Sullo sfruttamento e sul razzismo
Obiezioni a una tendenza nella formazione della teoria antirazzista
di JustIn Monday
Nell'antologia "The Diversity of Exploitation", si afferma che non c'è «mai stata quasi alcuna discussione» su «come classe e razza» siano collegate; cosa che potrebbe essere facilmente fraintesa per essere un tentativo di ingraziarsi un favore perenne da parte della sinistra [*Vedi: Eleonora Roldán Mendívil/Bafta Sarbo (Hrsg.), "Die Diversität der Ausbeutung", Berlin 2023 [*1]]. Naturalmente, la questione del collegamento tra le due cose è stata invece discussa, e piuttosto a lungo. L'esito delle discussioni, è sempre stato però lo stesso: vale a dire, che l'una non si fonde con l'altra, e che quindi, riguardo le rispettive lotte, non può essere postulata alcuna gerarchia; e questo per quanto la "questione sociale" sia in qualche modo più generale, rispetto alle diverse discriminazioni, mentre tutto il resto rimane piuttosto confuso e multidimensionale. Ecco perché la maggior parte delle persone si attiene a una sorta di intersezionalità [N.d.T.: come una sorta di intersecazione e sovrapposizione delle diverse identità di ciascuno] che ha fatto di necessità virtù, volendo in tal modo lasciare a tutti, e a ciascuno - nel modo in cui la società l'ha messa insieme - quella che è la propria immagine di sé che viene chiamata "identità". Sembra essere implicito, che ciò sia possibile senza conflitti, senza che "l'identità" dell'uno violi in modo permanente "l'identità" dell'altro. L'unica eccezione a questo è costituita dagli ebrei, i quali devono assicurare il loro "antisionismo", prima di poter chiedere l'immunità. Pertanto, a prima vista, sembra che «l'antirazzismo materialistico», che i curatori del volume rivendicano per sé stessi, sia così solo il titolo pomposo di un'altra affermazione fatta nel contesto di queste ben note scaramucce. Tuttavia, a un secondo sguardo, una valutazione del genere appare troppo facile. Il relativo successo del volume, giunto alla sua quarta edizione, è probabilmente dovuto a una promessa di radicalità in esso contenuta e che si esprime in modo più chiaro nel saggio centrale [*2] del co-editore Bafta Sarbo. In esso, l'autrice "discute" la questione di «come classe e razza» siano tra di esse correlate, e dà una risposta che dimostra come la sua domanda doveva essere intesa come socialmente critica. Il razzismo, secondo il teorema centrale del saggio, è «una forma oggettiva di pensiero nel contesto della relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento» [*3]. Ovvero, leggermente variato: «Il principio della razzializzazione non è quindi arbitrario, nonostante l'inesistenza di razze biologiche o di circoli culturali chiaramente definibili. L'appartenenza a un gruppo razzializzato, è determinata dalla collocazione temporale e spaziale dell'integrazione nella produzione capitalistica come forza lavoro. Il razzismo, è quindi una relazione sociale tra persone che sono incluse nella produzione e che vengono sfruttate in modi diversi» [*4]. Sarbo mira perciò a un concetto di razzismo che non dovrebbe basarsi esclusivamente sulla sistematizzazione delle esperienze. Allo stesso tempo, sembra avere il vantaggio di integrare queste "esperienze" con una descrizione sociologica. È difficile trascurare il fatto che la divisione globale del lavoro ha modelli che corrispondono, almeno approssimativamente, a dei limiti razziali. In questo modo, Sarbo va oltre la tesi intersezionalista, secondo cui i "diversi rapporti di potere" sono "intrecciati in vari modi". Tuttavia, l'intersezionalismo non è all'altezza per altre ragioni, poiché le idee su come gli altri razzializzati si relazionano al lavoro sono già parte del razzismo; e vanno dall'idea che gli "estranei" siano pigri per natura, e se pertanto debbano o meno essere costretti a lavorare, fino all'idea opposta secondo cui, a causa