giovedì 28 novembre 2024

Pensando ad altro…

La mente vagabonda esplora l'universale preoccupazione umana per la distrazione e i metodi che anticamente abbiamo trovato per resisterle. Un’opera che ci proietta nel mondo dei monaci del Medioevo, facendoci scoprire che nemmeno una vita di preghiera e isolamento è mai stata libera dalla deconcentrazione. La riduzione della soglia d’attenzione sembra una caratteristica tipica della nostra era ipertecnologica, un effetto dell’influenza dei social media e dell’enorme quantità di stimoli che riceviamo. Quanti libri non finiti rimangono sui nostri comodini? Chi può dire di essere in grado di lavorare senza guardare continuamente lo smartphone? Tutti, oggi, ci sentiamo più distratti. Ciò che invece ci rivela la storica Jamie Kreiner è che anche i più impensabili dei nostri avi, i monaci e gli eremiti medievali, avevano il nostro stesso identico problema. Dall’asceta del IV secolo Simeone Stilita, che diede avvio alla pratica di vivere su una colonna, alla badessa del VII secolo Sadalberga, che si imponeva lunghi periodi di totale silenzio, fino a Ugo di San Vittore, che nel XII secolo scrisse una guida su come tenersi occupati costruendo mentalmente l’immagine di un’arca, ognuno di loro ha dovuto inventarsi ogni giorno un modo per combattere il demone della distrazione. Questo libro ci mostra come la lotta per rimanere concentrati sia qualcosa di «più antico della nostra tecnologia», invitandoci a imparare da questi antichi maestri ad avere fiducia nella capacità della nostra mente di cambiare. Perché è solo imparando ad accettare le nostre mancanze che potremo superarle, dato che nemmeno nascondendoci in una remota caverna saremo mai in grado di fuggire da noi stessi.

(dal risvolto di copertina di: Jamie Kreiner, "La mente vagabonda. Cosa ci insegnano i monaci medievali sulla distrazione". Traduzione di Luisa Agnese Della Fontana. il Saggiatore, pagg. 352, € 26)

Impariamo dai monaci a pensare di pensare
- Sulla concentrazione. Per Jamie Kreiner la mente costruisce storie complesse e le condivide come facevano i cenobiti quando si raccontavano le visioni, incerti se fossero opera del demonio o immagini della fantasia -
di Marco Belpoliti

Davvero come sostiene qualcuno gli smartphone e i social media sono fonte continua di distrazione? Non sarà vero proprio il contrario: questi strumenti catturano la nostra attenzione, la organizzano e la sfruttano anche economicamente. La distrazione, come mostrano le storie dei monaci dei primi secoli del cristianesimo, è più antica delle nostre tecnologie digitali. Loro, uomini religiosi del passato, lottavano tenacemente per non essere distratti senza avere nessuno strumento a portata di mano se non il proprio pensiero, come racconta Jamie Kreiner in La mente vagabonda, libro il cui sottotitolo recita: Cosa ci insegnano i monaci medievali sulla distrazione. Lo scopo di questi consacrati era quello di concentrarsi su Dio, ma erano continuamente distratti da altri pensieri, così alcuni decidevano d’allontanarsi dalle comunità cenobitiche in cui vivevano per cercare luoghi in cui appartarsi al fine di condurre una vita solitaria, da anacoreti, e tuttavia anche lì erano inseguiti dai demoni tentatori, come racconta Evagrio Pontico in Gli otto spiriti malvagi. Lui stesso aveva trovato rifugio in una zona a ovest del delta del Nilo. Sono stati questi uomini e donne religiose, che hanno ingaggiato una lotta mentale con tutto ciò che li sviava dal pensiero del Creatore, a inventare tecniche psichiche per restare concentrati nella preghiera, sino al punto da creare motivi metacognitivi, come si dice oggi: pensando al pensare cercavano di riportare ordine nel caos intellettivo che gli spiriti del male producevano in loro. Secondo questi uomini del passato la distrazione ha tuttavia una origine genetica: deriva dalla separazione iniziale dell’umanità da Dio. Furono Adamo ed Eva nel momento in cui disubbidirono a Dio, scrive un asceta, a scegliere di concentrarsi su sé stessi perdendo così per sempre il Paradiso Terrestre.  

