Stati Uniti: Collasso del mercato del lavoro e Statistiche ombra
- di Marcos Barreira -
Un'economia in ripresa insieme a un tasso di disoccupazione relativamente basso, un'inflazione in calo, così come in calo sono i tassi di interesse, e in aumento gli indici azionari. Sembrava che tutto ciò avrebbe fornito alla democratica Kamala Harris, una base coerente che le permettesse di prevalere su Donald Trump. Due settimane prima delle elezioni, lo scenario era stato confermato per mezzo dell'annuncio che nel terzo trimestre, grazie ai consumi delle famiglie, ci sarebbe stato un aumento del PIL del 2,8%. Sembra però che, malgrado questo, le elezioni siano state giocate al di fuori del campo economico. La solida vittoria dei repubblicani su tutti i fronti, avrebbe dimostrato quale fosse il rischio di ridurre la politica a dei grezzi dati economici grezzi, così come l'importanza di un dibattito centrato su "valori" e "identità". Da tempo, il tema centrare delle elezioni americane era diventato il fattore economico. La frase «It's the economy, stupid» - coniata nel 1992 da James Carville, capo stratega della campagna di Bill Clinton contro George H.W. Bush - ha ormai un'assai lunga carriera. Al termine del mandato di rielezione di Bush, il paese guidava la coalizione militare occidentale post-Guerra Fredda contro quello che era ormai un nemico debole. All'inizio, i democratici avevano attaccato Bush per essersi impegnato in una guerra inutile e costosa quando gli Stati Uniti si trovavano in recessione. Fu allora, dietro le quinte della campagna elettorale, che apparve lo slogan pubblicitario che aveva catturato il vero sentimento degli elettori. E sebbene fosse stato creato come direttiva interna per il team di comunicazione di Clinton, lo slogan di Carville si diffuse invece rapidamente proprio come lo slogan principale della campagna. La crisi finanziaria del 2007, che negli Stati Uniti aveva portato all'insolvenza di diverse istituzioni finanziarie, per poi in seguito diffondersi sotto forma di crisi finanziaria globale, fu un fattore determinante nelle elezioni presidenziali statunitensi. Il tracollo dei prestiti subprime è stato anche un'escalation della crisi seguita allo scoppio della bolla della “new economy” nel 2000. Grazie alla promessa di superare la crisi. venne eletto Il carismatico Barack Obama. Fin dall'inizio del suo mandato come primo Presidente nero degli Stati Uniti, dovette affrontare una difficile negoziazione con il Congresso, che gli consentì di innalzare il tetto del debito del Paese. L'idea di cambiamento si trasformò ben presto in una gestione permanente del rischio di collasso. La crisi globale del 2008 segnò così un punto di svolta. Se gli anni '80 avevano visto il consolidamento di una trasformazione del capitalismo centrata sull'economia nazionale e sulla regolamentazione statale, nel contesto di un capitalismo dei mercati finanziari globali, il 2008, non significò un ritorno al vecchio ordine "nazionale" "regolamentato", quanto piuttosto segnò l'universalizzazione della crisi, fino ad allora limitata ai mercati "emergenti" dell'America Latina, delle tigri asiatiche e della Russia. Alla fine del mandato di Obama, il ritorno della regolamentazione rimase comunque limitato all'espansione della "previdenza sociale" governativa e a una timida riforma del sistema sanitario; due misure orientate a limitare i danni sociali a fronte della crescita demografica economicamente superflua. Otto anni dopo, il pompiere della crisi venne sostituito dalla retorica incendiaria di Donald Trump e dal suo «Make America Great Again». Tuttavia, il quadro della crisi non si attenuò, ma andò peggiorando. Nel 2019, la crescita aveva esaurito la sua forza. Tra gennaio 2017 e gennaio 2021, il tasso di crescita medio annuo degli Stati Uniti era stato del 2,3%: nel bel mezzo della crisi generata dalla pandemia, l'amministrazione Trump aveva ampliato la bolla di liquidità innescata nel 2008 [*1]: nel marzo 2020, la sua amministrazione approvava un piano di emergenza da duemila e duecento miliardi di dollari. Alla fine di quello stesso anno, veniva approvato anche un secondo pacchetto da 900 miliardi di dollari. Il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, ha paragonato le misure di stimolo a quelle di un «investimento in tempo di guerra». Solo per l'aiuto diretto ai disoccupati, vennero stanziati 120 miliardi di dollari. Ciononostante, alla fine dell'amministrazione Trump, la contrazione del 3,5% si rivelò essere stata la peggiore performance mai vista, dalla fine della