegazione, non mi soffermerò ulteriormente su questo punto.
9 - Sarbo, Razzismo, 60
10 - Ibid.
11 - Ibidem, 47.
12 - Ibidem, 48.
13 - Ibid.
14 - Ibidem, 44.
15 - Ibid.
16 - Ibidem, 43.
17 - Quanto segue riguarda la schiavitù sotto il capitalismo, cioè, prevede la contemporanea esistenza di lavoro salariato libero. Le società schiaviste storicamente precedenti devono essere trattate in modo diverso. Nella genesi psichica di ogni singolo soggetto, inizialmente non c'è né l'uno né l'altro, e l'origine di entrambi è stabilita solo retrospettivamente, il che è un argomento correlato ma diverso.
18 - Nella genesi psichica di ogni singolo soggetto, inizialmente non c'è né l'uno né l'altro, e l'origine di entrambi è stabilita solo retrospettivamente, il che è un argomento correlato ma diverso.
19 - Sarbo, Razzismo, 41 ss.

Attenti a quei Due !!

«Fra gli chassidim si racconta una storia sul mondo a venire, che dice: là tutto sarà proprio come è qui. Come ora è la nostra stanza, così sarà nel mondo a venire; dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso.»

Un punto decisivo di riavvicinamento tra Agamben e Ben Lerner, viene esposto da Agamben stesso nella seconda sezione della seconda parte de "La comunità che viene" (la sezione dal titolo "L'irreparabile"): Agamben afferma che molte confusioni in filosofia nascono dalla confusione tra "la medesima cosa" (Idem) e "la cosa stessa" (Ipsum). Per Agamben, il pensiero si occupa della "cosa stessa" e non della "identità", dell'approccio senza residui offertoci dall'Idem. La "cosa stessa", scrive Agamben, non è una "cosa altra" che avrebbe trasceso la cosa, ma non è neppure semplicemente la "medesima cosa". In questa situazione, la cosa costringe a uno spostamento verso sé stessa, verso il suo essere così com'è. Tenendo presente questo dato argomento (all'inizio de "L'irreparabile" Agamben afferma che quella sezione può essere letta come un commento al § 9 di Essere e tempo e alla prop. 6.44 del Tractatus di Wittgenstein), diventa possibile riprendere l'epigrafe di "10:04" (sul libro di Ben Lerner, "Il mondo a venire", Sellerio)) da una nuova prospettiva: «tutto uguale, solo un po' diverso», e questo al di là della parabola di Benjamin/Scholem/Bloch, e costituirebbe anche un commento sul rapporto tra l'Idem e l'Ipsum, tra "la medesima cosa" e la "cosa stessa". Nel romanzo, si tratta di moltiplicare dei futuri possibili che tuttavia non sono identici, ma costituiscono degli spostamenti della cosa verso sé stessa, dal momento che non si tratta di un'indagine (romanzesca, di fiction) sulla "identità" (Idem), bensì sulle infinite potenzialità della "cosa" (della letteratura stessa o anche della medesima letteratura). Ogni volta che il romanzo tenta di essere fiction o letteratura, fallisce e ricomincia nuovamente, portandosi dietro, con sé, nella ripetizione, il tentativo frustrato del passato. L'aggiornamento del tentativo, pertanto, in "10:04" ("Il mondo a venire"), risiede nel modo narrativo di mostrare come tutto possa essere uguale, ma solo un po' diverso: qui non si tratta di definire un'essenza, ma piuttosto di giocare con le possibilità; non è questione di possesso, ma di limiti; non si tratta di presupposti, di ipotesi, ma di esposizioni.

Un altro aspetto della condivisione di Benjamin da parte di Ben Lerner e Giorgio Agamben (da un lato, il romanzo "10:04" ("Il mondo a venire", Sellerio), e dall'altro il libro "La comunità che viene") riguarda invece proprio il rapporto che Benjamin instaura tra quelle che sono due figure letterarie del primo Novecento: Franz Kafka e Robert Walser. Così, ne "La comunità che viene", Agamben fa ricorso ai due scrittori per parlare del "limbo", della sospensione, dell'instabilità dovuta a ogni e qualsiasi posizione di certezza: Walser crea personaggi che si sono smarriti, figure che si trovano oltre la perdizione e oltre la salvezza; e così nella VIII sezione del libro, "Demoniaco", Agamben avvicina i due: quello che Kafka e Walser rappresentano ai nostri occhi è un mondo dal quale il male, nella sua suprema manifestazione tradizionale - il demoniaco - è ormai scomparso. Scrive Lerner all'inizio della quarta sezione di "10:04" ("Il mondo a venire"), quando il narratore arriva in un residence in Texas: «Mi sentivo come un fantasma mentre giravo per Marfa nel buio al volante di un’auto ibrida verde. Era la mia prima sera lì: Michael, il custode delle villette per gli ospiti della fondazione, che era anche un pittore, era venuto a prendermi nel pomeriggio all’aeroporto di El Paso e avevamo viaggiato in cordiale silenzio per tre ore attraversando l’altopiano deserto» (e questa autorappresentazione del narratore in quanto fantasma lo avvicina, non solo al limbo di Kafka e di Walser come sostiene Agamben, ma anche a tutta la discussione che ne fa Cristina Rivera Garza, su Rulfo, sul deserto e su Comala vista come limbo. E infine è anche possibile commentare dicendo che la parabola che Benjamin ascolta da Scholem e che poi racconta a Bloch (e che viene salvata da Agamben, per poi così essere potuta usare come epigrafe, da Ben Lerner in "10:04"- Il mondo a venire) sarà ripresa e riutilizzata anche e ancora una volta da Benjamin stesso nel suo saggio su Kafka, dove la parabola non appare esattamente, ma dove tuttavia il tema messianico appare nel saggio, così come appare l'idea di una ripetizione del mondo che comporta una leggera differenza, un leggero cambiamento.

fonte: Um túnel no fim da luz

martedì 26 novembre 2024

Tragediando…

«Vittima com'è di una disperata follia di annientamento e di distruzione, Antigone non ama nessuno, cosí come non ama sé stessa: il suo solo e vero amore è la morte». In una rilettura controcorrente della piú celebre figura tragica della classicità, Eva Cantarella smonta pezzo per pezzo le basi su cui si fonda il mito di Antigone. Per la sua determinazione a dare sepoltura al fratello Polinice, violando la legge cittadina per obbedire a una legge non scritta, Antigone ha rappresentato nei secoli il modello insuperato di chi si oppone a un regime tirannico, di chi reagisce di fronte ai diritti calpestati e negati, di ogni donna in lotta contro il potere maschile. Ma questa figura che sembra racchiudere in sé ogni virtú non corrisponde al personaggio cui Sofocle ha dedicato l’omonima tragedia oltre 2500 anni fa. Ed è esplorando la distanza tra mito e personaggio che Eva Cantarella mette in luce lati sorprendentemente negativi dell’eroina da tutti osannata e arriva a contestare il ruolo di despota attribuito a Creonte, protagonista di una drammatica vicenda umana e politica che lo rende una figura non meno interessante e non meno tragica. Proprio come in un’orazione, portando prove a sostegno della propria tesi e confutando gli argomenti di potenziali avversari, la piú grande studiosa italiana di diritto greco traccia un profilo di Antigone spiazzante e inevitabilmente divisivo.

(dal risvolto di copertina di: Eva Cantarella, "Contro Antigone. O dell’egoismo sociale". Einaudi Stile Libero Extra, pagg. 110, € 13)

L’Antigone equivocata
- Eva Cantarella legge la tragedia attraverso la lente del diritto e compie così una fondamentale operazione critica che restituisce una donna assai diversa dall’eroina romantica, dal mito -
di Nicola Gardini