dei loro standard inferiori, sarebbero in grado - e disposti a farlo - di sottrarre lavoro a "noi" . Entrambe queste idee sono razziste dal momento che esprimono giudizi collettivizzanti sull'intero gruppo esterno. Una simile tematizzazione del lavoro non avviene a partire da nessun'altra "relazione di potere". Piuttosto, il razzismo rappresenta un mito relativo al contesto sociale di un mondo nel quale il lavoro costituisce la forma dominante di appropriazione della natura. Le attribuzioni specifiche di classe, per contro, formulano giudizi individuali. Ad esempio, presumono che tutti i non-proprietari dei mezzi di produzione siano individualmente riluttanti a fare le cose, sebbene collettivamente assumano questo come se fosse una predisposizione della loro "razza" o "cultura". Parallelamente a questa individualizzazione, la differenza di classe viene fatta scomparire in un processo di auto-razzializzazione, alla fine del quale troviamo un "noi" nazionale e la sua forza lavoro totale. In contrasto con l'orgoglio lavorativo del “noi” della classe non è fin dall'inizio una categoria che appare come esperienza nella coscienza quotidiana. Tutte le immagini della classe che possono essere riprese in un'immagine identitaria di sé richiedono l'identificazione dell'individuo con la supremazia del processo di valorizzazione capitalistico. Pertanto, in un primo momento appare plausibile quando Sarbo sostiene - seguendo Stuart Hall - che «la relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento, che nel razzismo si esprime come relazione sociale, che esiste materialmente ed è reale, [...] viene distorta solo nell'ideologia razzista, nella forma di una relazione tra razze o culture» [*5] , e così rappresentata. Formulato in questo modo, bisogna che l'emergere della coscienza di classe debba necessariamente andare di pari passo a un rifiuto antirazzista della «deformazione» ideologica della «relazione tra sfruttamento e supersfruttamento». L'«antirazzismo materialista» di Sarbo, trae la sua promessa di radicalismo a partire da questo rifiuto di un'unità di tutti gli sfruttati ciechi al razzismo, e mescolato insieme al tentativo di ricondurlo a qualcosa che non sia di per sé razzista. Ciò rappresenta, in prospettiva, la fine dell'antirazzista «compito di Sisifo». Il super-sfruttamento - che, secondo l'interpretazione dell'autrice, non può essere voluto nemmeno da chi viene regolarmente sfruttato- è da lei identificato come il tallone d'Achille su cui punta il suo antirazzismo. Tutto ciò, sembra essere più facile da combattere, rispetto all'intruglio irrazionale che la maggior parte delle altre teorie antirazziste vede davanti a sé. A differenza di queste ultime, l'eccessivo sfruttamento può essere attaccato concretamente, e rappresenta pertanto un unico punto di rottura.
Il “momentum”, ovvero il falsificatore e il residuo irrazionale
Tuttavia, questa attenzione su un singolo punto di rottura ha un prezzo, che diviene evidente nel modo in cui viene gestito l'irrazionalismo. Dal momento che, naturalmente, i curatori del volume sono consapevoli del fatto che il razzismo non si esaurisce nello sfruttamento. Basandosi sui pogrom che hanno accompagnato la riunificazione, e sul genocidio tedesco degli Herero e dei Nama [N.d.T.: in Namibia, fra il 1904 e il 1907], Sarbo sottolinea esplicitamente che «la violenza razzista [...] per il capitale [...] costituisce una distruzione della forza lavoro, e quindi la base più importante dell'accumulazione del capitale» [*7]. Invece [*8], qui si ipotizza una «dialettica di sfruttamento e distruzione» , la quale è «essenzialmente caratteristica delle formazioni razziste» [*9]. Può essere. Tuttavia, questa ipotesi è in aperto contrasto con la norma succitata, dal momento che solleva la questione del perché solo uno dei due poli di questa presunta dialettica debba essere utilizzato come base per un