Nei trattati monastici ci sono vere e proprie analisi della distrazione a partire dall’idea che sia provocata prima di tutto da una volontà forte e non, come comunemente si crede, da una volontà debole. E tuttavia Evagrio Pontico racconta come nei monasteri fosse sempre in agguato il demone meridiano che sviava l’orante dal suo compito: leggendo il monaco è preso dal sonno, si stiracchia, stropiccia gli occhi, distoglie lo sguardo dal libro e dopo averlo piegato «lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo». La concentrazione e la distrazione, come mostra il libro di Jamie Kreiner, conducono in una sorta di “cul de sac” che Joshua Cohen, scrittore e campione di memoria, ha così brillantemente sintetizzato: «Diventare consapevoli dell’attenzione è creare attenzione. Diventare consapevoli dell’attenzione è distruggere attenzione». Detto altrimenti: ciò che cattura la nostra attenzione, impedendo alla nostra mente di distrarci, costituisce a sua volta una forma di distrazione. Che fare? Davvero la distrazione è il nemico quotidiano con cui condurre anche oggi una guerra continua sino a opporgli una resistenza estenuante e necessaria come facevano i monaci e le monache medievali, sino a suggerirci d’imitare, almeno metaforicamente, gli stiliti come il celebre Simone, cui Luis Buñuel ha dedicato un bellissimo film, Simon del deserto? Intanto non tutti i distratti sono uguali; ne esistono di vario tipo. Gli eremiti li avevano già riconosciuti nel corso dei loro esercizi, ad esempio: i distratti dispersivi e i distratti assorti, come ha spiegato in un suo libro Alessandra Aloisi, La potenza della distrazione (il Mulino). Proprio i secondi sono quelli che sviluppano uno degli elementi decisivi del pensare stesso. Dannandosi l’anima alla ricerca della concentrazione su Dio gli anacoreti hanno infatti mostrato che la nostra mente non stacca mai anche quando è impegnata a fare altro, e quando vaga lontano dal compito assegnato finisce comunque per trovare qualcosa d’imprevisto e d’inatteso. L’ha spiegato bene un professore di psicologia, Michael C. Coballis in un suo libro, La mente che vaga (Cortina), secondo cui senza distrazione non ci sarebbe pensiero. Proprio muovendosi con la mente qua e là, seguendo sentieri strani, immagini mnemoniche del passato, ricordi ricorrenti, o altre visioni similari, come quelle che Italo Calvino racconta nella sua lezione americana sulla Visibilità, accade che qualcosa di nuovo piova dentro la nostra fantasia, come dice il verso dantesco di Purgatorio (XVII, 25) citato dall’autore delle Cosmicomiche, il quale distraendosi a leggere le pagine di Scientific American ha finito per trovare le frasi necessarie a far viaggiare nello spazio e nel tempo il suo proteo palindromo Qfwfq.

La teoria della mente è un campo che i monaci hanno arato con costanza e determinazione scoprendo le proprietà ricorsive del pensiero stesso, in cui l’assoluta libertà coincide sovente con la totale ossessività, così che i confini tra l’una e l’altra sono altamente labili. In realtà, come gli anacoreti della Cappadocia avevano compreso, noi siamo distratti perché abbiamo un corpo e una mente ad esso collegata. Anche nel sonno conosciamo forme di distrazione affascinanti come il sogno e le allucinazioni. Allo stesso modo la distrazione non è solo un elemento che ci isola, poiché come spiega Coballis, dal momento che ogni comprensione è immersa in altre comprensioni, e non siamo mai soli nei pensieri dei pensieri. C’è un’altra idea che il professore di psicologia suggerisce nei suoi studi: la connessione che esisterebbe tra il vagare con la mente e la narrazione delle storie. Proprio come mostrano le visioni dei monaci del deserto la mente umana possiede grandi capacità di costruire racconti complessi, ingarbugliati, contorti e anche di condividerli con gli altri sotto forma di storie, come facevano quei cenobiti quando si raccontavano l’un l’altro le loro visioni incerti se fossero opera del demonio o invece immagini liberate dalla loro stessa fantasia. Poi c’è un’altra buona ragione per essere distratti. L’ha scritto Montaigne: pensare ad altro alimenta la speranza, un sentimento di cui oggi abbiamo molto bisogno.

- Marco Belpoliti - Pubblicato su Domenica del 17/3/2024 -

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