Parliamo di Antigone. Basta il nome? O serve un riepilogo biografico? Brevemente. Suo padre è Edipo, divenuto re di Tebe dopo aver ucciso inconsapevolmente il proprio padre, Laio, e aver risolto l’enigma della Sfinge; sua madre Giocasta, che gli diventa moglie ignorandone l’identità. La madre, pertanto, le è pure nonna, così come il padre le è fratello. Al suo nome Sofocle intitola una tragedia, che costituisce la fonte principale per la nostra conoscenza del personaggio. La incontriamo già prima, accompagnatrice del padre vecchio e cieco, in un’altra tragedia sofoclea, l’Edipo a Colono. Prima di Sofocle praticamente di Antigone non si parla. Lui potrebbe anche essere il suo inventore, come ci ricorda Eva Cantarella in un libro recente, Contro Antigone. O sull’egoismo sociale, pubblicato da Einaudi. Proprio così: Contro Antigone. L’accostamento di queste due parole non ha dell’inverosimile? Com’è che all’improvviso qualcuno decide di prendersela con Antigone, l’eroina più amata della letteratura classica? Prima di parlare del nuovo lavoro di una delle nostre maggiori studiose e saggiste, guardiamo ai fatti della tragedia. Antigone decide di dare sepoltura al fratello Polinice, che è caduto combattendo contro la città di Tebe. Un editto del re Creonte, succeduto legittimamente a Edipo (è fratello di Giocasta, ovvero zio di Antigone), vieta di dare sepoltura ai nemici. Antigone, pur sconsigliata dalla sorella Ismene, persegue il suo piano. Nottetempo viene colta in flagrante e arrestata. Il fatto che sia nipote di Creonte e addirittura fidanzata del figlio di Creonte, Esone, non le fa sconti. Né la scagiona l’intercessione di Esone. Ben felice di onorare la legge dei morti, ovvero degli dei, come lei si ostina ad affermare, Antigone si lascia rinchiudere in una grotta e, assai prima che l’inedia abbia la meglio, si impicca. Nella sua rovina trascina anche Esone, il quale, giunto troppo tardi per salvarla, si trafigge con la spada accanto al suo cadavere, ed Euridice, madre di Esone, moglie di Creonte, la quale, appresa la morte del figlio, si toglie a sua volta la vita. Creonte, non avendo ottenuto dal suo rigore che dispiaceri, si augura di morire al più presto a sua volta.
Eva Cantarella osserva questo plot notissimo attraverso la lente del diritto, compiendo una fondamentale operazione critica, che la stragrande maggioranza dei moderni lettori della tragedia hanno evitato ed evitano di compiere: distinguere l’Antigone personaggio dall’Antigone mito. Almeno dal periodo romantico, quando Antigone è divenuta emblema della ribellione e della pietà anti-tirannica, non facciamo che scambiare l’Antigone mito per l’Antigone personaggio, le nostre proiezioni post-1789 per la realtà della fanciulla sofoclea. Se stiamo a una lettura storica e non mitizzante, qual è quella che Eva Cantarella ci offre adesso, Antigone non è un’eroina libertaria, non è una vittima, non è la portavoce di una legge migliore. Lei, anzi, è una negatrice della legge, perché si sottrae alle regole della polis. È un’impolitica, che agisce da sola e, così facendo, esautora il principio ordinatore su cui si basa la vita della comunità. Io trovo persuasiva questa interpretazione, con tutto che anch’io mi sia inchinato per gran parte della mia vita al mito, vedendo in Antigone, fin da ragazzo, un modello di disobbedienza e di determinazione, anzi, di ostinazione, un po’ simile a quella del Barone rampante di Italo Calvino, che si prende tutta la ragione a costo della più faticosa solitudine. Antigone va anche più in là: lei, pur di disobbedire, corre incontro alla morte. E proprio questo non va giù a Eva Cantarella. E proprio questo, se la sua lettura va accolta, non va giù a Sofocle. Antigone, insomma, nega la vita; ama i morti e ama la morte (il fidanzato manco lo nomina una volta, come se non esistesse, sottolinea l’autrice), mentre, per i greci antichi, fin dai tempi di Omero, la vita costituisce l’unica grande occasione che noi esseri umani abbiamo.
Creonte, allora, come dobbiamo intenderlo? Secondo la Cantarella è un personaggio positivo, ed è il vero protagonista della tragedia. Incarna la legge (non la tirannide, sebbene Antigone non smetta di trattarlo da tiranno) ed è quello che più paga, perdendo figlio e moglie. Ma perché deve pagare tanto, se non è il malvagio che si pensava? La Cantarella ammette che Creonte ha le sue pecche, ma lo considera fondamentalmente alla luce della nuova contrapposizione che nasce dalla sua preliminare revisione critica del significato di Antigone. Io credo che Creonte, alla fine, paghi per esser stato intransigente, per non aver saputo negoziare, nonostante abbia agito per il puro e semplice rispetto della legge. Antigone è un dramma del ragionamento e della capacità di decidere. E un’analisi del lessico questo lo mette sotto gli occhi molto chiaramente. Creonte, insomma, è l’uomo dei princìpi. La legge, tuttavia, si fa rispettare attraverso il confronto tra i punti di vista più che attraverso il dogmatismo. Alla dialettica e all’alternativa, infatti, come gli ricorda il figlio Esone in un bellissimo discorso, occorre fare appello. A un certo punto, Creonte lo capisce; ammette di esser stato rigido. E lo capisce appena prima che tutto precipiti. Purtroppo, cioè per la fatalità immodificabile che impone la macchina del pensiero tragico, non riesce a fermare il meccanismo del disastro. La lettura della Cantarella semplifica con eleganza matematica il senso di un dissidio che è anche troppo facile fraintendere. In una tragedia greca, infatti, nessun personaggio ha mai tutta la ragione. Il messaggio esce ambiguo e multi-prospettico. La tragedia è il genere della pluralità, cioè della democrazia. La lezione etica e morale non uscirà dalla bocca di uno, ma dalla somma di tutte le differenze. Antigone, in fondo, non sbagliava ad amare il fratello e a volergli dare sepoltura. Creonte non sbagliava a voler difendere la legge e a impedire quella sepoltura. Eppure sbagliavano entrambi in qualche modo: lei per proterva negazione della vita civile, lui per sorda applicazione della lettera. Questo pensiero mi viene da fare, mentre concludo la lettura di Contro Antigone. E anche un altro: che la lettura dei classici è uno degli esercizi più difficili e necessari che possiamo svolgere. Occorrono responsabilità, precisione, lungimiranza; e molto anticonformismo. Ringraziamo Eva Cantarella per esser esempio di simili virtù, che hanno prodotto un discorso fermo e ponderato, e senza dubbio preparato il terreno per un utile dibattito.

- Nicola Gardini - Pubblicato su Domenica del 17/3/2024 -

lunedì 25 novembre 2024

Non c’è più il Rock di una volta !!!

 

Il 9 settembre 1979 settantamila ragazze e ragazzi si radunano allo stadio di Bologna; il giorno dopo un’identica folla riempie il Comunale di Firenze. Quei centoquarantamila giovani giunti da ogni angolo d’Italia per ascoltare i due concerti del Patti Smith Group sono, in buona parte inconsapevolmente, l’espressione di un’epoca: il punto di arrivo di un percorso in cui convivono l'anima del 1968 e quella del 1977, la rivolta contro la famiglia borghese e la protesta contro la società, la rivoluzione della musica rock e «l’orda d’oro» dei movimenti extraparlamentari. In Rumore rosso Goffredo Plastino ripercorre la miriade di fili nascosti intrecciati a questi due concerti leggendari, tracciando così un affresco storico e sociale dai colori accesi. Pagina dopo pagina, la cronaca di quei due giorni si spalanca infatti al racconto – corale e individuale – degli anni settanta, alla narrazione della nascita di un modo altro di concepire e vivere le canzoni e la politica, il pubblico e il privato.  Alternando i documenti e le testimonianze dei presenti a fotografie e illustrazioni tratte dai giornali dell’epoca, i versi di Stefano Benni ai testi di Alberto Arbasino e Roberto Roversi, in quest’opera Goffredo Plastino dà prova di come la musica possa rivelarsi lo strumento perfetto per comprendere una realtà così inafferrabile, così complessa, dinamica e multiforme come quella che l’Italia vive in quegli anni. Ed è lì, racchiuso in due stadi, tra una rockstar e le moltitudini in tumulto, che si rende visibile l’universo di significati che ha investito una generazione intera.

(dal risvolto di copertina di: Goffredo Plastino, "Rumore rosso. Patti Smith in Italia: rock e politica negli anni settanta". Il Saggiatore, pagg. 306, € 25)

 

Quando patti cantava alla festa dell’unità
- Nel 1979 il Pci cominciò a organizzare eventi musicali per avvicinarsi ai giovani e volle Smith a Bologna e Firenze. Plastino nel suo bel libro «Rumore rosso» spiega il fenomeno come uno scontro sull’egemonia politica e culturale -
di Jacopo Tomatis

Il rock è stato la musica più esaltante del Novecento ma a noi toccano o il suo revival o i suoi cascami e – nell’idealizzazione del passato che infesta il nostro presente – si perde la complessità che caratterizzava la sua stagione d’oro. È una delle prime riflessioni che tocca il lettore di Rumore rosso, il libro che Goffredo Plastino (musicologo italiano da anni trapiantato in Uk, all’Università di Newcastle) ha dedicato al passaggio di Patti Smith in Italia nel 1979. I due concerti a Bologna e a Firenze della cantante, mitizzati negli anni da chi c’era (e anche da chi non c’era) rappresentano infatti uno snodo storico di grande rilevanza per comprendere sia il rock e i significati che ha assunto nel nostro Paese, sia l’articolato rapporto che quei significati intrattenevano con la cultura di sinistra. Da un lato, l’arrivo di Patti Smith coincide con il ritorno del pop internazionale in Italia dopo una fase di stop dovuta alla diffusa violenza (altro che pace e amore: all’epoca sui palchi si tiravano le molotov, oggi dai tornelli non passa neanche un tappo di plastica) e apre la stagione dei megaeventi negli stadi. Dall’altro, negli anni del riflusso, segna la simbolica fine di una stagione di fermenti culturali e politici che si era aperta con il ’68. In effetti, gli eventi ricostruiti da Plastino seguono l’ammissione da parte del Pci della propria difficoltà nell’«entrare in contatto con grandi masse della gioventù», come dichiara Enrico Berlinguer al Comitato centrale nel 1979. E così il più grande partito comunista da questo lato della cortina di ferro si butta nella gestione dei grandi eventi: in estate supporta il tour Banana Republic di Lucio Dalla e Francesco De Gregori, in settembre ingaggia Patti Smith per la Festa dell’Unità. Il libro – rigoroso nell’impianto, ma al contempo leggero per come affastella documenti e voci, stampa dell’epoca e memorie di oggi – sembra a tratti trasformarsi nel romanzo picaresco dei tardi 70 italiani, con una rockstar americana catapultata in mezzo a dinamiche troppo complesse per essere comprese e gestite tanto da lei quanto da chi sta contribuendo ad alimentarle. «A Bologna e Firenze vanno in scena non solo un gruppo di musicisti e una cantante rock, ma anche uno scontro sull’egemonia politica e culturale», scrive Plastino, ed è uno scontro di tutti contro tutti, una specie di battle royale dei rapporti fra politica e cultura in Italia – in un momento storico, oltretutto, in cui il rock stava definitivamente reclamando il suo posto nella “cultura” e in cui la politica si allontanava definitivamente dal cuore della vita sentimentale e civile degli italiani e delle italiane. I partiti di sinistra dell’arco istituzionale si scontrano con il movimento sul senso di organizzare eventi musicali collettivi. Il Pci si scontra con la Dc su come gestire i concerti e le politiche giovanili, e con sé stesso su come dare un senso politico a un evento che è inserito nel sistema di mercato. Ma è la stessa Patti Smith ad alimentare le interpretazioni divergenti. Dal 1975 (anno di uscita del primo album Horses) è stata dapprima celebrata come una versione al femminile di Bob Dylan, poi assorbita nel nascente movimento punk per diventare infine “la poetessa del rock”. Nel 1979 l’Italia l’accoglie come nessun altro Paese, e lei ricambia: omaggia Pasolini, dice di sentirsi vicina a Michelangelo e ad Anna Magnani, ma anche a Giovanni Paolo I. Prestigiosi editori pubblicano i suoi versi. Il primo numero della rivista «Alfabeta» la consacra in copertina, dove il suo nome appare insieme a quelli di Umberto Eco, Maria Corti e Renato Barilli. Al grido di “Patti è nostra” l’appartenenza politica e culturale di una cantante viene allora rivendicata più o meno da tutti, e durante il suo passaggio italiano più o meno tutti sembrano incrociarne la strada, apprezzarla o dissociarsi da lei: Isabella Rossellini la intervista girando per i canali di Venezia su una barca, Bifo Berardi le dice «ti odio» durante una conferenza stampa, Achille Occhetto la accoglie a nome del partito insieme a una delegazione in giacca e cravatta del Konsomol, ospite d’onore allo stadio di Firenze (non apprezzeranno particolarmente il concerto). E poi ci sono Luigi Nono (trascinato dalla figlia), Roberto Roversi, gli Skiantos, Stefano Benni, Michele Serra, Alberto Arbasino, Red Ronnie, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Lotta continua e Autonomia operaia. Lo scontro è tanto sui giornali e sulle riviste quanto sul prato dello stadio: gli altoparlanti diffondono la voce registrata di papa Luciani e una pioggia di zolle d’erba bersaglia la cantante. Poi parte l’inno nazionale americano, e nella folla è «la fine del mondo». «È stato il concerto più bello della mia vita», commenterà Patti Smith al termine. Poco dopo scioglierà il gruppo. Tornerà a esibirsi dal vivo solo nel 1995. Davvero, non c’è più il rock di una volta.