concetto materialistico di razzismo. Viene in tal modo sollevata la questione dell'altro polo, quello dell'annientamento: il super-sfruttamento e l'annientamento, semplicemente, non sono la medesima cosa; e questo nemmeno Sarbo lo dice. Il super-sfruttamento può essere definito in modo tale da tendere a portare alla morte degli sfruttati, in quanto, a lungo termine, mina quel che è il minimo necessario per la riproduzione della forza lavoro a lungo termine. Secondo questa versione, tuttavia, il sovrasfruttamento è diverso anche dalla violenza razzista, la quale viene attuata consapevolmente, e con odio e sforzo soggettivo. Per far sì che la relazione possa essere definita dialettica, lo sfruttamento dovrebbe contenere anche l'annientamento e, secondo una logica interna, l'uno dovrebbe continuamente confluire e convertirsi nell'altro, e viceversa. A questi problemi, Sarbo controbatte affermando «che il razzismo va inteso come un fenomeno indipendente e contraddittorio che non può essere derivato solo dai bisogni del capitale, ma esistere a partire dal fatto che esso sviluppa un proprio slancio» [*10]. Qui, «slancio» si riferisce a uno sviluppo che inizia dopo che la cosa è stata messa al mondo dalle esigenze del capitale. Da un punto di vista epistemologico, tuttavia, questa soluzione è una vera e propria rivelazione, poiché un concetto deve riferirsi esattamente a quegli aspetti di una cosa in cui essa è originale, proprio perché ha un suo slancio. Per rimanere all'esempio di Marx: un concetto di capitale può essere formato poiché esso appare come una forma reificata di quelle che sono delle relazioni sociali soggette a leggi proprie. Lo slancio del capitale è stato preceduto da un'indipendenza del valore di scambio e del denaro, che porta con sé la costrizione a continuare ad accumulare. In maniera analogica, un concetto analogo di razzismo dovrebbe quindi determinare, anch'esso, con precisione il modo in cui ottiene la sua indipendenza. Sarbo vuole seguire il modello marxiano, ma però limita il suo concetto alla funzione che la cosa da comprendere svolge in funzione di qualcos'altro; vale a dire in funzione dell'accumulazione del capitale. La conseguenza è che il processo di, per così dire, di “snaturamento” rimane non discusso, e questo sebbene la promessa iniziale di radicalità richieda invece una risposta alla domanda su «come, da questa differenza economica, dal sovra-sfruttamento della forza lavoro coloniale, nasca l'ideologia razzista» [*11]. Tuttavia, il testo non mostra un vero e proprio processo di sviluppo. La sezione “Razzismo come ideologia” - che dovrebbe sopperire a questo compito - si limita a descrivere solo gli effetti che vengono prodotti da una "ideologia" in tal modo distorta distorta, limitandosi a sottolineare che «la razza, una categoria creata dall'uomo, insieme a una differenza prodotta economicamente, appare come se fosse una differenza naturale» [*12]. Tuttavia, il riferimento alla naturalizzazione non rappresenta la prova che la differenza naturalizzata sia stata creata da una distorsione della differenza economica. Al contrario: visto che la natura, almeno in questo contesto, viene considerata come un sinonimo di «immutato» e «immutabile», quello che viene detto è che, semplicemente, si potrebbe trattare di una forma feticistica, se non addirittura una «forma-pensiero oggettiva», visto che l'essenza dell'apparenza materiale non può più essere vista. Per dimostrare che la "razza" è davvero qualcosa di «simile al feticismo del denaro» [*13] mancano due punti cruciali: in primo luogo, non si può presumere che una genesi così poco chiara sia basata sul feticismo. Piuttosto, le ambiguità potrebbero anche essere dovute a dei meccanismi di difesa soggettivi, o psicologici, i quali continuano a mantenere nell'inconscio quelle che sono le connessioni importanti per il presunto feticcio. Nel caso del