seconda guerra mondiale. Il fallimento economico, è stato un fattore determinante per la sconfitta di Trump. Nel gennaio del 2021, Joe Biden, a sua volta, ha presentato un nuovo "pacchetto di stimoli", assai simile a quelli delle precedenti amministrazioni, stavolta del valore di mille e novecento miliardi di dollari. Alla fine di quell'anno, il PIL degli Stati Uniti era cresciuto del 5,7%. Tale dato si spiegava essenzialmente con la situazione di partenza estremamente bassa dell'anno precedente. Sotto Biden, tuttavia, il tasso di crescita medio annuo è rimasto allo stesso livello di quello della precedente amministrazione, vale a dire al 2,2%. La ripresa, che era stata consentita dall'amministrazione democratica, è perciò rimasta troppo fragile per riuscire a costituire una solida base per la rielezione. Un altro fattore importante è stato quello della lenta decelerazione dell'inflazione, e dei tassi di interesse. Oltre a tutte queste tendenze al ribasso, il principale aspetto positivo di Biden coincideva con il livello storicamente basso di disoccupazione. Ma anche in questo caso, la performance - che è stata considerata positiva - non è diventata un fattore di mobilitazione degli elettori. Questa discrepanza, tra una "buona" performance economica e una bassa mobilitazione popolare, si spiega a partire dal fatto che gli elettori hanno scelto, non in base alla situazione economica immediata, ma piuttosto in funzione di quelle agende basate sull'identità e sui valori. Un altro modo per spiegare tutta la questione, passa per quello di rivolgere uno sguardo più dettagliato alle statistiche e ai dati ufficiali del governo degli Stati Uniti. Il che ci permette anche di rappresentare una relazione assai meno dicotomica tra fattore economico e "valori/identità".
Cosa nascondono le statistiche sull'occupazione?
Secondo i dati ufficiali, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è di circa il 4%. Queste cifre si riferiscono alla «disoccupazione dichiarata», vale a dire, al numero di persone attive sul mercato del lavoro e che hanno cercato un lavoro negli ultimi 30 giorni. Si tratta pertanto di una disoccupazione di breve durata riferita a quei settori della forza lavoro che sono integrati nel mercato. Secondo il Bureau of Labor Statistics, un'agenzia governativa statunitense [*2], il dato che viene raramente menzionato dalla stampa economica è quello del 7%, che sopravviene qualora consideriamo le persone ai margini del mercato del lavoro: cioè, coloro che hanno cercato un lavoro in un momento o nell'altro degli ultimi 12 mesi. Tuttavia, questa rimane solo la punta dell'iceberg. È noto da tempo che anche la metodologia a medio termine non ci permette di avere una visione realistica. È dal 2004 che John Williams, specialista in rapporti economici governativi, nella sua newsletter ShadowStats monitora i tassi di disoccupazione di lunga durata; vale a dire, quelli che includono le persone che sono state senza lavoro per più di un anno, e che - secondo i criteri ufficiali - sono semplicemente scomparse dalle statistiche. Williams è arrivato alla conclusione - sulla base dei dati ufficiali - che il numero effettivo di disoccupati potrebbe facilmente aver già raggiunto il 15% della forza lavoro; e al culmine della crisi del coronavirus, a causa della natura estremamente flessibile dei contratti questa cifra avrebbe raggiunto la spaventosa cifra del 25%. In questi ultimi due decenni, sostiene Williams, «la qualità dell'informazione pubblica si è deteriorata drasticamente. I problemi legati alla divulgazione hanno riguardato anche dei cambiamenti metodologici nell'approcciare le informazioni economiche, di modo che i principali risultati economici e di inflazione si sono allontanati sia dal mondo reale che dall'esperienza comune» [*3]. Esempi di questa esperienza, e del mondo reale visto al di là delle «statistiche ombra», sono stati rilevati, ad esempio, nei confronti di un rapporto di Bloomberg del 2017 relativo alla disoccupazione strutturale negli Stati Uniti: «Anche con la cosiddetta piena occupazione, ci sono circa 20 milioni di americani che vengono lasciati indietro» [*4]. Tutto questo, negli Stati Uniti, ha portato a un'instabilità politica senza precedenti. Non si tratta solo della danza dei seggi tra i partiti, diventata assai meno prevedibile, ma soprattutto dell'elezione di un "outsider" come Trump; cosa che ha implicato una trasformazione degli stessi partiti. Da tempo il distacco dal mondo reale non è più solo appannaggio dei fanatici teorici della cospirazione. Trent'anni