- Jacopo Tomatis - Pubblicato su Domenica del 17/3/2024 -

domenica 24 novembre 2024

Sragioanando inutilmente…

Un libro sull’anarchia non rappresenterà mai degnamente questa dottrina se non l’incarna esso stesso. Nascono da questo presupposto gli sragionamenti che Paolo Morelli sviluppa, partendo da una storia dell’anarchia e proseguendo con i paradossi dei koan, per cogliere il senso profondo del più sincero, se non del più nobile, tentativo di rivolta che l’essere umano abbia mai fatto. L’autore diventa così un esploratore dei suoi ricordi e delle esperienze che lo hanno condotto prima a vivere e poi a condividere il metodo anarchico.

(dal risvolto di copertina di: Paolo Morelli, "Sragionamenti sull’anarchia". Italo Svevo, pagg. 144, € 16)

Sull’anarchico dobbiamo ancora (s)ragionare
- di Paolo Albani -

Ogni volta che rientro in Italia da Lugano, mi viene un groppo alla gola e con gli occhi luccicanti, quasi in preda a un riflesso condizionato, maledetto Pavlov!, mi metto a cantare Addio Lugano bella, scritta dall’avvocato anarchico Pietro Gori. Forse questo mi accade perché ho una visione romantica dell’anarchia, della sua storia di uomini generosi, piena di nobili ideali («nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà»), una storia fatta di solidarietà, di lotte contro i soprusi e il potere autoritario  egli Stati, di ingiuste persecuzioni e anche, diciamolo pure, di qualche bombetta tirata contro gli odiati monarchi. Sulla figura dell’uomo anarchico, oggi quanto mai anacronistica e controversa, ma allo stesso tempo suggestiva, «sragiona» Paolo Morelli, scrittore-scrittore come ce ne sono  pochi nel panorama italiano, autore di libri e pamphlet stimolanti, esperto di camminate per perdersi in montagna, traduttore, anche di testi cinesi (di recente per Quodlibet ha  curato il libro di poesie di Yang Wanli -1127-1206- "La contrada natale dei sogni”), performer, curatore di collane, e forse mi sono dimenticato qualcosa. «Sragiona» Morelli perché, guarda un po’, l’ultimo suo testo l’ha intitolato "Sragionamenti sull’anarchia", nella collana «Biblioteca di letteratura inutile» di Italo Svevo, e sottolineo inutile, che torna a pennello con quanto si dirà dopo. Titolo quanto mai manganelliano, se posso permettermi, pensando a "Sconclusione", libro farneticante e urticante del Manga. Sì, perché, con gli «sragionamenti» di Morelli, siamo nei dintorni mirabili del farneticante, ma di un farneticante nutritivo, denso di un pensiero critico, di gocce pungenti di filosofia (parafrasando Wittgenstein: «In una goccerella di grammatica si condensa un’intiera nube di filosofia»), di una scrittura che non ti lascia scampo, che ti prende  dentro, ti smuove l’anima e le budella. Per il lettore, non c’è tregua, Morelli lo incalza, con le sue argomentazioni spericolate, non gli lascia sogni tranquilli. Non per nulla la frase-manifesto del libro è questa di Errico Malatesta, tra i principali teorici del movimento anarchico, più di dieci anni della vita passati in carcere e in esilio all’estero: «Non ho bisogno di stare tranquillo». Che trovo bellissima, terribilmente sconcertante. Come pure quella, in esergo al libro, di Camillo Berneri, filosofo e scrittore anarchico, ucciso nel 1937 dai comunisti stalinisti: «Non ci posso niente, in questo mio non trovarmi d’accordo con quasi nessuno». Che se l’avesse scritta Morelli medesimo in persona non ci troverei niente di strano.

Ma veniamo al dunque. Nella prima parte del libro, Morelli gira intorno, aggiornandola di continuo, a una possibile (potenziale) definizione di uomo anarchico. Che per Morelli, in breve, è un disgraziato testardo, anzi cocciuto, dotato di alto senso di responsabilità e che non è furbo. In altri termini è ciò che solitamente viene dipinto come una mina vagante per la società e la civiltà, in ogni epoca e luogo. L’anarchico, tanto per rastremare un po’ le idee facendo disordine, dice Morelli, è uno che dà fastidio, insofferente della mediocrazia, delle leggi del più forte e in specie, il che non è una quisquilia, di essere comandato dagli scarsi, dai codardi, dagli incapaci e dai mediocri, appunto. Ciò che muove l’uomo anarchico è una forte carica sovversiva, un’energia confortata dalla fiducia nelle possibilità e nelle opportunità, e pure nella fantasia (che forte!), nel desiderio di conoscere le cose al mondo. È un attempato delle cause perse, un collezionista di errori benefici, l’anarchico di Morelli, uno che aderisce al pensiero di Robert Louis Stevenson quando sostiene che lo scopo nella vita non è riuscire, bensì fallire nella migliore delle intenzioni.
La parte più innovativa e originale degli «sragionamenti» morelliani è quella in cui la causa anarchica s’intreccia con l’antico pensiero filosofico cinese, con le domande irrisolvibili dei koan, formulate per aiutare la meditazione e risvegliare una profonda consapevolezza. Una pratica che insegna, in sintesi, a mettere al centro della propria esistenza l’inutile, a reimparare la naturalezza del non-conoscere, a non esercitare un qualsivoglia traffico d’influenze, a non prendersi mai troppo sul serio. Tutto ciò, ahimè, conduce inevitabilmente alla solitudine, scrive l’anarco-scrittore Morelli, a collocarsi in una posizione scomoda che però è da sempre una garanzia di sapere come stanno veramente le cose.

- Paolo Albani - Pubblicato su Domenica il 18/2/2024 -

sabato 23 novembre 2024

«Chi può capire i mille fili che uniscono le anime degli uomini e la portata delle loro parole»?

La Spagna si è da poco lasciata alle spalle la rovinosa Guerra civile quando la diciottenne Andrea, senza più genitori, giunge a Barcellona per frequentare l’università. La casa in calle de Aribau dove viene accolta dai parenti non è più, però, il luogo fatato dell’infanzia: la ricchezza e la bellezza di un tempo sono ora sommerse da un cumulo di polvere, ragnatele e sporcizia; una tetra esteriorità che, di fatto, è solo lo specchio delle profonde ferite – lasciate dalla guerra e dall’indigenza – dei cuori di chi abita lì dentro. Un intero anno rimarrà Andrea in quella casa. Abbastanza per assistere ai drammi interiori dei suoi tre zii e della nonna, ciascuno a modo suo smarrito nel proprio mal di vivere, ma anche abbastanza per coltivare, fuori dalle quattro mura, un’amicizia vera e profonda con Ena, compagna di università in grado di sottrarla al cupo convincimento che nulla può essere davvero compreso e salvato, e che ogni esperienza umana, alla fin fine, si può riassumere in una sola parola: nada, niente. Uscito per la prima volta nel 1945 quando l’autrice aveva appena ventitré anni, per la prosa delicata e l’eccezionale forza introspettiva (Azorín, fra i tanti, sottolineò le «complessità psicologiche» del romanzo «che ci fanno pensare e sentire») è considerato uno dei più importanti romanzi spagnoli del Novecento.

(dal risvolto di copertina di: Carmen Laforet, "Nada". Traduzione di Barbara Bertoni, prefazione di Elvira Lindo Cliquot, pagg. 86, € 20)

Barcellona nell’ombra della guerra civile: Carmen Laforet
- di Marta Morazzoni -

Carmen Laforet ha 23 anni quando scrive il primo romanzo; è il 1944, il suo Paese, la Spagna, è uscito da poco dalla guerra  civile e ne porta ancora le cicatrici. Su una persona giovane e dalla sensibilità accesa questi sono segni che “urlano” e chiedono di essere interpretati. E infatti da tale passato nasce il romanzo Nada; si ambienta a Barcellona in una famiglia sconquassata da un malessere che sfocia in malafede reciproca e aggressività: mancano denaro, fiducia nel futuro, certezza di affetto. Qui arriva dalla provincia la giovane Andrea, ospitata dalla nonna e da un nucleo disturbato di zii, e affronta un anno di studi all’università tra disagi, paure, fame e freddo, un freddo che si annida soprattutto nell’anima. Un anno per maturare, conoscere altro intorno a sé, e lasciare dietro di sé il caos che in fondo l’ha formata. È il romanzo di un’autrice alla sua prima prova impegnativa e ha in sé, come un paradossale merito, l’impaccio di uno sguardo disorientato su un mondo adulto scoraggiante: i momenti difficili, le violenze e i passi indietro verso una disperata tenerezza ci arrivano attraverso la voce spaventata e persa di un io narrante che cerca di capire e, con una maturità che cresce lenta, a volte di compatire. I personaggi che contornano la protagonista sono delineati con la nettezza spigolosa di chi deve ancora prendere confidenza con le sfumature, da qui gli eccessi che definiscono alcune figure, per esempio Romàn, l’artista  sensibilissimo e violento, che pure ha degli sprazzi di lucida analisi del suo tempo e di sé. Si ha a tratti la sensazione di un  ambito teatrale in cui si rappresenta qualcosa al limite dell’improbabile, eppure è vera e forte la percezione fisica del disagio vissuto dalla protagonista. Della guerra appena finita in esplicito non si parla, ma lo strascico di miseria e disordine che ha lasciato dietro di sé traspare ed è l’ombra più pesante sulla storia. Ma c’è anche, raccontata con cura e con affetto, stregante e remota, Barcellona: all’interno confuso della casa in calle de Aribau fa da contraltare lo spazio tra collina e mare in cui la città si adagia, in cui spicca il paesaggio notturno della cattedrale con l’accenno al quartiere che la circonda, un fantasma  distrutto dalla guerra. Probabile che solo la giovane età della scrittrice l’abbia guidata a cogliere sprazzi di luce e a un finale liberatorio, a compenso della tonalità cupa del romanzo. Romanzo a suo tempo pluripremiato e apprezzato dal pubblico, il primo di una carriera che colloca l’autrice, morta nel 2004, insieme a Ana Maria Matute tra le figure di rilievo della letteratura spagnola  contemporanea.