razzismo, abbiamo molti elementi che suggeriscono che sia proprio questo, perché, contrariamente al feticismo del denaro, le attribuzioni razziste non solo sono più diversificate in termini di contenuto, ma la loro intensità si distribuisce in maniera diversa tra i rispettivi membri della società. Nessuno può sfuggire alla partecipazione all'ordine razzista attraverso un pensiero non razzista. E tuttavia, i tentativi di disimparare il pensare e l'agire secondo categorie razziste non si traducono necessariamente in un solo stesso tipo di perdita di realtà, che potrebbe risultare dal tentativo di disimparare il riconoscimento soggettivo del feticcio della merce o del denaro. E questa è una chiara indicazione del fatto che, dopo tutto, il razzismo non è una forma di pensiero oggettiva. In secondo luogo, andrebbe dimostrato che il feticcio si basa esattamente sulla presunta relazione e su nessun'altra. Nel caso del feticismo del denaro, questo è abbastanza semplice, poiché esso è indiscutibilmente legato alla forma-valore, dato che il denaro stesso vale qualcosa, e ha un numero gestibile di proprietà, tutte riconducibili ad alcune funzioni nelle transazioni economiche. "Razza" o "cultura", invece, da parte loro, includono anche delle idee sull'etica del lavoro e sull'abilità delle persone razzializzate, così come anche delle idee sulla loro sessualità. Inoltre, i razzisti preferiscono affermare la costante della “razza” e della “cultura” per mezzo di una teoria dell'ereditarietà, e non sotto forma di teoria economica. Si potrebbe quindi sostenere, con una giustificazione almeno pari, che “razza” e “cultura” sono feticci della sessualità o delle relazioni di genere. A favore di quelle teorie postmoderne del razzismo che si basano sulla comprensione di Foucault della biopolitica, bisogna almeno notare in questo contesto che esse si sforzano di prendere in considerazione tutti questi aspetti del pensiero razzista. Rimanere indietro rispetto alla comprensione di Foucault è semplicemente riduttivo. Da questo punto di vista, l'antirazzismo "materialista", e quello intersezionale sono sulla stessa barca: nessuno dei due può rappresentare la connessione che viene creata dal concetto di biopolitica. È in questo modo che nascono le diverse "identità", che si suppone si limiterebbero a sovrapporsi solo l'una all'altra, ma senza ferirsi a vicenda.
La definizione di super-sfruttamento
La questione se sia o meno possibile fornire i due punti mancanti richiede uno sguardo al nucleo economico della tesi, vale a dire, alla presunta "relazione reale" tra sfruttamento e super-sfruttamento. Da un lato, "l'antirazzismo materialista" considera la relazione tra persone qualitativamente diverse, mentre dall'altro lato, vede che la differenza insorge solo a causa della variazione quantitativa. Il "circa" rispetto al termine super-sfruttamento è teso a indicare che si tratta di una questione che è "più o meno lo stesso", vale a dire lo sfruttamento. In questo modo, lo sfruttamento andrebbe oltre sé stesso. La definizione è quella secondo cui: il super-sfruttamento «si ottiene pagando un salario più basso rispetto alla media sociale, o al limite inferiore rispetto a quello socialmente negoziato; oppure estendendo l'orario di lavoro oltre quelli che sono i limiti della normale giornata lavorativa» [*14]. Misurata alla luce di questa definizione, la variante riduzionista, secondo la quale il rapporto tra sfruttamento e super-sfruttamento rappresenta l'unica base materiale del razzismo, è in realtà già fuori dai giochi. Comunque si formi, nelle singole costellazioni storiche, il rapporto, definito in questo modo, esiste solo perché i livelli salariali e le ore di lavoro di due gruppi sono stati confrontati tra loro per poter ottenere intuizioni, e criticare la differenza. Rispetto al rapporto tra lavoro e capitale - che è una realtà dal momento che le