fa, il teorico critico tedesco Robert Kurz aveva già mostrato come «intere popolazioni che godono di un benessere quantificato e di redditi medi elevati vivono in realtà in condizioni miserevoli» [*5]. In special modo,c'è da dire che le statistiche sull'occupazione sono state modificate in modo che così, nel nuovo "capitalismo di facciata", i loro risultati appaiono plausibili. Ora, negli Stati Uniti, questa tendenza è evidente: e così, mentre la strategia democratica si basa su questa falsa normalità, ecco che il demagogo Trump mobilita la rabbia sociale e il risentimento generati dalla realtà della crisi. Durante la sua amministrazione, affermava che negli Stati Uniti «96 milioni di persone cercano lavoro» [*6]. Così, nonostante le cifre distorte che aggravano ulteriormente la crisi, le sue parole finiscono per suonare vere in quello che è un Paese assai diviso socialmente, soprattutto nelle ex regioni industriali o minerarie ormai in rovina, e dove gran parte della popolazione ora dipende dagli aiuti pubblici. Trump ha anche mentito, dicendo di aver creato «la più grande economia nella storia del nostro paese», e che tutto era stato invece rovinato dall'amministrazione Biden-Harris; cosa che oltretutto include fantasie cospirative sulla pandemia. Per molti "sostenitori di Trump", questa ultima crisi e la crisi dei subprime del 2008, sono state create artificialmente in modo da far così cadere le amministrazioni repubblicane. La maggiore capacità di mobilitazione, tuttavia, non proviene da un'immagine falsamente positiva, bensì dalla costruzione del nemico. Trump si è prima richiamato al nemico esterno, la Cina, per poi riferirsi al problema interno: «l'invasione degli immigrati». In entrambi i casi, abbiamo un cambiamento fondamentale nel modello del discorso conservatore. Negli anni '80 e '90, a fronte della globalizzazione e della deindustrializzazione, il discorso ideologico aveva individualizzato il fallimento. Non c'era alcun problema strutturale, ma solo mancanza di motivazione, o di qualifiche. La ricercatrice Arlie Russell Hochschild, nel suo libro "Strangers in Their Own Land" , ha mostrato in che modo questa logica sia stata invertita, ed ora è basata sull'idea che le minoranze vengano favorite perché «saltano la fila» e impediscono in tal modo agli ex “colletti blu” (soprattutto maschi, bianchi, ecc.) di accedere così al “sogno americano”. Ed è a questo punto che la crisi economica e la costruzione dell'identità diventano due fattori che si alimentano a vicenda. Il discorso di Trump sostituisce, alla vergogna individuale del fallimento, il recupero dell'orgoglio del “lavoratore” che vuole ricostruire l'America. Le linee di conflitto che ora emergono, nel capitalismo in crisi, alimentano l'attuale mania di "identità". In un simile contesto, per mobilitare criticamente l'«inclusione delle minoranze», non si può prescindere dalla comprensione della situazione di crisi sociale. Trump, del resto, è riuscito a spostare il discorso identitario verso delle maggioranze economicamente emarginate. Inoltre, gli immigrati, in particolare i latinos, si stanno identificando sempre più con i valori conservatori della "Grande America". La loro motivazione economica è diventata in gran parte inseparabile dall'idealizzazione del libero mercato, dalla flessibilità sul lavoro e dal nuovo fondamentalismo religioso. E in questo senso, non regge più nemmeno la tesi della sinistra, secondo cui l'appello all'identità, di fronte alla "politicizzazione", sarebbe controproducente. Trump e i conservatori stanno avendo successo perché non fanno questa distinzione. Il populismo di destra, ideologicamente fanatico, sta vincendo sia nel dibattito economico che nella politica identitaria.
- @Marcos Barreira - 10.11.2024
NOTE:
[*1] - Il primo grande salvataggio c'è stato sotto George W. Bush, con un totale di 700 miliardi di dollari stanziati per il rilancio di settori chiave dell'economia, come l'industria automobilistica, ma questo non ha impedito la crisi del settore e il fallimento delle grandi aziende.
[2] - Ufficio di statistica del lavoro.
[3] - https://www.shadowstats.com/
[4] - Jeanna Smialek e Patricia Laya, «Con la ripresa della forza lavoro statunitense, un nuovo insieme di problemi, ora blocca molti americani fuori dal mondo del lavoro». Bloomberg, 2017.
[5] - Robert Kurz, "O retorno de Potenkin. Capitalismo de fachada e conflito distributivo na Alemanha", RJ, Paz e Terra, 1993., p., 10
[6] - Jeanna Smialek e Patricia Laya, cit.
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