- Marta Morazzoni - Pubblicato il 14/1/2024 su Robinson -

venerdì 22 novembre 2024

Imparare dal nemico ??!!???

Questo fondamentale testo di Paul Mattick, del 1939, scritto prima dello scoppio della guerra (invasione della Polonia), potrebbe permetterci di affrontare una discussione su quella "via maestra" capitalistica, che dalla socialdemocrazia portò allora al nazismo di Hitler, e che prima aveva schiacciato la rivoluzione in Germania nel 1919, e ancora prima, il 4 agosto 1914, con la consacrazione del riformismo, aveva attraversa il Rubicone capitalista. Va aggiunto che, all'opuscolo di Lenin sul "rinnegato Kautsky", Paul Mattick osservava giustamente che: «Non è possibile considerare Kautsky un "rinnegato. Solo un completo fraintendimento della teoria e della pratica del movimento socialdemocratico, così come dell'attività di Kautsky, potrebbe condurre a un'idea simile».

Karl Kautsky: Da Marx a Hitler
- di Paul Mattick -

Nell'autunno del 1938, Karl Kautsky moriva ad Amsterdam all'età di 84 anni. Era considerato il più importante teorico del movimento operaio marxista dopo la morte dei suoi fondatori, e si può dire che ne fosse il membro più rappresentativo. Ha incarnato molto chiaramente sia gli aspetti rivoluzionari che quelli reazionari di quel movimento. Ma mentre, davanti alla tomba di MarxFriedrich Engels aveva potuto dire che il suo amico era «soprattutto un rivoluzionario», sarebbe ben difficile poter dire lo stesso a proposito del suo allievo più famoso. «Come teorico e come politico, resterà sempre oggetto di critica», scriveva Friedrich Adler in memoria di Kautsky, «ma il suo carattere era rimasto aperto, e per tutta la vita si è mantenuto fedele alla più alta maestà, la propria coscienza» [*1].  La coscienza di Kautsky si era formata durante l'ascesa della socialdemocrazia tedesca. Nasce in Austria [N.d.T: in realtà nasce a Praga], figlio di un pittore di scena del Teatro Imperiale di Vienna. Già nel 1875, pur non essendo ancora marxista, dava il suo contributo ai giornali operai tedeschi e austriaci. Divenne membro del Partito socialdemocratico tedesco nel 1880 e «fu solo allora» - come disse lui stesso - «che ebbe inizio il mio sviluppo verso un marxismo coerente e metodico»[*2]. Come tanti altri, si ispirò all'Antidühring di Engels, e nel suo orientamento venne aiutato da Eduard Bernstein, che  allora era il segretario del socialista "milionario" Hoechberg. I suoi primi lavori furono pubblicati con l'aiuto di Hoechberg, e trovò riconoscimento nel movimento operaio grazie alla sua direzione editoriale di un certo numero di pubblicazioni socialiste. Nel 1883 fondò la rivista Neue Zeit, che, sotto la sua direzione, divenne il più importante organo teorico della socialdemocrazia tedesca. L'opera letteraria e scientifica di Kautsky è impressionante, non solo per l'ampiezza dei suoi interessi, ma anche per il suo volume. La bibliografia dei suoi scritti, sebbene sia selettiva, riempirebbe molte pagine. Ciò che viene alla luce in quel lavoro, è tutto ciò che sembrava essere stato importante per il movimento socialista negli ultimi 60 anni. Mostra come Kautsky fosse soprattutto un insegnante e che, dato che guardava la società dal punto di vista di un maestro di scuola, egli era perfettamente adatto al suo ruolo di spirito guida di un movimento volto a educare sia gli operai che i capitalisti. E poiché era un educatore interessato al "lato teorico" del marxismo, coerente con il movimento che serviva, poteva perciò apparire più rivoluzionario di quanto fosse. Si dimostrò un marxista "ortodosso" che cercava di salvaguardare l'eredità marxista, alla stregua di un tesoriere che voleva preservare i fondi della sua organizzazione. Tuttavia, ciò che c'era di "rivoluzionario" nell'insegnamento di Kautsky, lo sembrava solo se visto in contrasto con l'ideologia capitalistica generale dell'anteguerra. Tuttavia, in contrasto con le teorie rivoluzionarie stabilite da Marx ed Engels, tale insegnamento consisteva in un ritorno a delle forme di pensiero più primitive, e una minore percezione delle implicazioni della società borghese. Così, egli, pur conservando lo scrigno del marxismo, non guardava a tutto ciò che conteneva. Nel 1862, in una lettera a Kugelmann, Marx esprimeva la speranza che le sue opere non popolari - quelle che tentavano di rivoluzionare la scienza economica - avrebbero trovato a tempo debito un'adeguata popolarizzazione; un'impresa questa che sarebbe stata più facile solo dopo che ne fossero state gettate le basi scientifiche. «Il lavoro della mia vita mi è diventato chiaro nel 1883.» - scrisse Kautsky - «Doveva essere destinato alla propaganda e alla divulgazione e, per quanto mi è stato possibile, alla continuazione dei risultati scientifici del pensiero e della ricerca di Marx»[*3]. Tuttavia, nemmeno lui, il più grande divulgatore di Marx, realizzò la speranza di Marx; Le sue semplificazioni si sono sempre rivelate essere nuove mistificazioni, incapaci di cogliere il vero carattere della società capitalistica. Tuttavia, anche nella loro forma annacquata, le teorie di Marx rimasero superiori a tutte le teorie sociali ed economiche borghesi, e gli scritti di Kautsky diedero forza e gioia a centinaia di migliaia di operai coscienti. Esprimeva i propri pensieri, e lo faceva in un linguaggio più vicino a loro di  quanto lo fosse quello del pensatore più indipendente, Marx. Sebbene quest'ultimo abbia dimostrato più di una volta il suo grande dono per la pertinenza e la chiarezza,  egli tuttavia non era abbastanza maestro di scuola per riuscire a  sacrificare alla propaganda il piacere del suo capriccio intellettuale. Quando diciamo che Kautsky rappresentava anche tutto ciò che c'era di "reazionario" nel vecchio movimento operaio, usiamo questo termine in un senso molto specifico. Gli elementi reazionari, in Kautsky e nel vecchio movimento operaio, erano oggettivamente condizionati, e fu solo dopo un lungo periodo di esposizione a una realtà ostile che si sviluppò questa disposizione soggettiva a trasformarsi in difensori della società capitalistica. Nel Capitale, Marx sottolineava che «il movimento al rialzo, impresso ai prezzi del lavoro dall'accumulazione del capitale, dimostra, al contrario, che la catena d'oro, a cui il capitalista tiene inchiodato il salariato, e che quest'ultimo non cessa mai di forgiare, si è già allungata, in modo da consentire così un allentamento della tensione »[*4]. La possibilità - nelle condizioni di una formazione progressista del capitale - di migliorare le condizioni di lavoro, e di aumentare il prezzo del lavoro, ha trasformato la lotta operaia in una forza per l'espansione capitalistica. Analogamente alla competizione capitalista, la lotta dei lavoratori è servita da motivazione per far avanzare l'accumulazione del capitale; ha accentuato il "progresso" capitalistico. Tutti i guadagni dei lavoratori sono stati pagati mediante un aumento dello sfruttamento, il quale a sua volta ha consentito un'espansione ancora più rapida del capitale. La lotta di classe dei lavoratori ha potuto servire anche ai bisogni, non dei singoli capitalisti ma del capitale. Le vittorie degli operai si ritorcevano così contro i "vincitori". Più i lavoratori guadagnavano, più il capitale diventava ricco. Il divario tra salari e profitti cresceva ad ogni aumento della «quota pagata ai lavoratori». La forza apparentemente crescente del lavoro, in realtà costituiva il continuo indebolimento della sua posizione rispetto a quella del capitale. I "successi" dei lavoratori in questa sfera di azione sociale - salutati da Eduard Bernstein come se si trattasse di una nuova era del capitalismo - non appena il capitale fosse passato dall'espansione alla stagnazione, non avrebbero potuto altro che portare alla sconfitta finale della classe operaia. Nella distruzione del vecchio movimento operaio - e Kautsky non mancò di vederlo - si manifestarono tutte quelle migliaia di sconfitte subite durante il periodo dell'ascesa del capitalismo, e, sebbene tali sconfitte fossero celebrate come vittorie del gradualismo, in realtà non rappresentavano altro che il gradualismo della sconfitta degli operai, in un campo d'azione dove il vantaggio è sempre dalla parte della borghesia. Tuttavia, il revisionismo di Bernstein, che si basava sull'accettazione dell'apparenza di quella "realtà" che veniva suggerita dall'empirismo borghese; e sebbene, inizialmente, quest'ultimo fosse stato denunciato da Kautsky, egli fornì la base del suo successo. Infatti, senza la pratica non rivoluzionaria del vecchio movimento operaio - le cui teorie erano state plasmate da Bernstein - Kautsky non avrebbe trovato un movimento, e una base materiale, su cui ergersi come importante teorico marxista. Questa situazione oggettiva, che, come abbiamo visto, ha trasformato i successi del movimento operaio in altrettanti passi verso la sua distruzione, ha creato un'ideologia non rivoluzionaria che era più in sintonia con la realtà apparente, e che in seguito è stata  denunciata come social-riformismo, opportunismo, social-sciovinismo, e tradimento vero e proprio. Tuttavia, questo "tradimento" non aveva infastidito molto coloro che erano stati traditi. Al contrario, la maggioranza dei lavoratori organizzati approvava il cambiamento di atteggiamento che c'era stato nel movimento socialista, dato che era in linea con le sue aspirazioni, sviluppatesi in un capitalismo in crescita. Le masse non erano rivoluzionarie quanto i loro leader, e sia le une che gli altri erano tutti soddisfatti della loro partecipazione al progresso capitalistico.