maschere caratteriali di entrambe le parti hanno diritti e doveri nel processo lavorativo, in quanto scambiano la forza lavoro con il denaro e viceversa - il rapporto tra sfruttamento e super-sfruttamento invece non ha alcuna realtà. Non esiste una forma sociale in cui, nella loro prassi, le persone sfruttate si riferiscano al sovra-sfruttato. Tuttavia, la relazione che può esistere tra questi due gruppi empiricamente costruiti deve pertanto essere di tipo diverso. La scienza conosce molte di queste relazioni, dalla bilancia commerciale con l'estero, al tasso di natalità. Queste condizioni, però, non vengono a essere mediate attivamente, ma piuttosto passivamente, dalla totalità. A partire da questa affermazione, lo sfruttamento e il super-sfruttamento possono al massimo essere visti come momenti parziali di un contesto più ampio. Tuttavia, il concetto di tale connessione deve poi includere anche tutte quelle forme di mediazione attiva che pongono lo sfruttato e il sovra-sfruttato in una relazione che non è solo costruita empiricamente. Ma ciò significa che non si tratta solo di un unico elemento di errore. Tuttavia, un'analisi più attenta della definizione proposta da Sarbo rivela che essa nasconde addirittura una forma di mediazione attiva di cui occorre tenere conto: si tratta del limite inferiore, negoziato, del salario, il quale, grazie al contratto collettivo, contiene in realtà una forma attiva che comprende le maschere caratteriali rese armonizzate in “partner di contrattazione collettiva”. Ma, volendo, questa forma può essere considerata anche solo come una spiegazione per le varianti del razzismo a partire dall'ultimo terzo del XIX secolo in poi, poiché prima non esisteva: o i lavoratori non erano affatto organizzati, o le loro associazioni erano vietate. La cosa ha origine nel secondo terzo del XIX secolo, e viene legalizzata in Gran Bretagna nel 1872, in Francia nel 1884 e in Germania nel 1897. Ciononostante, la contrattazione collettiva come spiegazione rimane fuori discussione, dal momento che ogni esclusione dal processo negoziale, o dal contratto collettivo negoziato deve già essere basata sulla differenza "distorta", e non su quella economicamente reale, che verrebbe distorta. Se così non fosse, la legge dovrebbe discriminare tra sfruttati e sovra-sfruttati in base a dei criteri economici, e non in base a confini nazionali, alla nazionalità o allo status di residenza. Per spiegare il razzismo delle epoche precedenti, Sarbo rimane fin dall'inizio solo al "rapporto con la media", la cui esistenza e il cui ammontare però non sono stati negoziati e poi fissati. Questo varia a seconda della situazione del mercato (del lavoro), ed è noto senza una ricerca empirica, oltre a essere viziato per il solo fatto che i valori inferiori alla media sono già inclusi in ogni formazione media. È pertanto discutibile che le differenze qualitative nel razzismo, siano la distorsione di tali differenze quantitative fluide. Tanto più che le fantasie razziste al riguardo, avvertono rispetto a un vantaggio costante per i "sovra-sfruttati", e mirano a un trattamento ineguale. In questo modo, esprimono il desiderio di un confine chiaro tra "noi" e "loro", che al momento non esiste.
Da dove questo desiderio provenga, diventa ovvio allorché si considera anche il concetto marxiano di sfruttamento. Lo sfruttamento consiste – sempre secondo Sarbo – nel fatto che «il salario pagato ai lavoratori si misura in base a quanto è necessario in media per riprodurre la forza lavoro, e non in base al valore prodotto dai lavoratori» [*15]. Lo sfruttamento, la ragione dell'esistenza del capitale, è quindi l'appropriazione di questa differenza chiamata plusvalore. La "media" non si riferisce al livello dei salari, bensì al valore delle merci necessarie alla riproduzione della forza lavoro. Il valore della merce forza-lavoro non si basa su un processo di