Si erano organizzati, non solo per ottenere una quota maggiore del prodotto sociale, ma anche per avere più voti nella sfera politica. Avevano imparato a pensare in termini di democrazia borghese; e avevano cominciato a parlare di sé stessi come consumatori; volevano partecipare a tutto ciò che c’era di buono in termini di cultura e di civiltà. La “Storia della socialdemocrazia tedesca”, di Franz Mehring termina tipicamente con un capitolo su "L'arte e il proletariato". La scienza per gli operai, la letteratura per gli operai, le scuole per gli operai, la partecipazione a tutte le istituzioni della società capitalistica: era questo il vero desiderio del movimento, e nient'altro. Ragion per cui, invece di invocare la fine della scienza capitalista, chiamò gli scienziati del lavoro; Invece di abolire la legge capitalista, cominciò a formare avvocati del lavoro; vide nel crescente numero di storici, poeti, economisti, giornalisti, medici e dentisti impegnati nel lavoro - così come di parlamentari e burocrati sindacali - la socializzazione della società, la quale, con tutto ciò, stava diventando sempre più la sua medesima società. «Tutto quello che possiamo condividere sempre di più, ben presto lo troveremo anche difendibile.» Consciamente o inconsciamente, il vecchio movimento operaio vedeva nel processo di espansione capitalistica il suo proprio percorso verso un maggiore benessere e riconoscimento. Più il capitale prosperava, migliori sarebbero state anche le condizioni di lavoro. Soddisfatte della loro azione nel quadro del capitalismo, le organizzazioni operaie cominciarono a preoccuparsi della redditività del capitalismo. Le rivalità competitive tra i capitalisti nazionali erano state finora contrastate solo verbalmente. Sebbene il movimento inizialmente avesse combattuto solo per una "patria migliore", e poi aveva cominciato a essere disposto a difendere ciò che era già stato conquistato, ben presto raggiunse il punto in cui era pronto a difendere la patria «così com'è». La tolleranza che i "discepoli" di Marx mostrarono nei confronti della società borghese non fu unilaterale. La borghesia stessa aveva imparato, nella sua lotta contro la classe operaia, a "comprendere la questione sociale".Negli anni, la sua interpretazione dei fenomeni sociali è diventata sempre più materialista; e ben presto nei due campi di pensiero si è verificata una sovrapposizione di ideologie , e questo servì ad aumentare ulteriormente la "armonia", basata però sulla disarmonia reale dovuta agli attriti di classe nel contesto di un capitalismo in piena espansione. Tuttavia, erano i "marxisti" a essere più desiderosi della borghesia di "imparare dal nemico". Le tendenze revisioniste si erano sviluppate ben prima della morte di Engels. Quest'ultimo, e anche lo stesso Marx, avevano esitato, mostrando momenti in cui si erano lasciati trasportare dall'apparente successo del loro movimento. Ma quella che per loro era stata solo una modifica temporanea del loro modo di pensare - il quale  era essenzialmente coerente - è diventata una "convinzione" e una "scienza" per quel movimento che aveva imparato a vedere il progresso nelle tesorerie sindacali più pingui e nei voti elettorali più numerosi. Dopo il 1910, la socialdemocrazia tedesca si venne a trovare divisa in tre gruppi principali. C'erano i riformisti, i quali erano apertamente a favore dell'imperialismo tedesco; c'era la "sinistra", che si distingueva con alcuni nomi, come Luxemburg, Liebknecht, Mehring e Pannekoek; e poi c'era il "centro", il quale cercava di muoversi seguendo le vie tradizionali, ma solo in teoria, perché poi, in pratica, tutta la socialdemocrazia tedesca poteva fare solo ciò che era possibile; vale a dire, ciò che Bernstein voleva che essa facesse. Opporsi a Bernstein non poteva che significare opporsi a tutta la pratica socialdemocratica. La "sinistra" comincia a funzionare come tale solo quando inizia ad attaccare la socialdemocrazia in quanto parte della società capitalista. Le differenze tra le due opposte fazioni non potevano essere risolte concettualmente; ma si risolsero solo quando, nel 1919, il terrore di Noske eliminò il gruppo Spartacus. Con lo scoppio della guerra, la "sinistra" si trovò nelle prigioni capitalistiche, e la "destra" nello stato maggiore del Kaiser. Il "centro", diretto da Kautsky, si sbarazzò di ogni problema del movimento socialista dichiarando che, durante i periodi di guerra, né la socialdemocrazia né la sua Internazionale potevano funzionare dal momento che entrambe erano essenzialmente degli strumenti di pace. «Questa posizione», scriveva Rosa Luxemburg, «è la posizione di un eunuco. Dopo che Kautsky ha completato il Manifesto del Partito Comunista, ora si può leggere: Lavoratori di tutti i paesi, unitevi in tempo di pace, ma in tempo di guerra, tagliatevi la gola» [*5]. La guerra e le sue conseguenze avevano distrutto la leggenda della "ortodossia" marxista di Kautsky. Anche il suo allievo più entusiasta, Lenin, dovette voltare le spalle al maestro. Nell'ottobre del 1914 si vide costretto ad ammettere che, per quanto riguardava Kautsky, Rosa Luxemburg aveva ragione. In una lettera a Shliapnikov [*6] scriveva: «Ella aveva capito da tempo che Kautsky, in quanto teorico servile, indietreggiava di fronte alla maggioranza del partito, di fronte all'opportunismo. Non c'è nulla al mondo di più dannoso e pericoloso per l'indipendenza ideologica del proletariato di oggi dell'ipocrisia grossolana, presuntuosa e disgustosa di Kautsky. Vuole soffocare tutto, nascondere tutto e, con sofismi e retorica pseudo-scientifica, placare il risveglio delle coscienze degli operai». Ciò che distingueva Kautsky dalla massa generale degli intellettuali che si riversavano nel movimento operaio non appena questo diventava più rispettabile, e che erano fin troppo ansiosi di favorire la tendenza alla collaborazione di classe, era un maggiore amore per la teoria, un amore che però rifiutava di confrontare la teoria con la realtà. Come avviene con l'amore di una madre, che impedisce al figlio di apprendere troppo presto i "fatti della vita", anche Kautsky poteva rimanere un rivoluzionario solo come teorico, dato che era ben disposto a lasciare ad altri gli affari pratici del movimento. Ma si sbagliava. Nel ruolo di mero "teorico", egli smise di essere un teorico rivoluzionario, o meglio non poteva diventare un rivoluzionario. Non appena si venne a determinare la fase di una vera e propria battaglia tra capitalismo e socialismo, ecco che le sue teorie crollavano, poiché in pratica esse erano già state separate dal movimento che avrebbero dovuto rappresentare. Sebbene Kautsky si opponesse allo sciovinismo inutilmente entusiasta del suo partito, e sebbene egli esitasse a rallegrarsi della guerra, come invece fecero Ebert, Scheidemann e Hindenburg, per quanto non fosse favorevole alla concessione incondizionata dei crediti di guerra; egli, tuttavia, fino alla fine, fu costretto a distruggere con le proprie mani quella che era stata la leggenda della sua ortodossia marxista, acquisita per trent'anni grazie ai suoi scritti. Colui che nel 1902 [*7] aveva affermato che eravamo entrati in un periodo di lotte proletarie per il potere, dichiarò che tali tentativi, nel momento in cui gli operai le prendevano sul serio, erano solamente delle pure e semplici sciocchezze. Lui, che aveva combattuto così valorosamente contro il ministerialismo di Millerand e di Jaurès in Francia, 20 anni dopo, e facendo uso degli argomenti dei suoi ex avversari, avrebbe difeso la politica di coalizione della socialdemocrazia tedesca. Colui che era interessato a una "Via al Potere" già nel 1909, dopo la guerra sognava un "ultra-imperialismo" capitalista, come un percorso verso la pace mondiale, e passò il resto della sua vita a reinterpretare il proprio passato per giustificare così la sua ideologia di collaborazione di classe. «Nel corso della sua lotta di classe», scriveva nel suo ultimo libro, «il proletariato diventa sempre più l'avanguardia della ricostruzione dell'umanità, alla quale si interessano sempre più anche gli strati non proletari della società. Questo non è un tradimento dell'idea della lotta di classe. Avevo già questa posizione prima ancora che esistesse il bolscevismo, come ad esempio nel 1906, nel mio articolo nella Neue Zeit, su "Classe: Interessi particolari e comuni", un articolo nel quale giungevo alla conclusione che la lotta di classe proletaria non promuove la solidarietà di classe, ma solamente la solidarietà dell'umanità» [*8].