negoziazione, ma viene determinato soprattutto a partire dalla produttività del capitale, che produce le merci necessarie alla riproduzione. Il salario deve essere "misurato" rispetto a questo valore, poiché i suoi beneficiari non possono nutrirsi se il salario si trova permanentemente al di sotto di esso. Se questo concetto di sfruttamento viene considerato valido, la popolazione mondiale in continua crescita, di cui una percentuale enormemente alta è stata ed è ancora razzializzata nel corso della storia, non può essere stata permanentemente sovra-sfruttata. Il concetto di razzismo di Sarbo, richiede che il super-sfruttamento «non designi uno stato di emergenza, ma piuttosto una relazione, la quale rappresenta una pietra angolare dell'accumulazione capitalista»[*16]. Si può sostenere che l'indifferenza alla vita e alla morte delle persone razzializzate all'estero sia immanente al razzismo. Tuttavia, questa differenza potenzialmente qualitativa non favorisce l'accumulazione in modo che essa ottenga profitti più elevati. Tutt'al più, la realizzazione dell'indifferenza distrugge la forza lavoro, e quindi soddisfa il criterio con cui Sarbo dà inizio allo "slancio" del razzismo. È una chiara indicazione del fatto che questo non va separato dal concetto materialistico. Se la dinamica del razzismo contraddice gli interessi capitalistici, Senza che ciò possa essere ricondotto agli interessi imposti dal proletariato, l'irrazionalità di entrambe le parti va presa in considerazione per quanto riguarda il formarsi del concetto, e deve essere determinata la sua forma. Il problema diventa ancora più chiaro quando si cerca di capire la relazione tra sfruttamento e super-sfruttamento nel caso della schiavitù [*17]. Da un lato, Sarbo fa precedere il suo saggio con la citazione: «La schiavitù non proviene dal razzismo, ma è il razzismo che proviene dalla schiavitù», di Eric Williams, mentre dall'altro mostra chiaramente che il razzismo gioca un ruolo nel processo economico. Tuttavia, la schiavitù rientra interamente in quell'epoca del capitalismo, nella quale i salari del proletariato emergente – incontestati da tutte le parti – erano appena sufficienti per sopravvivere. Naturalmente, i lavoratori schiavi avevano esattamente gli stessi bisogni riproduttivi dei lavoratori salariati. Da un punto di vista quantitativo, al capitale non importa in quale forma esso fornisca il valore delle merci necessarie alla riproduzione della forza-lavoro. Pertanto, la differenza di forma che ha reso la schiavitù uno scandalo a sé stante rimane il fattore decisivo: gli schiavi non erano pagati di meno, ma non erano pagati affatto dal mmento che venivano forniti come proprietà dipendente. Si può quindi supporre che in realtà le "caratteristiche razziali" fissate nel razzismo schiavista, siano legate a questa differenza reale, vista nel senso di una critica materialistica della forma. Soprattutto perché gran parte della mitologia associata legittimava la negazione della capacità delle persone di funzionare come soggetti liberi e autonomamente disciplinati dalla propria forza lavoro. Questa è la prossimità del razzismo schiavista al razzismo coloniale, che i colonizzatori usarono per giustificare la loro missione civilizzatrice che consisteva nel costringere gli indisciplinati a comprendere la natura del lavoro. Poiché non si trattava dello sfruttamento della forza lavoro, ma più fondamentalmente dell'educazione e della formazione di una forza lavoro sfruttabile, questo spiega anche perché nel razzismo le idee sul lavoro si mescolano a quelle sulla sessualità: nei miti di origine del soggetto ancora da formare, le due cose si fondono in modo indifferenziato l'una nell'altra [*18]. Sarbo menziona vari aspetti di questo processo [*19], ma li tratta come illustrazioni secondarie della differenza tra sfruttamento e sovrasfruttamento che è al centro del suo lavoro.