Di certo, non è possibile considerare Kautsky un "rinnegato". Solo un completo fraintendimento della teoria e della pratica del movimento socialdemocratico - così come dell'attività di Kautsky - potrebbe portare a una simile idea. Kautsky aspirava solo a essere un buon servitore del marxismo; a dirla tutta, sembra quasi che compiacere Engels e Marx sia stata la sua professione per tutta la vita. E a Marx si riferiva sempre nel modo tipicamente socialdemocratico e filisteo, chiamandolo "grande maestro", "olimpionico", "Dio del tuono", ecc., e si era sentito estremamente onorato del fatto che Marx «non lo aveva ricevuto con la stessa freddezza con cui aveva ricevuto il suo giovane collega Heine» [*9]. E credo che abbia giurato a sé stesso che non avrebbe deluso Engels, quando quest'ultimo cominciò a considerare lui e Bernstein come  dei «rappresentanti affidabili della teoria marxista», e per la maggior parte della sua vita rimase il più ardente difensore della "parola". Appare assai onesto nel momento in cui si lamenta con Engels [*10] che «quasi tutti gli intellettuali del partito... invocano le colonie, il pensiero nazionale, la resurrezione dell'antichità teutonica, la fiducia nel governo, la sostituzione del potere della "giustizia" alla lotta di classe, ed esprimono una marcata avversione per l'interpretazione materialista della storia, per il dogma marxista, come lo chiamano». Egli voleva solo argomentare contro di loro, difendere ciò che era stato stabilito dai suoi idoli. Un buon maestro di scuola, che era anche un ottimo studente. Engels aveva compreso fin troppo bene questa precoce "degenerazione" del movimento. Nella sua risposta alla denuncia di Kautsky, egli aveva  dichiarato [ *11] che «lo sviluppo del capitalismo si è dimostrato più forte della controffensiva rivoluzionaria. Una nuova insurrezione contro il capitalismo richiederebbe un violento shock, come la perdita del dominio della Gran Bretagna sul mercato mondiale, o un'improvvisa opportunità rivoluzionaria in Francia». Ma nessuno dei due eventi accadde. I socialisti non aspettavano più la rivoluzione. Invece Bernstein attese la morte di Engels, per evitare così di deludere quell'uomo a cui doveva di più che a qualunque altro, prima di proclamare che «l'obiettivo non significava nulla e il movimento tutto». È vero che anche lo stesso Engels durante l'ultima parte della sua vita aveva rafforzato le forze del riformismo. Ma ciò che nel suo caso poteva essere considerato solo come un indebolimento dell'individuo nella sua posizione rispetto al mondo, veniva invece preso dai suoi epigoni come se fosse la fonte della loro forza. Marx ed Engels erano tornati ripetutamente all'atteggiamento intransigente del Manifesto comunista e del Capitale, per esempio nella Critica del programma di Gotha, la cui pubblicazione era stata ritardata per non disturbare i conciliatori del movimento. La sua pubblicazione fu possibile solo in seguito a una lotta con la burocrazia del partito, che indusse Engels a dire che sarebbe un'idea geniale vedere la scienza socialista tedesca presentare, dopo la sua emancipazione dalle leggi socialiste bismarckiane, le proprie leggi socialiste, formulate dai funzionari del Partito Socialdemocratico [*12]. Kautsky difendeva un marxismo già castrato. Il marxismo radicale, rivoluzionario e anticapitalista era stato sconfitto dallo sviluppo capitalistico. Al Congresso dell'Internazionale operaia del 1872 all'Aia, lo stesso Marx aveva dichiarato: «Un giorno l'operaio dovrà impadronirsi della supremazia politica al fine di stabilire la nuova organizzazione del lavoro... Ma non abbiamo preteso che, per raggiungere questo fine, i mezzi sarebbero stati identici ovunque... e non neghiamo che ci siano paesi come l'America, l'Inghilterra... dove i lavoratori possono raggiungere il loro obiettivo con dei mezzi pacifici». Questa sua affermazione permise così anche ai revisionisti di definirsi marxisti, e l'unico argomento che Kautsky poté invocare contro di loro - come per esempio fece al congresso del Partito socialdemocratico a Stoccarda nel 1898 - era negare che il processo di democratizzazione e di socializzazione in corso in Inghilterra e in America si applicava anche alla Germania. Ha così solamente ripetuto la posizione di Marx circa la possibilità di una trasformazione più pacifica della società in alcuni paesi, aggiungendo a questa osservazione che anche lui «non desidera altro che arrivare al socialismo senza che ci fosse una catastrofe». Tuttavia, dubitava di una simile possibilità. È chiaro che, sulla base di questa riflessione, per Kautsky era perfettamente coerente supporre, dopo la guerra, che con lo sviluppo più rapido delle istituzioni democratiche in Germania e in Russia, ora fosse possibile intraprendere la via più pacifica verso il socialismo anche in questi paesi. La via pacifica, gli sembrava quella più sicura, dal momento che serviva meglio a quella «solidarietà di umanità» che egli desiderava sviluppare. Gli intellettuali socialisti volevano sovvertire questo pudore con cui la borghesia aveva imparato a trattarli. Dopotutto, siamo tutti gentiluomini! La vita piccolo-borghese ben ordinata dell'intellighenzia, che le veniva garantita da un potente movimento socialista, l'aveva portata a sottolineare gli aspetti etici e culturali delle cose. Kautsky odiava i metodi del bolscevismo con non meno intensità di quanto odiasse le guardie bianche; solo che, a differenza di loro, era pienamente d'accordo con lo scopo del bolscevismo. Dietro l'apparenza della rivoluzione proletaria, i dirigenti del movimento socialista vedevano giustamente un caos nel quale la loro posizione non sarebbe stata meno compromessa di quella della borghesia vera e propria. Il loro odio per il "disordine" rappresentava una difesa della loro posizione materiale, sociale e intellettuale. Il socialismo, non doveva essere sviluppato illegalmente, bensì legalmente, dal momento che solo in queste condizioni le organizzazioni esistenti e i leader in carica avrebbero potuto continuare a dominare il movimento. E il loro successo nell'interrompere l'imminente rivoluzione proletaria dimostrò, non solo che le "conquiste" degli operai nella sfera economica si ritorcevano contro gli stessi operai, ma anche che il loro "successo" nella sfera politica finiva per rivelarsi un'arma che veniva usata contro la loro stessa emancipazione. La socialdemocrazia, nella cui crescita i lavoratori avevano imparato a misurare il loro crescente potere, divenne Il più forte baluardo contro una soluzione radicale della questione sociale . Niente mostra il carattere rivoluzionario delle teorie di Marx, di quanto lo faccia la difficoltà a mantenerle in tempi non rivoluzionari. Nell'affermazione di Kautsky, secondo cui il movimento socialista non può funzionare in tempo di guerra, c'era un briciolo di verità, perché il tempo di guerra crea temporaneamente delle situazioni non rivoluzionarie. Il rivoluzionario si viene a trovare isolato, e così subisce una temporanea sconfitta. Deve aspettare che la situazione cambi, che la disponibilità soggettiva a partecipare alla guerra venga a essere spezzata dall'impossibilità oggettiva di dare tale disponibilità soggettiva. Un rivoluzionario, di tanto in tanto, non può fare a meno di rimanere "fuori dal mondo". Pensare che una pratica rivoluzionaria, che si esprima nell'azione indipendentemente dai lavoratori, sia sempre possibile, significa cadere vittima delle illusioni democratiche. Ma rimanere "fuori dal mondo" è ancora più difficile, perché nessuno può sapere quando le situazioni cambieranno, e nessuno vuole essere escluso quando si verifica un cambiamento. La coerenza esiste solo in teoria. Non possiamo dire che le teorie di Marx fossero incoerenti; ma si può dire che Marx non era coerente, vale a dire, che anche lui doveva mostrare deferenza nei confronti di una realtà mutevole, e che in tempi non rivoluzionari, per poter comunque funzionare, doveva funzionare in modo non rivoluzionario. Le sue teorie si limitavano agli elementi essenziali della lotta di classe tra borghesia e proletariato, ma la sua prassi era continua e affrontava i problemi "man mano che si presentavano"; problemi che non sempre potevano essere risolti secondo i principi essenziali. Non volendo fare un passo indietro durante il periodo degli sconvolgimenti capitalistici, Marx non poteva evitare di operare in un modo che era tuttavia contrario a una teoria che derivava dal riconoscere l'esistenza di una - vera e sempre presente - lotta di classe rivoluzionaria. Ma la teoria della lotta di classe permanente, non ha più giustificazioni di quante le abbia il concetto borghese di progresso. Non esiste alcun automatismo che fa accadere le cose; al contrario, la lotta conosce fortune mutevoli; si può trovare ad affrontare una situazione di stallo, e una completa sconfitta. Il mero numero di lavoratori che si oppongono al potente Stato capitalista - in un momento in cui la storia è ancora a favore del capitalismo - non rappresenta il gigante sulle cui spalle poggiano i parassiti capitalisti, ma è piuttosto il toro che deve muoversi nella direzione che gli viene imposta dalla sua mosca. Nel periodo non rivoluzionario dell'ascesa del capitalismo, il marxismo rivoluzionario può esistere solo in quanto ideologia, che nella sua forma serve una prassi completamente opposta. E in quest'ultima sua forma, viene limitata dagli eventi reali. Essendo una semplice ideologia, non appena dei grandi sollevamenti sociali avrebbero richiesto il passaggio da un'ideologia indiretta di collaborazione di classe a un'ideologia diretta per fini capitalistici, doveva cessare di esistere. Marx sviluppò le sue teorie durante un periodo rivoluzionario. Essendo il più audace dei rivoluzionari borghesi, era pertanto anche il più vicino al proletariato. La disfatta della borghesia, con i suoi elementi rivoluzionari e i successi di quest'ultimi nel contesto della controrivoluzione, convinsero Marx che la classe rivoluzionaria moderna non poteva essere che la classe operaia, e sviluppò da lì' la teoria socioeconomica della sua rivoluzione. Come molti dei suoi contemporanei, sottovalutò la forza e la flessibilità del capitalismo, e si aspettò troppo presto la fine della società borghese. Nel constatarlo, gli si presentavano due possibilità: o tenersi lontano dal corso reale degli eventi, limitandosi a un pensiero radicale inapplicabile, oppure partecipare, a certe condizioni, alle lotte reali, riservando le sue teorie rivoluzionarie ai "tempi migliori". Fu quest'ultima possibilità, a essere razionalizzata sotto forma di un buon "equilibrio tra teoria e prassi", e che la sconfitta, o il successo delle attività proletarie, a diventare il risultato di tattiche, "buone" o "cattive"; di una buona organizzazione e di una corretta gestione. Ciò che portò all'ulteriore sviluppo dell'aspetto giacobino del movimento operaio a cui diede il suo nome, non fu il primo legame che egli ebbe con la rivoluzione borghese, ma la prassi non rivoluzionaria di questo movimento in un'epoca che era non rivoluzionaria. Di conseguenza, il marxismo di Kautsky era pertanto un marxismo che aveva assunto la forma di una semplice ideologia, e nel corso del tempo era perciò destinato a ritornare su una strada idealistica. In realtà, "l'ortodossia" di Kautsky era solo un modo per conservare in maniera artificiale delle idee contrarie alla prassi reale, e che di conseguenza fu costretta a ritirarsi, dal momento che la realtà è sempre più forte dell'ideologia. Una vera "ortodossia" marxista potrebbe essere possibile solo con un ritorno a delle situazioni veramente rivoluzionarie, quando allora questa "ortodossia" non si dovrebbe più preoccupare di essere fedele "alla lettera", ma del principio della lotta di classe tra la borghesia e il proletariato, il quale dovrà essere applicato a delle situazioni nuove e mutate. Tutto ciò lo si può chiaramente vedere negli scritti di Kautsky, dove possiamo seguire tutta la regressione dalla teoria alla pratica. I numerosi libri e articoli scritti da Kautsky, trattano quasi tutti i problemi sociali, oltre ad alcune questioni specifiche riguardanti il movimento operaio. Tuttavia, i suoi scritti possono essere classificati in tre categorie: economia, storia e filosofia. Nel campo dell'economia politica, non si può dire molto del suo contributo. Rese popolare il primo volume del Capitale di Marx, e curò le Teorie del plusvalore di Marx, pubblicate negli anni dal 1904 al 1910. Le sue divulgazioni delle teorie economiche di Marx sono indistinguibili dall'interpretazione generalmente accettata dei fenomeni economici nel movimento socialista, comprendendo anche i revisionisti. In effetti, parti della sua famosa opera, "Le dottrine economiche di Karl Marx", sono state scritte da Eduard Bernstein. Kautsky ebbe solo una piccolissima parte nelle appassionate discussioni che ebbero luogo al volgere del secolo sul significato delle teorie di Marx nel secondo e nel terzo volume del Capitale. Per lui, il primo volume del Capitale conteneva tutto ciò che era importante per i lavoratori e per il loro movimento. Si occupava del processo di produzione, della fabbrica e dello sfruttamento, e conteneva tutto quel che era necessario al sostegno del movimento operaio contro il capitalismo. Gli altri due volumi, che trattano in modo molto dettagliato le tendenze capitalistiche alla crisi e al crollo, non corrispondevano alla realtà immediata, e quindi incontrarono scarso interesse non solo tra Kautsky, ma anche tra tutti i teorici marxisti del periodo dello sviluppo capitalistico. In una recensione del secondo volume del Capitale, scritta nel 1886, Kautsky si dichiarò dell'opinione che quel volume interessa meno gli operai, poiché tratta in gran parte il problema della realizzazione del plusvalore, il quale, a conti fatti, dovrebbe interessare solo i capitalisti. Quando Bernstein, nel corso del suo attacco alle teorie economiche di Marx, respinse la teoria del collasso di Marx, Kautsky si limitò semplicemente a difendere il marxismo, negando che Marx avesse mai sviluppato una particolare teoria che indicasse una fine oggettiva del capitalismo, e sostenendo che un simile concetto era una vera e propria invenzione di Bernstein. Fu nella sfera della circolazione che Kautsky cercò invece di situare le difficoltà e le contraddizioni del capitalismo. Il consumo non potrebbe mai aumentare così rapidamente come fa la produzione, e la sovrapproduzione permanente porterebbe alla necessità politica di introdurre il socialismo. Contro la teoria Tugan-Baranovsky dello sviluppo capitalistico senza restrizioni, che partiva dal fatto che il capitale crea i propri mercati ed è in grado di superare le sproporzioni di sviluppo - teoria che ha influenzato tutto il movimento riformista - Kautsky [*13] elaborò la sua teoria del sottoconsumo, in modo da spiegare così l'inevitabilità delle crisi capitaliste, crisi che avrebbero pertanto contribuito a creare le condizioni soggettive per la trasformazione del capitalismo in socialismo. Ma venticinque anni dopo, ammise apertamente di essersi sbagliato nella sua valutazione delle possibilità economiche del capitalismo, dal momento che «dal punto di vista economico, il capitale era diventato molto più dinamico di quanto non lo fosse 50 anni prima»[*14].