Così facendo, le sfugge il fatto che è proprio questa differenza a essere più immaginaria che reale. La differenza è voluta e rivendicata sia dal capitale che dal lavoro, come dimostra la storia del razzismo negli Stati Uniti fino alla Guerra Civile. Il lavoro degli schiavi sembrava particolarmente redditizio per i proprietari di schiavi, e questo perché la differenza immaginaria ipostatizzava il loro reale controllo sugli schiavi. I proprietari di schiavi erano convinti che le forme di rifiuto si alcune prestazioni specifiche, da parte della schiavitù, potessero essere contrastate per mezzo di una brutale disciplina fisica,resa possibile a partire dal fatto che non c'era la paura di perdere il salario. Tuttavia, le lesioni inflitte hanno in tal modo ulteriormente limitato l'efficienza della loro proprietà, e hanno pertanto ridotto la sua capacità di lavorare più di quanto fosse il valore prodotto. È nell'ambito di questo conflitto che è nata la fantasia razzista, secondo la quale gli schiavi incarnano una forza lavoro naturalmente data, pura e pertanto indistruttibile, il cui lavoro non richiede soggettività. Allo stesso tempo, i proprietari di schiavi hanno approfittato della necessità di provvedere agli schiavi, spacciandola come bontà patriarcale e mostrandola come segno di civiltà superiore. I proletari, che non erano ancora stati omogeneizzati nella loro forma di bianchi, ed erano immigrati dall'Europa, a loro volta si scandalizzavano del fatto che gli schiavi stessero meglio di loro stessi, a causa della sicurezza dell'approvvigionamento, per quanto non dovevano essere annoverati tra i civilizzati. Così, una parte dei proletari ha propagandato l'abolizione della schiavitù, ma lo ha fatto solo per richiedere il ritorno in Africa di tutti gli schiavi liberati, non meno velenosamente paternalistici di quanto lo fossero i loro "nemici di classe". La giustificazione razzista per la richiesta , era quella secondo cui in America non erano in grado di sopravvivere come lavoratori salariati doppiamente liberi. Tutte queste componenti elementari dell'impeto del razzismo, sono permeate da delle formazioni irrazionali, perché immaginarie. Esse, al momento della loro creazione, si trovavano già presenti anche su entrambi i lati della relazione di classe, sebbene con motivazioni diverse. E questo costituisce il caso del secondo esempio di Sarbo: il razzismo tedesco contro i lavoratori migranti dopo la seconda guerra mondiale. Certo, il termine “sovrasfruttamento” sembra più ovvio in questo caso, perché nel frattempo sono esistiti gruppi salariali negoziati e i cosiddetti “lavoratori ospiti” hanno dovuto riprodursi a un livello inferiore alla media. Tuttavia, gli accordi di reclutamento con i paesi di origine prevedevano gli stessi contratti collettivi sia per i lavoratori migranti che per i membri della "razza superiore" post-fascista locale. E anche se l'uguaglianza sancita dagli accordi è il risultato di pressioni politiche da parte dei sindacati, e anche se in pratica c'erano certamente molti modi per aggirare le disposizioni, tali accordi non possono essere fatti diventare il fulcro del razzismo. Le associazioni dei capitalisti vedevano i "lavoratori ospiti" come manodopera a basso costo, nonostante i salari concordati collettivamente, perché i costi dell'istruzione e della formazione erano già stati sostenuti nei paesi di origine. Inoltre, inizialmente si prevedeva che anche la pensione sarebbe ricaduta sui paesi di origine, dal momento che il "lavoro ospite" sarebbe di nuovo sparito, non appena il "corpo del popolo" ospitante avesse rimediato alla carenza di manodopera che aveva motivato tutto ciò. Come era accaduto per la schiavitù, l'idea dell'assenza di soggettività degli altri continuava a essere al centro del razzismo. Tuttavia, nel frattempo, la situazione era cambiata in modo tale che non era più la forza lavoro individuale a essere delimitata in modo immaginario, bensì la forza lavoro sociale totale, la quale, nello Stato autoritario, si era auto-razzializzata. Inoltre, la migrazione di manodopera dell'epoca, una volta stabilita la pressione capitalistica generale al lavoro, era volontaria. I migranti, che secondo il teorema del sovra-sfruttamento avrebbero dovuto essere sfruttati nei loro Paesi d'origine, almeno nel caso in cui si fosse trattato di ex Stati coloniali europei, dovevano trovare relativamente attraente il loro “sovra-sfruttamento” in Germania, altrimenti non sarebbero partiti. Questo