La mancanza di chiarezza e coerenza di Kautsky [*15] è arrivata al culmine allorché egli ha accettato le idee di Tugan-Baranovsky, che aveva precedentemente denunciato.

Questa mancanza era solo un riflesso di quello che era stato il suo cambiamento di atteggiamento generale nei confronti del pensiero borghese e della società capitalista. Nel suo libro, "La concezione materialista della storia", che è stato - secondo le sue stesse dichiarazioni il miglior prodotto finale del lavoro di tutta la sua vita -, in cui si occupa dell'evoluzione della natura, della società e dello stato per quasi 2.000 pagine, egli dimostra non solo il suo metodo puntiglioso di esposizione e la sua notevole conoscenza delle teorie e dei fatti, ma anche le sue molte idee sbagliate sul marxismo e sulla sua rottura definitiva con la scienza marxista. Egli dichiara apertamente che «di tanto in tanto le revisioni del marxismo sono inevitabili»[*16]. Ora accetta tutto ciò per cui ha apparentemente combattuto per tutta la vita. Non era più interessato solo all'interpretazione del marxismo, ma era pronto ad assumersi la responsabilità del proprio pensiero presentando la sua opera principale come una propria concezione della storia, che, senza essere totalmente distaccata da Marx ed Engels, ne era indipendente. Ora sostiene che i suoi maestri hanno limitato la loro concezione materialistica della storia, trascurandone troppo i fattori naturali. Basandosi non su Hegel, ma su Darwin, «egli vuole ora estendere il campo del materialismo storico alla sua fusione con la biologia»[*17]. Ma questo approfondimento del materialismo storico, alla fine risulta essere né più né meno che un ritorno al rozzo materialismo naturalistico dei precursori di Marx, cioè un ritorno alle posizioni della borghesia rivoluzionaria che Marx aveva superato nella sua critica di Feuerbach. Sulla base del suo materialismo naturalistico, Kautsky, come avevano fatto i filosofi borghesi prima di lui, non poteva fare a meno di adottare una concezione idealista dell'evoluzione sociale, la quale, trattando dello Stato, si confronta apertamente e completamente con le vecchie concezioni borghesi della storia dell'umanità vista storia degli Stati. Concludendo con lo Stato democratico-borghese, Kautsky afferma che «non c'è più spazio per un violento conflitto di classe. E' pacificamente, attraverso la propaganda e il sistema elettorale, che i conflitti possono finire, e che le decisioni possono essere prese»[*18]. Anche se è impossibile per noi qui poter rivedere in dettaglio tutto l'enorme lavoro di Kautsky [*19], dobbiamo dire che dimostra, dall'inizio alla fine, il carattere dubbio del "marxismo" del suo autore. Il suo rapporto con il movimento operaio, da un punto di vista retrospettivo, non è mai stato altro che la sua partecipazione a una certa forma di lavoro sociale borghese. Non c'è dubbio che egli non ha mai compreso la reale posizione di Marx ed Engels, o almeno che non ha mai sognato che le teorie potessero avere un rapporto immediato con la realtà. Questo studente marxista, apparentemente serio, non aveva mai veramente preso sul serio Marx. Come molti pii sacerdoti che si impegnavano in una pratica contraria al loro insegnamento, era possibile che egli non fosse nemmeno consapevole della dualità del suo pensiero e della sua azione. Non c'è dubbio che gli sarebbe sinceramente piaciuto essere in realtà quel borghese di cui Marx una volta disse che era «capitalista solo nell'interesse del proletariato». Ma egli, allo stesso tempo, rifiuterebbe anche un simile cambiamento della situazione, a meno che non fosse realizzabile in modo borghese, "pacifico" e democratico. Kautsky «rifiuta la melodia bolscevica che gli suona sgradevole all'orecchio», scriveva Trotsky, «ma non ne cerca un'altra. Per lui, la soluzione è semplice: il vecchio musicista, semplicemente si rifiuta di suonare lo strumento della rivoluzione» [*20] Verso la fine della sua vita, riconoscendo che le riforme del capitalismo ,che egli desiderava vedere attuate, non potevano però essere attuate con mezzi democratici e pacifici, Kautsky si rivoltò contro la sua stessa politica pratica, e proprio come, in altre epoche, era stato il difensore dell'ideologia marxista - la quale, totalmente avulsa dalla realtà, poteva servire solo i suoi avversari -, ora diventava il difensore dell'ideologia borghese del laissez-faire, che era invece così tanto lontana dalle condizioni reali della società capitalistica fascista nel suo processo di sviluppo fascista, e che ora serviva a quella società nello stesso modo in cui la sua ideologia marxista aveva servito la fase democratica del capitalismo. «Oggi» - dice nel suo ultimo lavoro - «ci lasciamo andare facilmente a disprezzare l'economia liberale. Ma le teorie di Quesnay, Adam Smith e Ricardo non sono affatto obsolete. Marx ha ripreso i principi essenziali e li ha perfezionati, ma non ha mai contestato il fatto che la produzione liberale di merci fosse la base migliore per lo sviluppo della produzione. La differenza tra Marx e i classici è la seguente: mentre questi ultimi consideravano la produzione di merci per conto privato come se essa fosse l'unica forma di produzione concepibile, Marx, da parte sua, riteneva invece che la forma di produzione più avanzata, la produzione di merci, in virtù del suo stesso sviluppo, creasse le condizioni per il passaggio a una forma di produzione superiore, quella produzione sociale, grazie alla quale la società – cioè la popolazione lavoratrice nel suo insieme – è in grado di gestire i mezzi di produzione, che d'allora in poi ruoteranno verso il soddisfacimento dei bisogni, e non più verso la creazione di profitto. Il modo di produzione socialista obbedisce alle proprie leggi, che sono quindi diverse sotto molti aspetti dalle leggi che regolano la produzione mercantile. Finché quest'ultimo predomina, tuttavia, funziona meglio se le leggi del suo movimento, scoperte nell'era del liberalismo, sono rispettate» [*21].  Queste idee appaiono molto sorprendenti in un uomo che aveva pubblicato le teorie di Marx sul plusvalore, un'opera che dimostrava esaurientemente «che Marx non ha mai approvato l'idea che i nuovi contenuti della sua teoria socialista e comunista avrebbero potuto essere derivati come una mera conseguenza logica. delle teorie totalmente borghesi di Quesnay, Smith e Ricardo» [*22]. La posizione di Kautsky, pertanto, fornisce le spiegazioni necessarie alla nostra precedente affermazione secondo cui egli era un eccellente allievo di Marx ed Engels. Ma lo era solo nella misura in cui il marxismo poteva adattarsi ai suoi concetti limitati di evoluzione sociale e di società capitalista. Per Kautsky, la "società socialista", cioè la conseguenza logica dello sviluppo capitalistico della produzione di merci, è in realtà solo un sistema capitalistico di Stato. Allorché confuse il concetto di valore di Marx, scambiandolo per una legge dell'economia socialista, se fosse stata applicata consapevolmente invece che lasciata alle operazioni "cieche" del mercato, Engels gli fece notare [*23] che per Marx il valore è una categoria strettamente storica; e che né prima né dopo il capitalismo essa è mai esistita, e non potrebbe esistere una produzione di valore che differisca da quella del capitalismo solo per la forma. Kautsky accettò l'affermazione di Engels, come si è poi manifestata nel suo libro "Le dottrine economiche di Karl Marx" (1887), dove considera anche il valore come  una categoria storica. Ma poi, più tardi, in reazione alla critica borghese della teoria economica socialista, reintrodusse nel suo schema di società socialista - nella sua opera "La rivoluzione proletaria e il suo programma" (1922) - il concetto di valore, di mercato e di economia monetaria, così come quello di produzione di merci. Ciò che una volta era storico è così diventato eterno; ed Engels aveva parlato invano. Kautsky era tornato alle sue origini, alla piccola borghesia, quella che odia con la stessa forza sia il potere monopolistico che il socialismo, e che spera in un cambiamento puramente quantitativo della società, in una riproduzione allargata dello status quo, in un capitalismo migliore e più sviluppato, in una democrazia migliore e più completa, in opposizione a un capitalismo che raggiungeva invece il suo culmine nel fascismo, o si trasforma in comunismo. Se Kautsky, alla "economia" del fascismo ha preferito la conservazione della produzione liberale di merci e la sua espressione politica, ciò è perché egli era debitore a quest'ultimo sistema della lunga grandezza, e della breve miseria, che ha vissuto. Allo stesso modo in cui aveva protetto la democrazia borghese con la fraseologia marxista, ora oscurava la realtà fascista con la fraseologia democratica. E rivolgendo i loro pensieri al passato, invece che al futuro, ha reso i suoi seguaci mentalmente incapaci di un'azione rivoluzionaria. L'uomo che, poco prima della sua morte, venne cacciato da Berlino e fu condotto a Vienna dal fascismo in marcia, per poi essere trasferito da Vienna a Praga e da Praga ad Amsterdam, nel 1937 pubblicò un libro [*24],   nel quale dimostra esplicitamente che una volta che un "marxista" compie il passo che lo porta da una concezione materialista a una idealista dello sviluppo sociale, egli può essere sicuro di arrivare prima o poi a quel limite di demarcazione del pensiero in cui l'idealismo si trasforma in follia. Oggi in Germania si dice che, mentre Hindenburg stava assistendo a una parata di truppe d'assalto naziste, si rivolse a un generale in piedi accanto a lui e disse: «Non sapevo che avessimo preso così tanti prigionieri russi». Anche Kautsky, nel suo ultimo libro, si è mentalmente attaccato a Tannenberg. La sua opera è una descrizione fedele dei diversi atteggiamenti assunti dai socialisti e dai loro precursori sulla questione della guerra dall'inizio del XV secolo ai giorni nostri. Ci mostra - ma Kautsky non se ne rende conto - quanto sia ridicolo il marxismo quando associa i bisogni e le necessità del proletariato a quelli della borghesia. Kautsky ha scritto il suo ultimo libro, come egli stesso ha detto, «per determinare quale posizione andrebbe presa, dai socialisti e dai democratici, nel caso che scoppiasse una nuova guerra, nonostante tutta la nostra opposizione fatta per impedirla» [*25]. E ha continuato, «non ci potrà essere una risposta diretta a questa domanda, fino a quando la guerra non sarà effettivamente qui, e saremo così tutti in grado di vedere chi è che ha provocato la guerra, e per quale scopo essa viene combattuta». Insomma, raccomandava che, «se scoppia la guerra, i socialisti dovrebbero mantenere la loro unità e garantire che la loro organizzazione superi la guerra sana e salva, in modo da poterne raccogliere i frutti nel caso che i regimi politici impopolari crollino. Nel 1914 l'unità è andata perduta, e stiamo ancora soffrendo per questa calamità. Ma oggi le cose sono assai più chiare di allora, la contrapposizione tra Stati democratici e antidemocratici è molto più chiara, e c'è da sperare che, se una nuova guerra mondiale finirà, tutti i socialisti saranno dalla parte della democrazia». Dopo le esperienze dell'ultima guerra, e la storia che si è svolta da allora, non c'è bisogno di cercare la pecora nera che causa le guerre, e anche il motivo per cui si combattono le guerre non è un segreto. Tuttavia, porre queste domande non è così stupido come si potrebbe pensare. Dietro questa apparente ingenuità c'è la determinazione a servire il capitalismo in una forma, mentre lo si combatte in un'altra. Si tratta di preparare gli operai alla guerra imminente, in cambio del diritto di organizzarsi in sindacati, di votare alle elezioni e di riunirli in formazioni che servano sia al capitale che alle organizzazioni operaie capitaliste. Si tratta della vecchia politica di Kautsky, che esige concessioni dalla borghesia in cambio della morte di milioni di operai nelle prossime battaglie capitalistiche. In realtà, proprio come le guerre del capitalismo, indipendentemente dalle differenze politiche degli Stati che vi partecipano e dai vari slogan che vi vengono usati, non possono essere altro che guerre per i profitti capitalistici e guerre contro la classe operaia, così , allo stesso modo, la guerra esclude anche la possibilità di scegliere tra la partecipazione condizionata e incondizionata alla guerra da parte dei lavoratori. Al contrario, la guerra, e anche il periodo che precede la guerra, si troverà a essere segnato da una dittatura militare, generale e completa, sia nei paesi fascisti che in quelli antifascisti. La guerra spazzerà via le ultime differenze che rimangono tra le nazioni democratiche e quelle antidemocratiche. E gli operai si schiereranno dietro Hitler nello stesso modo in cui si sono schierati dietro il Kaiser; serviranno Roosevelt nello stesso modo in cui servirono Wilson; e moriranno per Stalin come sono morti per lo zar.