dimostra due cose: in primo luogo, le gerarchie che appaiono razzializzate sono quelle del processo lavorativo, in cui il processo di valorizzazione gioca solo un ruolo generale. Il capitale cerca, ad esempio quando si lamenta della carenza di manodopera qualificata, di procurarsi la forza lavoro mancante in base alla forma materiale dei suoi mezzi di produzione. In secondo luogo, il capitale deve agire contro il razzismo della riproduzione già altamente istituzionalizzata della forza lavoro totale in forma nazionale, al fine di imporre l'importazione di forza lavoro. Gran parte dello slancio razzista di quest'epoca era dovuto alle istituzioni che volevano respingere il “lavoro ospite” come elemento estraneo al “corpo del popolo”. In questo conflitto, ancora oggi il capitale appare occasionalmente come una forza antirazzista. Ciò avviene sempre quando si cerca di conciliare i suoi presupposti irrazionali, tra cui la disponibilità delle masse a fungere da forza lavoro, con le esigenze della razionalità tecnica delle forze produttive. Si tratta di una rivendicazione di disposizione e identità che è fondamentalmente permeata da idee razziste. Il razzismo ha quindi aspetti economici funzionali. Ma anche sotto questi aspetti, la quantità di plusvalore potenziale costituisce solo la questione secondaria più importante del mondo. L'aspetto principale del razzismo da un punto di vista economico, invece, è il suo contributo a disciplinare gli individui come portatori di forza lavoro. Ad ogni modo, il razzismo è sempre stato più complesso e articolato rispetto ai suoi aspetti economici: nella sua attuale manifestazione in forma di razzismo di crisi, ha sviluppato nuovi elementi che non vanno più a vantaggio dello sfruttamento economico del bacino di manodopera, ma mirano a vietarne la svalutazione. Lo dimostrano al meglio quelle fantasie secondo le quali “noi” non possiamo più permetterci la prosperità, motivo per cui “noi” non dovremmo rinunciare al lavoro. I razzisti di oggi chiedono l'esclusione dei razzializzati da quel lavoro che essi difendono in quanto loro proprietà. Questo non significa affatto che essi sarebbero soddisfatti se il contributo di questi altri alla riproduzione del capitale, con cui vengono identificati, cessasse effettivamente. In ogni caso, i razzisti, soprattutto quando si arrovellano sull'“identità” e la “sovranità” della Nuova Destra, non intendono più riconoscere le forme della propria dipendenza dal capitale, e quindi anche dalle sue altre forze di lavoro. In questo modo, svaniscono sullo sfondo tutti quegli elementi che legittimano e/o eroicizzano la funzione del lavoro al servizio del capitale. Il razzismo passa quindi, dall'essere un mito nel contesto sociale di un mondo in cui il lavoro è la forma dominante di appropriazione della natura, a essere un mito in cui il lavoro, come ogni altra forma di mediazione sociale, viene presupposto come se fosse cultura, la quale, come la natura, è immediata.
- JustIn Monday - da "Über Ausbeutung und Rassismus" su https://www.phase-zwei.org/ -
NOTE:
1 - Cfr. Eleonora Roldán Mendívil/Bafta Sarbo (eds.), The Diversity of Exploitation, Berlino 2023.
2 - Bafta Sarbo, Razzismo e relazioni di produzione sociale, in: Mendívil/Sarbo, Diversità, 37-63.
3 - Ibidem, 44s.
4 - Ibidem, 58.
5 - Ibidem, 61.
6 - Ibidem, 63.
7 - Ibidem, 60.
8 - Sarbo rifiuta la tesi diffusa in questo contesto secondo cui le differenze razziali non riflettono gli interessi del capitale, quanto piuttosto la competizione tra i proletari. Il suo ragionamento è singolare, ma poiché la competizione non fornisce una spiegazione, non mi soffermerò ulteriormente su questo punto.
9 - Sarbo, Razzismo, 60
10 - Ibid.
11 - Ibidem, 47.
12 - Ibidem, 48.
13 - Ibid.
14 - Ibidem, 44.
15 - Ibid.
16 - Ibidem, 43.
17 - Quanto segue riguarda la schiavitù sotto il capitalismo, cioè, prevede la contemporanea esistenza di lavoro salariato libero. Le società schiaviste storicamente precedenti devono essere trattate in modo diverso. Nella genesi psichica di ogni singolo soggetto, inizialmente non c'è né l'uno né l'altro, e l'origine di entrambi è stabilita solo retrospettivamente, il che è un argomento correlato ma diverso.
18 - Nella genesi psichica di ogni singolo soggetto, inizialmente non c'è né l'uno né l'altro, e l'origine di entrambi è stabilita solo retrospettivamente, il che è un argomento correlato ma diverso.
19 - Sarbo, Razzismo, 41 ss.
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