Kautsky non era turbato dalla realtà del fascismo, poiché per lui la democrazia era la forma naturale del capitalismo. La nuova situazione era solo una malattia, una follia temporanea, qualcosa di veramente estraneo al capitalismo. Credeva veramente che una guerra per la democrazia avrebbe permesso al capitalismo di progredire verso il suo fine logico, cioè verso una vera comunità. E le sue previsioni del 1937 includevano frasi come questa: «È giunto il momento in cui sarà finalmente possibile sopprimere le guerre come mezzo per risolvere i conflitti politici tra gli Stati » [*26]. Oppure: «La politica di conquista dei giapponesi in Cina, degli italiani in Etiopia, è l'ultima eco di un'epoca passata, cioè del periodo dell'imperialismo. Difficilmente ci si può aspettare altre guerre di questo tipo» [*27].  Nel libro di Kautsky ci sono centinaia di frasi simili , e a volte sembra che tutto il suo mondo debba essere stato ridotto alle quattro mura della sua biblioteca, alla quale aveva trascurato di aggiungere i nuovissimi volumi della storia recente. Kautsky è convinto che anche senza la guerra il fascismo sarà sconfitto, che l'ascesa del capitalismo riapparirà, e che ci sarà un ritorno al periodo dello sviluppo pacifico verso il socialismo, come avvenne nel periodo precedente al fascismo. Ha illustrato la debolezza essenziale del fascismo, osservando che «il carattere personale delle dittature indica già che questo limita la loro esistenza alla durata della vita umana» [*28]. Credeva che dopo il fascismo ci sarebbe stato un ritorno alla vita "normale", a una democrazia astratta sempre più socialista, e che avrebbe continuato le riforme che erano iniziate nei giorni gloriosi della politica di coalizione socialdemocratica. Ora è ovvio che l'unica riforma capitalistica oggettivamente possibile oggi è la riforma fascista. E in effetti, la maggior parte del "programma di socializzazione" della socialdemocrazia, che essa non ha mai osato attuare, è stato nel frattempo attuato dal fascismo. Così come le richieste della borghesia tedesca non vennero soddisfatte nel 1848, bensì nel periodo successivo della controrivoluzione, anche il programma di riforma della socialdemocrazia, che non poté essere inaugurato durante il periodo del suo regno, è stato attuato da Hitler. Così, tanto per citare solo alcuni fatti, non fu la socialdemocrazia, ma Hitler a realizzare ciò che i socialisti desideravano da lungo tempo, vale a dire l'Anschluss dell'Austria: non fu la socialdemocrazia, ma il fascismo, che stabilì l'auspicato controllo statale dell'industria e delle banche; non fu la socialdemocrazia ma Hitler, che dichiarò il Primo Maggio una festa legale. Un'attenta analisi di ciò che i socialisti hanno veramente voluto fare, e non hanno mai fatto, rispetto alla politica effettiva perseguita dal 1933, rivelerà a ogni osservatore obiettivo che Hitler ha realizzato solo il programma della socialdemocrazia, ma senza i socialisti. Come Hitler, la socialdemocrazia e Kautsky si opponevano sia al bolscevismo che al comunismo. Anche un sistema completo di capitalismo di Stato, come lo è il sistema russo, è stato rifiutato da entrambi a favore di un mero controllo statale. E ciò che i socialisti non osavano fare e che era necessario per realizzare questo programma, i fascisti lo intrapresero. L'antifascismo di Kautsky illustra solo il fatto che, così come un tempo non poteva immaginare che la teoria marxista potesse essere completata dalla pratica marxista, in seguito non riuscì a capire che una politica di riforma capitalistica richiedeva una pratica di riforma capitalistica, che si rivelò essere la pratica fascista. La vita di Kautsky può insegnare agli operai che nella lotta contro il capitalismo fascista è necessario incorporare la lotta contro la democrazia borghese, la lotta contro il kautskismo. La vita di Kautsky si può riassumere, in tutta verità e senza alcuna malintenzione, in queste parole: da Marx a Hitler.

- Paul Mattick, da: "Anti-Bolshevik Communism", pubblicato da Merlin Press, 1978
- fonte Pantopolis -

NOTE:

[1] Der Sozialistische Kampf [La lotta socialista], Parigi, 5 novembre 1938, p. 271.

[2] K. Kautsky, Aus der Frühzeit des Marxismus [Gli inizi del marxismo], Praga, 1935, p. 20.

[3] Ivi, p. 93.

[4] Il Capitale, Libro I, VII, Sezione, Capitolo XXV.

[5] Die Internationale, primavera 1915.

[6] Le lettere di Lenin, Londra, 1937, p. 342.

[7] La rivoluzione sociale.

[8] K. Kautsky, Sozialisten und Krieg [I socialisti e la guerra], Praga, 1937, p. 673.

[9]  Aus der Frühzeit des Marxismus, p. 50.

[10] Ivi, p. 112.

[11]  Ivi, p. 155.

[12] Ivi, p. 273.

[13] Neue Zeit, 1902, n. 5.

[14] K. Kautsky, La concezione materialistica della storia, Berlino, 1927, vol. II, p. 623.

[15] I limiti delle teorie economiche di Kautsky e le loro trasformazioni nel corso della sua attività sono ottimamente descritti e criticati da Henryk Grossman nel suo libro:"La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalistico"(Lipsia, 1929), al quale si rimanda il lettore interessato.

[16] K. Kautsky, Die Materialistische Geschichtsauffassung. vol. II, p. 630.

[17] Ivi, p. 629.

[18] Ivi, p. 431.

[19] Rimandiamo il lettore alla critica approfondita di Karl Korsch all'opera di Kautsky ne "La concezione materialistica della storia. Un dibattito con Karl Kautsky", Lipsia, 1929.

20 L. Trotsky, Dittatura contro democrazia.

21 Sozialisten und Krieg [I socialisti e la guerra], p. 665.

22 K. Korsch, Karl Marx, New York, 1938, p. 92. Vedi anche: Prefazione di Engels all'edizione tedesca de La miseria della filosofia, 1884; e nel secondo volume del Capitale, 1895.

23  Aus der Frühzeit des Marxismus, p. 145.

24 Sozialisten und Krieg [I socialisti e la guerra].

25 Ivi, p. VIII.

26 Ivi, p. 265.

27 Ivi, p. 656.

28 Ivi, p.646.